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L’Europa in cerca di una nuova anima

La nuova Cortina di Ferro all’interno dell’Unione europea vede ampliarsi il Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) con lo spostamento a destra dell’Austria e che farà muro contro l’impennata d’orgoglio dell’Ue nell’attivazione delle procedure previste dall´Articolo 7 dei Trattati, quando si riscontrano delle violazioni gravi di uno Stato membro, la Polonia, dei valori fondamentali dell’Unione.

La Polonia rischia sanzioni che prevedono la riduzione degli aiuti e la sospensione dei diritti di voto, per aver approvato una riforma che mina l’indipendenza della giustizia polacca, mettendo in pericolo lo Stato di diritto.

Il vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, Frans Timmermans, ha affermato che la Polonia ha adottato, in questi ultimi anni, 13 leggi capaci di mettere in pericolo i valori fondamentali per uno stato democratico.

L’Europa solo ora si accorge di quanto la Democrazia sia in pericolo in Polonia, dopo aver lasciato da sole tutte quelle migliaia di persone che hanno manifestato per settimane contro il progetto legislativo per ingabbiare la Giustizia.

Per sospendere la Polonia dal diritto di voto in Consiglio, prevista dall’articolo 7 del Trattato, serve l’unanimità degli Stati membri che si prevede difficilmente raggiungibile, vista l’opposizione scontata dell’Ungheria di Viktor Orbán e degli altri del Gruppo di Visegrá.

Il Consiglio d’Europa potrebbe sospenderli tutti, dopo aver riscontrato non solo una deriva autoritaria nei singoli paesi, ma anche per la loro avversità a conformarsi alle scelte sulla ripartizione della ricollocazione dei richiedenti asilo all’interno della Ue.

Anche in occasione della risoluzione di condanna del riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale d’Israele, messa in votazione all’assemblea generale Onu, lo schieramento dei paesi dell’est europeo (Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania), si è differenziato dal resto della Ue, scegliendo di astenersi e non esprimere un voto contrario.

L’Europa, in occasione del caso Polonia, si sta muovendo non più per procedure di infrazione di ordine economico, ma per i valori fondanti dell’UE, e ciò potrebbe essere l’occasione di rifondare Unione sui principi originari e non solo sugli interessi economii.

Per l’Europa, ritrovare l’Anima del Manifesto di Ventotene, è un’opportunità per riscattarsi dai tanti anni di arido tecnocratismo e trovare un’unità nei valori etici piuttosto che sulla convenienza.

Una convenienza che i paesi di Visegrá sembrano aver ben messo a frutto e ora, dopo aver preso tutto il possibile dalla Ue, si apprestano rendere difficile la convivenza tra gli stati membri.

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Migrazione: Il balzello pagato dall’Occidente

L’Europa continua a distribuire soldi per bloccare la migrazione, rincorrendo i cambiamenti dei flussi, affidandosi a stati o a gruppi che non hanno mai dato dimostrazione di operare nell’ambito dei Diritti umani.

Si è trattato per arginare gli spostamenti dai paesi dell’est, dal Medioriente e dal nord Africa, lasciando il lavoro sporco agli altri, limitandosi ad elargire contributi, mostrandosi sempre con le mani pulite, ma non è così. L’Europa cerca di creare una rete di sentinelle esterne e interne ai confini europei.

Una Unione europea che foraggia alcuni stati perché “ospitino” migliaia di persone, fa finta di ignorare l’edificazione di muri e il Parlamento europeo si lava la coscienza promovendo il Premio Sacharov  per la libertà di pensiero, affermando di sostenere i diritti umani.

Delega ad altri drammi e scontri sociali per non sapere come si tiene lontani dall’Europa i popoli che fuggono da conflitti e carestie, ma poi accade che uno dei tanti Adan muore a 13 anni nelle civilissime contrade europee per il rispetto delle burocrazie e qualcuno si indegna perché è venuto a conoscenza che è accaduto davanti alla propria porta e non gli avevano nascosto il fattaccio.

La Ue ha una fievole voce nell’ambito dei Diritti umani, fa delle dichiarazioni di rito, magari minaccia, ma non riesce ad andare ai fatti. L’Unione che esiste quando fa i richiami e le reprimende, apre procedure d’inflazione ai singoli stati o infligge multe sui rifiuti o sull’anti-trust delle grandi compagnie, non riesce poi ad aggregare l’attenzione per partecipare agli oneri di una politica migratoria condivisa e non lasciata come zavorra ad alcuni paesi, salvo quando è il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks che invia una missiva direttamente al ministro degli interni Minniti per avere dei chiarimenti sull’accordo con Libia, sul tipo di sostegno operativo e se i diritti degli migranti sono rispettati.

