Romano, ricercatore, mi occupavo all’epoca di una serie di documenti conservati nell’Archivio Storico Capitolino. Studiando alcune carte notarili del Seicento, fui un giorno incuriosito da un dettaglio peraltro marginale: era un disegno barocco in margine alla realizzazione di alcuni festeggiamenti solenni per le nozze di una famiglia nobile romana, imparentata come al solito con qualche papa o cardinale. La documentazione era invero ricca: in appendice alla serie di componimenti poetici d’occasione – mediocri come al solito – c’era la descrizione del banchetto e della successiva festa, con balli e apparati adeguati al rango del padron di casa e del suo rango. Ma nell’ultimo foglio una mano diversa da quella del copista – quella di un disegnatore – aveva tracciato a china uno schizzo di un ninfeo, con l’annotazione “nel ninfeo di Venere, grotta da basso”. Ora, di ninfei è piena l’Italia delle zone archeologiche, delle ville storiche, dei giardini di palazzo rinascimentali e barocchi. All’origine grotte sacre a una ninfa, divinità d’acqua che ivi risiedeva, divennero poi anche edifici in muratura, che accanto all’originaria funzione religiosa ne affiancavano una conviviale: lungo le strutture piene di vasche e piante acquatiche era possibile sostare, far banchetti e trascorrere momenti di ozio. Verdi e umidi ninfei delle ville storiche italiane espongono ancor oggi le loro lussureggiante bellezza e lasciano spazio all’immaginazione. Il disegno includeva anche la fauna mitologica: ninfe, satiri e persino Priapo, la divinità maschile con gli attributi ben esibiti. Non che all’epoca fosse uno sconosciuto: Agostino Carracci lo aveva raffigurato in alcune stampe già nel ‘500. Antico dio che incoraggia la fertilità dei campi, diviene nel Rinascimento un palese richiamo simbolico alla potenza riproduttiva ed erotica, legandosi in qualche nodo alle correnti filosofiche neoplatoniche, per poi scomparire ufficialmente dalle scene su pressione della Controriforma. I successivi scavi di Pompei ne avrebbero restituito la potente iconografia, ma il nostro dio rusticano nel periodo che studiavo scorreva in qualche fiume carsico, da dove ogni tanto riappariva.
Passarono alcuni giorni e la mia ricerca procedeva. Esaminai una serie di atti notarili e processuali, relativi a un gruppo di famiglie nobili romane. Era materiale riversato da poco in Archivio, quindi c’era la possibilità di ricavarne una pubblicazione. Gli atti erano scritti nella classica scrittura cancelleresca corsiva dei notai e funzionari romani, fedeli testimoni della vita sociale e giuridica nel corso dei secoli. La cancelleresca non è difficile da leggere; ma il senso di quei documenti non era sempre chiaro. Non liti per fissare i confini di un latifondo o eterne querele tra rami collaterali per spartirsi un’eredità; neanche richieste di risarcimento per opere mai pagate, clienti frodati o ragazze sedotte. Si trattava invece di un tentativo di ricatto ai danni di una nobile famiglia romana, architettato da un gentiluomo non ben identificato ma di media statura sociale. Un avventuriero come tanti all’epoca? Forse il prestanome di qualcun altro che non voleva scoprire le carte; sicuramente altolocato e ben noto nell’ambiente. Così perlomeno mi sembrava: il testo era pieno di sottintesi, purtroppo incomprensibili quattro secoli dopo. Questi atti erano datati infatti 1623, regnante ancora papa Gregorio XV. Ancora non c’era Urbano VIII, ma già Bernini e Borromini facevano a gara per abbellire Roma di chiese e palazzi barocchi, esempio di quell’architettura creativa che solo secoli dopo sarebbe stata riconosciuta come il massimo della libertà, la quale invece non era concessa in materia di religione.
