Iniziare l’anno da gennaio è una convenzione: per gli antichi Romani iniziava a marzo (la primavera) e per conto mio ormai il vero capodanno è il primo settembre. Mentre l’assalto a Capitol Hill di un anno fa è un “happening” difficilmente repetibile, per il resto c’è continuità fra il 2021 e il 2022, almeno su certi argomenti: il Covid, la crisi in Ucraina e la problematica gestione dell’immigrazione. Quanto all’Afghanistan, la frettolosa ritirata da Kabul ha lasciato scoperta anche l’informazione, col risultato che ormai se ne parla poco e solo per evidenziare la catastrofe umanitaria e la tetra gestione politica dei talebani. L’energia nel frattempo per varie ragioni ha aumentato le tariffe mettendo a dura prova la capacità industriale prima ancora che la gestione familiare, con ricadute pure sul “futuro verde” preconizzato a Glasgow. Le novità invece riguarderanno da noi l’elezione del Presidente della Repubblica e all’estero gli sviluppi della crisi in Kazakistan, scoppiata all’improvviso ma dall’incerto sviluppo. In realtà il 2021 ha registrato anche avvenimenti che la stampa italiana generalista ha trascurato. Il primo è il c.d. AUKUS, (acronimo inglese delle tre nazioni firmatarie), un patto di sicurezza trilaterale tra Australia, Regno Unito e Stati Uniti, annunciato il 15 settembre 2021 per frenare l’espansione marittima della Cina. L’altro è la sua controparte: lo sviluppo impressionante della flotta da guerra cinese e i progressi nel campo dei missili subsonici, ovvero ordigni che possono viaggiare a cinque volte la velocità del suono (300 mt./sec.) e pertanto sono più difficili da intercettare. Come pure si è evoluto in modo esponenziale il mercato dei droni (più tecnicamente, UAV, unmanned aerial vehicle, non più usati per la sola ricognizione e sorveglianza, ma anche come velivoli d’attacco, ampiamente usati p.es. in Libia o nel Tigrai.
Se la crisi in Libia o AUKUS sono stranamente sentite come remote, l’Ucraina occupa invece le prime pagine. E’ una storia che viene da lontano: quando trent’anni fa l’Unione Sovietica si dissolse, gli stati che facevano parte del Patto di Varsavia ne approfittarono per smarcarsi dai Russi, ma non era previsto che entrassero nella NATO. Parliamo delle Repubbliche Baltiche, della Polonia, della Cechia, della Slovacchia, della Slovenia. Sono entrati nella NATO per difendersi dall’egemonia della Russia, non certo per invaderla. Il Patto Atlantico prevede che un paese membro che viene attaccato debba essere difeso da tutti gli altri, e questo spiega perché i Russi si oppongano all’ingresso di altri paesi nella NATO: dovrebbero vedersela con tutti gli altri. In fondo la politica russa e poi sovietica ha sempre perseguito gli stessi, pochi obiettivi: avere l’accesso al mare (non il Mediterraneo, ma il Mare del Nord e il Mar Nero), controllare le risorse energetiche dei vicini alleati euroasiatici (Kazakistan, Tagikistan) e garantirsi a occidente una frontiera sicura creando una fascia intermedia a spese dei vicini. La Russia occupa 11 meridiani ma i suoi 148 milioni di abitanti sono concentrati soprattutto a occidente piuttosto che in Siberia, enorme quanto ricca di materie prime dalla cui esportazione dipende gran parte del PIL russo. Anche se è un’arma di pressione politica, non quindi c’è interesse a bloccare i gasdotti e gli oleodotti se non per breve tempo. Gli Americani all’epoca potevano anche puntare sul disarmo bilaterale o creare una forza di difesa europea, ma preferirono agire d’iniziativa, anche se – almeno sulla base dei documenti finora disponibili – non risulta nessun patto formale o informale russo-americano che vietasse l’ampliamento della NATO in Europa: noi siamo abituati a pensare in termini di stati sovrani liberi, anche se la diplomazia suggeriva cautela. Gli Stati Uniti forse ritenevano che URSS e Russia fossero la stessa cosa, sottovalutando la capacità della nazione di sviluppare di nuovo la propria vocazione di potenza internazionale. In questo gioco pesante l’Ucraina si è poi trovata in mezzo, né è ancora chiaro se il cambiamento politico ucraino sia un processo interno alla sua società o se sia stato appoggiato dall’esterno; in realtà una cosa non esclude l’altra, anche se è finita in guerra in Crimea e nel Dombass, una zona russofona formalmente ucraina. Ha tenuto invece il regime in Bielorussia, dove ora si è vista una nuova arma: i profughi. E qui si apre anche una situazione assurda: noi Italiani dobbiamo accogliere tutti perché lo prescrivono le leggi del soccorso in mare, mentre i Polacchi potranno ricevere aiuti europei per la difesa delle frontiere terrestri mentre i profughi muoiono di freddo nelle foreste di confine. Nel frattempo Russia e Bielorussia accusano l’Europa di crudeltà, ma di accogliere una parte di quei profughi organizzati manco a parlarne. Ma neanche l’Unione Europea è riuscita ancora a trasformare riunioni piene di buone intenzioni in una vera ridistribuzione dei flussi migratori non autorizzati. Come diceva Oscar Wilde, il dovere è ciò che ci si aspetta dagli altri.
Ancora due parole sul Kazakistan. Sorvoliamo sulla narrazione degli agenti provocatori infiltrati pagati dagli imperialisti: è roba vecchia. Il vero problema è che i Russi e i loro stretti alleati hanno mandato subito truppe nel paese, ma non potranno mantenerle in modo permanente sul territorio: l’esercito è già schierato lungo le frontiere dell’Ucraina come forma di pressione sui negoziati e gestire due fronti è proibitivo. L’esercito russo è sicuramente grande e ben armato e addestrato, ma il PIL russo è assurdamente inferiore a quello italiano, per cui alimentare per mesi addirittura due fronti è antieconomico. Lo scoppio della crisi Kazaca non era previsto e complica solo la situazione di Putin e del suo gruppo dirigente. Ma qui siamo ancora all’inizio. Può darsi benissimo che a scatenare una guerra sia invece Israele, almeno fin quando gli Iraniani non scriveranno a chiare lettere che non stanno fabbricando armi nucleari e renderanno verificabili le loro parole.