La questione dei migranti economici è un ispido punto che ha trovato l’ostilità di Macron non più lontano di un paio di mesi fà, ma Junker conosce i numeri e prevede che l’Europa avrà bisogno anche di nuovi lavoratori, una necessità per un continente europeo che sta invecchiando, prospettando l’apertura di canali legali, ma perché proporre dei «progetti pilota, quando i corridoi umanitari sono ben collaudati dal dicembre del 2015, dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Tavola Valdese che hanno sottoscritto un protocollo con Viminale e Farnesina, corridoi attivati in Libano, Marocco e Etiopia, a spese delle stesse associazioni, grazie alle risorse provenienti dall’8 per mille, con controlli scrupolosi e la rilevazione delle impronte digitali?

I corridoi umanitari pensati per la Ue sono differenti, non sono a fine umanitario, prevedono di agevolare l’ingresso in Europa dei migranti qualificati e il rilascio della Carta blu, contrastando il pensiero di Macron del luglio passato, basato sulla diversificazione dei diritti, ostacolando la migrazione di chi è in cerca di lavoro, ribadendo la necessità di istituire “una polizia europea delle frontiere”.

Più che una polizia europea abbiamo, con le ultime elezioni politiche in Austria e nella Repubblica Ceca, un cordone xenofobo che dalla Polonia scende giù nei Balcani per bloccare la nuova via di migrazione che dalla Turchia porta alla Romania, più che alla Bulgaria presidiata da milizie anti profughi, dove la migrazione è attiva con battelli per attraversare il Mar Nero.

È un’illusione pensare di bloccare le migrazioni, tuttalpiù si possono momentaneamente arginare, ma poi trovano altre vie ed ecco timidamente si riapre il flusso dal Marocco alla Spagna, ma anche dalla Tunisia e molti sono i migranti salvati dai pescatori tunisini e altri, molti altri, come purtroppo la sessantina di corpi, tra giugno e agosto 2017, sono arrivati senza vita sulle coste tunisine di Zarzis.

L’Occidente paga per spostare sempre più lontano dai sui confini i centri per “ospitare” i tanti profughi, invece di creare e gestire in prima persona la migrazione, le strutture di accoglienza e di assimilazione.

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Migrazione: Non bastano le pacche sulle spalle

Per anni l’Europa non ha mostrato interesse alla questione migratoria che coinvolgeva le “frontiere” del Mediterraneo, poi sono cominciati i rimproveri per il poco impegno italiano nello schedare e nel non riuscire a tenere quei fuggitivi in Italia, nel rispetto della convenzione di Dublino, ma solo da poco si è inaugurata l’era delle pacche sulle spalle, dei ringraziamenti per il lavoro svolto.

Ora però sarebbe opportuno andare oltre la semplice rassicurazione del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker nell’affermare che l’Italia può “continuare a contare sulla solidarietà europea” sul fronte della crisi dei migranti.

Un piccolo passo è stato compiuto da Macron, europeista e sovranista, con la sua critica ai paesi dell’est che hanno confuso l’Unione europea come un emporio dove fare la spesa senza pagare la merce acquistata, mostrando cinismo nel trattare la questione dei rifugiati.

Il presidente francese pone comunque dei distinguo tra i profughi dalle violenze e quelli della carestie, come se morire di fame e sete non fosse una violenza pari a quella di trovarsi vittime di conflitti, solo per ribadire, come aveva fatto Hollande, che la Francia si attiene al nuovo trigono del motto della Rivoluzione francese in “Liberté, Égalité, Telibecchitè”, trovando la Fraternité obsoleta, chiudendo da tempo le frontiere.

Con il vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania, il ministro degli interni italiano ha posto la questione di un codice per le Ong impegnate nel Mediterraneo, oltre ad indirizzare le navi su altri porti per lo sbarco dei migranti ed a maggiori pressioni sui paesi europei non impegnati nella ricollocazione.

Un vertice quello parigino che si è posto come preparatorio a quello del G20 a Amburgo, ma soprattutto all’incontro informale dei ministri dell’Interno dell’Unione a Tallinn per superare le minacce italiane di chiudere i porti italiani alle navi straniere, con una revisione del Trattato di Dublino.