Ma torniamo ai nostri documenti. I moventi di un ricatto a scopo di estorsione son sempre gli stessi da secoli: tacitare uno scandalo, sollecitare un credito, o volersi rivalere per un torto subìto. Qui bisognava saper leggere tra le righe, ma ancora non avevo elementi sufficienti per condurre un’indagine. Mi limitai quindi ad annotare i nomi ricorrenti nella serie dei documenti esaminati. Era ormai venerdì e l’unica cosa da fare era prendersi per sabato qualche ora di svago. Andai con un’amica al parco della Caffarella, dove c’è ancora un ninfeo in muratura, quasi nascosto nel fondovalle, laddove l’acqua scorreva in pendenza. Non più grotta di ninfe né luogo di ricreazione, mi piacque comunque guardarlo e immaginarne tempi migliori: la verzura cadeva all’epoca dall’alto e il luogo era quasi segreto; ci si introduceva da un sentiero coperto anch’esso dalla vegetazione…
La settimana dopo mi dedicai invece alla musica e alla pittura, cercando di identificare gli artisti citati nei documenti. Iniziai dalla musica; nella Roma barocca se ne componeva e suonava tanta, a tutti i livelli: messe, mottetti, danze, concerti grossi, musica conviviale, fanfare. I committenti – pubblici e privati; chiese e nobili – facevano a gara per accaparrarsi i migliori musicisti, i quali passavano con disinvoltura dal sacro al profano secondo il cliente. C’era così posto sia per grandi compositori come Palestrina, sia per artisti meno dotati e per innumerevoli musici e cantanti, coristi e solisti, che spesso preferivano lavorare per poche, potenti famiglie. Molti spartiti sono andati perduti quando cambiarono gusti, mode e strumenti, ma per fortuna a Roma molto si è conservato e nel corso degli anni la catalogazione dei manoscritti musicali presenti in archivi e biblioteche è andata avanti. In più, nel frattempo è nato un reale interesse per la musica barocca, ricreata da decine di ensemble e incisa in centinaia di dischi e cd. Possiamo riascoltare dal vivo quella musica invece che immaginarne armonie e sonorità decifrandole dagli spartiti. Ma non erano gli spartiti che io cercavo, ma i contratti stipulati con i loro committenti. Per fortuna ne erano conservati alcuni e da lì si poteva ricostruire la rete sociale entro la quale gli artisti si muovevano. Nomi che non dicevano molto: Ser Giovanni di Menico e Guido Todesco, romano il primo, germanico forse il secondo. Saperne qualcosa si rivelò in realtà la parte più facile del lavoro: mi rivolsi a un vecchio compagno di scuola, ormai direttore d’orchestra, che mi segnalò un giovane pugliese, un musicologo che dieci anni prima avrebbe pure vinto un concorso in Soprintendenza, ma ora non riusciva a trovare un lavoro adeguato alla sua preparazione. E con l’aria che tirava sarebbe stato ben lieto di lavorare per me. Per l’arte figurativa invece avevo in mente una mia amica, storica dell’arte, che lavorava per una nota casa d’aste e ben conosceva l’arte italiana del Seicento. Anni prima eravamo anche stati insieme e quando andai a trovarla fu cordiale con me, ma prese tempo perché era al momento impegnata col catalogo dell’asta successiva. Quindi per ora non sarei riuscito a sapere molto del pittore che stavo cercando. Chi era Gian del Grotto? Mistero. Tornai dunque alle ricerche d’archivio, evitando di far sapere cosa stavo realmente cercando. Intanto non lo sapevo bene neanch’io, poi nel nostro ambiente meglio parlar poco: come ti giri ti fregano la ricerca.. Chi lavora dentro un museo o all’università riesce persino a non far uscire il materiale dall’archivio e se lo studia lui, ma in questo caso quelle carte erano a disposizione di chi sapesse leggerle, sempre che avesse studiato paleografia alla Vaticana.
