Adnan
Selçuk Mızraklı, Ahmet Türk, Bedia Özgökçe Ertan erano stati eletti al primo turno delle recenti amministrative
turche, quelle in cui il partito di governo Akp ha perduto le maggiori città
del Paese. I tre guidavano rispettivamente: Dıyarbakır, Mardin e Van. Pochi
giorni fa un intervento del ministro dell’Interno li ha rimossi dall’incarico
in base alle leggi speciali sulla sicurezza e il terrorismo entrate in vigore
dopo il tentativo di golpe del luglio 2016 e non più cancellate. Con queste
misure il presidente Erdoğan ha compiuto un fenomenale repulisti in molti
settori della nazione. Esercito, polizia, magistratura, amministrazione
pubblica, istruzione e università hanno conosciuto un ricambio di personale con
arresti, pensionamenti, dimissioni d’ufficio e ‘volontarie’ subìte da decine di
migliaia di cittadini. Nell’occhio del ciclone la rete Hizmet dei cosiddetti fethullaçi,
i seguaci di Fethullah Gülen, che sono spariti (almeno quelli noti
all’Intelligence interna) in tutte le strutture in cui erano collocati in ruoli
anche di prestigio. Ma l’apparato di regime erdoğaniano ha usato quel tragico evento
che, comunque produsse 290 vittime e 1440 feriti, per colpire l’opposizione,
specie quella da lui maggiormente temuta del Partito Democratico dei Popoli.
Che dal novembre 2016 vede il co-presidente
Selahattin Demirtaş in galera, come peraltro una dozzina di deputati del
partito per la rimozione dell’immunità parlamentare, cui si sono aggiunte
accuse di presunti legami “col terrorismo del Pkk”. Nella condizione di recluso
Demirtaş ha partecipato alle presidenziali del 2018 (8.4% i suffragi ottenuti)
e la situazione sua e dei compagni di partito ha spinto la “Corte Europea” a
condannare la Turchia per la violazione di alcuni articoli della Carta dei
diritti dell’uomo e una compressione della democrazia nel Paese. I tre sindaci rimossi
avevano ampiamente vinto la consultazione nei propri distretti col 62.93%,
56.24% 53.83% di voti, infliggendo a tre candidati dell’Akp giunti secondi dal
28% al 13% di distacco. Finora non era accaduto nulla, specie dopo la batosta
ricevuta a Istanbul dal partito di maggioranza. Lì Erdoğan aveva spinto per
ripetere un confronto che il suo candidato e uomo di governo Yıldırım, aveva
perduto contro l’astro nascente del partito repubblicano: Ekrem İmamoğlu.
Questi in prima battuta era avanti di dodicimila preferenze poi, col ritorno
alle urne il 23 giugno, ha scavato l’abisso di ottocentomila schede a suo
favore. Uno smacco che ha lasciato il segno, con la spinta offerta dalla
comunità kurda della metropoli che, anziché astenersi, ha dato fiducia allo
sfidante capace di battere il regime.
Ora in pieno agosto giunge la reprimenda del dicastero dell’Interno che cerca pretesti nelle misure antiterrorismo per limitare il profondo radicamento della comunità kurda nelle terre abitate e amministrate con rigore dagli esponenti dell’Hdp. Nonostante gli annosi boicottaggi delle risorse finanziarie spettanti a quei distretti che Ankara spesso ritarda oppure cancella. Peraltro figure come Türk ben conoscono le azioni repressive. Durante i molteplici arresti del 2016 anche lui finì detenuto, venendo rilasciato dopo quattro mesi solo per le precarie condizioni di salute. Eppure non s’è fermato, s’è rispeso per la sua gente. La rimozione da sindaco e quella dei colleghi del sud-est non è una novità nella cronaca politica turca anche recente, il pretesto di cavilli burocratici è stato già usato. S’aggiunge l’intento di svilire le scelte di rappresentanza di quella comunità, rendendo vano il cospicuo patrimonio elettorale e magari inducendo fra gli elettori un senso di frustrazione per un’inutilità di orientamento del voto su persone che rischiano d’essere messe fuorigioco da “motivi di sicurezza nazionale”. La mossa del regime è anche quella di logorare la fiducia dei kurdi sulla possibilità di darsi figure di riferimento e strumenti di contropotere locale.
Enrico Campofreda
Pubblicato il 27 agosto 2019
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