Mentre l’Italia minaccia la chiusura dei porti, Francia e Spagna, insieme ad altri paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, sprangano i loro approdi e l’Austria mette in scena un spot elettorale, poi rientrato, con il voler schierare i blindati sulla frontiera del Brennero, come dimostrazione di tanta ammirazione e empatia per lo sforzo italiano.

Anche l’avvertimento del commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos sul “Ricollocarli o ci saranno sanzioni” gridata contro l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca, pronto a proporre l’apertura di procedure d’infrazione, rimane solo una vaga minaccia.

A Berlino, al vertice preparatorio del G20, il primo ministro italiano Paolo Gentiloni ringrazia “i leader per la solidarietà e la comprensione per le difficoltà che dobbiamo affrontare in comune”, ma aggiunge anche che dopo tante espressioni di solidarietà è ora di passare ad un aiuto più concreto.

Il concreto aiuto che l’Italia si aspetta, viene specificato dal ministro degli interni Marco Minniti, in un maggiore coinvolgimento europeo nell’ospitalità dei profughi e nell’impegno di guardare all’Africa come soluzione e non come fonte del problema. Minniti all’incontro di Tallinn non ha commosso nessuno e vedere l’Africa come una risorsa rimane difficile con una Libia ufficialmente divisa in due governi e centinaia di tribù e milizie, oltre al fatto che la Cina si è radicata proprio negli stati africani da dove proviene gran parte della migrazione.

La Cina ha fatto dell’Africa, in questi ultimi decenni, un suo territorio d’oltre oceano, con gli enormi scambi di dare avere che difficilmente portano del benessere alle popolazioni native che continuano a migrare, anche per la cessione dei terreni più fertili alle compagnie cinesi, oltre ai conflitti per territori e ricchezze.

Tra pacche sulle spalle, tante parole d’incoraggiamento, ma soprattutto risatine di arroccamenti europei e porte chiuse, interviene Emma Bonino affermando che siamo stati noi a offrire i nostri porti, nell’ambito dell’operazione europea Triton, per gli sbarchi, ed ora è complicato disfare quell’accordo.

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I soldati austriaci di lingua italiana, 1914-1919

Che l’Italia non sia un paese ancora unito lo dimostrano le iniziative prese dalla provincia autonoma del Trentino/Alto-Adige e dal comune di Trieste: partono treni pieni di studenti, studiosi e cittadini verso i campi di Galizia e nessuno nel resto d’Italia ne sa niente; magari si confonde pure la regione oggi parte della Polonia con l’omonima provincia di Spagna. In realtà per molti italiani la Guerra Mondiale è cominciata nell’agosto del 1914. Sono le storie di tutti quei soldati trentini, ampezzani, veneti, friulani, triestini e istriani arruolati nell’Imperial-Regio Esercito Austro-ungarico e mandati a combattere sul fronte orientale. Tutti parlavano l’italiano o un dialetto italofono, molti sono morti e le loro vedove non hanno mai ricevuto una pensione. Chi è tornato a casa non poteva fare altro che chiudersi nel silenzio: per gli irredentisti chi aveva combattuto per gli Austriaci era un traditore, anche se molti non avevano avuto la possibilità di scegliere, soprattutto i contadini e i montanari dell’arco alpino. Ed è impressionante leggere che l’iniziativa di recuperare questa memoria è – testuale – “un contributo alla storia dell’Euregio Trentino/Alto.Adige/Tirolo”, come si legge nei notiziari ufficiali della provincia autonoma di Bolzano. Dunque non abbiamo più una memoria condivisa e le nostalgie asburgiche triestine sono in sintonia con gli umori del Tirolo storico. Tutto questo nel silenzio assoluto – dovuto a ignoranza – del resto dell’Italia.

Che esistesse un reggimento austro-ungarico formato da italiani a dire il vero l’ho appreso solo nel 2008, quando Trieste celebrava i cent’anni di annessione all’Italia e riteneva giusto documentare la situazione anteriore al 1918. Fu così che mi incuriosì un distintivo reggimentale con un numero : 97. Era il reggimento triestino, reclutato tra gli italiani e gli sloveni del litorale. Dal canto loro le comunità trentine e ampezzane non avevano perso tempo. Sappiamo tutto degli alpini in Russia perché le comunità montane mantengono viva la memoria di chi vive da sempre nelle stesse zone e ha scarsa mobilità sociale. Ed è così che sono uscite fuori le storie di 20.000 tra alpini austriaci e milizie tirolesi, di cui almeno un quinto di loro non è tornato a casa. Ma forse è il caso di dare qualche informazione storica, magari aprendo la pagina di un buon atlante d’Europa.

Intanto, l’esercito austro-ungarico era diverso dagli altri : più che alla nazione, i soldati erano fedeli all’Imperatore Francesco Giuseppe, che nelle nostre cartoline viene invece visto come un vecchio rimbambito. Struttura e armi erano in linea con gli standard europei, ma la truppa era reclutata fra quindici etnìe diverse e le lingue usate erano nove. Anche se gli ufficiali erano tenuti a conoscere un paio di lingue, il reclutamento regionale era una necessità, pena il caos. Dunque gli italiani e sloveni del litorale giuliano e istriano furono inquadrati nel 97° reggimento, mentre le comunità dal Trentino al Friuli vennero assegnate ai reggimenti alpini, i Kaiserjaeger, oppure alla milizia tirolese, gli Schutzen. Questi ultimi dovevano difendere il Tirolo, mentre tutti gli altri furono spediti nella Polonia austriaca contro i Russi. La zona chiamata Galizia è compresa oggi fra Polonia e Ucraina ed era una landa bassa e sottosviluppata, né ora ha fatto molti progressi, e l’asse ferroviario rimane lo stesso: da Cracovia a Leopoli, dove abbiamo combattuto anche nella guerra mondiale successiva. In mezzo, una città-fortezza dal nome impronunciabile: Przemysl. I reggimenti di montagna invece erano più sul crinale dei Carpazi – i monti sotto la Galizia – e dovevano coprire la sella fra la pianura polacca e quella ungherese. Riassumendo molto, diremo che il primo anno di guerra vide austriaci e russi perdere ognuno quasi un milione di soldati tra battaglie e assedi. Solo che i Russi avevano più spazio e avevano mobilitato dodici milioni di soldati, quindi possiamo dire che l’Impero Austro-ungarico aveva perso la guerra già nel 1915. Se ha resistito fino al 1918 è perché il fronte italiano era favorevole alla difensiva assai più che la pianura polacca. Ho visto all’istituto Austriaco di Roma le loro immagini di propaganda: si vedono i loro soldati che dall’alto delle vette alpine scrutano olimpicamente la vallata in attesa che gli italiani traditori scalino la montagna.

Ma torniamo in Galizia. Il reggimento italiano fu poco efficiente e dopo aver perso la metà degli effettivi davanti a Leopoli (Lemberg per gli austriaci) fu assegnato alle brigate ungheresi, più forti, e in parte mandato nel 1917 sull’Isonzo, uno dei pochi posti dopo Cortina dove gli italiani combatterono contro altri italiani. Ma sui motivi dello scarso rendimento degli italiani c’è da metter ordine. La propaganda irredentista ce l’aveva con loro, mentre quella austriaca li disprezzava. Nella realtà quel reparto era poco coeso perché non difendeva casa propria e perché formato da cittadini, laddove i migliori reggimenti erano quelli dove si ripeteva sul campo la struttura semifeudale della società (come nei reggimenti tirolesi) o addirittura una cultura tribale, come in quelli bosniaci. E va anche detto che sia gli Austriaci che i Russi usavano tattiche superate. Nelle immagini d’epoca che ho comprato sul mercato antiquario è impressionante l’ammassamento della truppa. Ormai c’erano le mitragliatrici e i fucili a ripetizione e i cannoni a tiro rapido, ma i reggimenti si muovevano ancora come ai tempi di Napoleone. Niente di strano che morissero tutti come mosche.

Ma la storia non finisce qui. Finita la guerra, i prigionieri dei Russi si trovarono isolati dalla Rivoluzione e dovettero valersi della ferrovia Transiberiana per arrivare prima o poi a Vladivostok, dove i Cechi e gli Slovacchi furono imbarcati su mercantili americani. Gli italiani invece furono dirottati in Manciuria e acquartierati nella concessione cinese internazionale del Tien-Tsin, presidiata dal Battaglione San Marco. Lì chi voleva si arruolò nella Legione Dalmata Irredenta , che fu mandata a combattere i Bolscevichi. Infatti fino al 1919 le potenze europee si schierarono con i Bianchi, fin quando tutti si ritirarono da una guerra che non li riguardava e che ormai era persa a favore delle nuove forze rivoluzionarie. Ma anche questo è un capitolo di storia ancora da studiare.

 

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