Ma torniamo in Archivio. Leggersi i documenti di tribunale è sempre interessante; s’impara molto su una società, sui protagonisti della vita comune, sulle abitudini e convenzioni sociali e anche sulle debolezze umane. C’erano cause intentate da artigiani contro clienti patrizi quanto tirchi; promesse di matrimonio rotte in anticipo, con conseguenti richieste di risarcimento: liti per merci non pagate o per eredità mal divise. Sempre interessanti poi le repliche dei testimoni, che svelavano il modo di parlare della gente comune, appena corretto dal cancelliere di turno: erano squarci sulla vita privata di una società. Un documento, p.es., era proprio curioso: la famiglia di un artigiano voleva essere risarcita da un impresario perché una delle sue figlie si era ammalata avendo dovuto fare il bagno di sera nelle fontane di una villa, durante un banchetto che un nobile aveva organizzato. L’inquisitoria era piena di dettagli, che testimoniavano i fatti grosso modo così ricostruibili: la ragazza era stata assunta insieme ad altro personale di servizio da una nobile famiglia per una grande cena all’aperto organizzata per ospiti di riguardo, forse fiamminghi. L’apparato delle festa comprendeva anche un Theatro acquatico, mentre un’orchestra suonava musica conviviale. Solo che una di queste ragazze si era presa una polmonite nuotando mezza ignuda nelle vasche del giardino, ed ora la sua famiglia pretendeva un risarcimento. Ma la cosa più interessante per me erano le curiose immagini dei cartigli e dell’ultimo foglio, apparentemente sempre della stessa mano di quel primo disegno visto il primo giorno: ninfe che nuotavano nello specchio d’acqua della grotta. Bella scenografia di un vero gioco d’acqua: ninfe in carne ed ossa inseguite e insidiate da giovani tritoni, mentre ai lunghi tavoli i commensali continuano a intrattenersi fra una portata e l’altra. Era pratica normale di notai e disegnatori annotare con personali schizzi a penna la scena di cui si parlava nel documento, come farebbero oggi i fotografi. In una relazione giudiziaria abbiamo persino uno schizzo che raffigura Giordano Bruno portato a Campo de’ Fiori. Ma anche stavolta dovetti interrompere la lettura: era finito l’orario di apertura dell’Archivio e dovevo uscire. Ma volli per un attimo entrare nell’attigua Chiesa Nuova, capolavoro del Borromini. Proprio per quella chiesa Giovanni Pierluigi da Palestrina aveva per anni scritto e diretto messe e mottetti. Amo Palestrina: la sua vocalità è naturale e fondamentalmente monodica, anche se fa uso del contrappunto. Le varie voci cantano melodie diverse, ma l’insieme è armonico. Da giovane ero stato corista proprio nel Coro polifonico della Vallicelliana, ma in quel momento un coro di ragazzi di parrocchia stava provando alcune canzonette per dementi scambiate per musica liturgica, quindi uscii dopo due minuti.
Due settimane dopo, la rete dei collegamenti tra i miei personaggi iniziava a prender forma e senso. Intorno a una nobile famiglia romana ruotava sempre lo stesso gruppo di musicisti, scenografi e artisti, incaricati di provvedere alla riuscita di feste in villa. Incrociando i dati di documenti diversi veniva fuori un mondo in cui l’arte barocca si manifestava in tutta la sua capacità di intrattenere e stupire i convitati anche per poche ore, ma sviluppando una fantasia insuperata. Musici italiani e stranieri allietavano il convito, mentre le mense venivano saturate da piatti da portata colmi di carne e verdure, in mezzo a fiumi di vino. Bacco è sempre stato un dio popolare e in Italia il vino non è mai mancato neanche ai poveri, quindi nelle feste scorreva a fiumi, versato da brocche e contenitori cesellati. La sera, torce e candele romane provvedevano a far luce sull’eletta di nobiluomini e donne invitati per lo spettacolo. Si, perché nel Barocco tutto è teatro: la festa, la cena, il concerto sono in realtà organizzati come spettacolo, dove attori e comparse diventano anche gli invitati stessi. E se il Theatro spirituale è la raccolta dei testi per gli oratori romani, cerchiamo invece di immaginare una ideale raccolta destinata a diletti più carnali, terreni: testi in cui attraverso lo stimolo dei sensi si chiamano gli invitati a partecipare a un evento meraviglioso, magari pagano. Il neoplatonismo è ormai emarginato dalla Controriforma, ma gli antichi dèi rimangono presenti almeno nella cultura delle classi alte: Venere, Marte e Apollo e Diana sono di famiglia. O magari si preferiscono ora vizi e virtù e altre figure allegoriche prese dall’Iconologia del Ripa, note al popolo quanto ai nobili perché ripetute nelle statue delle chiese e in quelle dei giardini, nelle immagini sacre e profane, nei carri allegorici. Tutti sapevano riconoscere gli attributi della Fedeltà, della Chiara Fama, dell’Avarizia, della Fecondità….
Ma nella mia festa si alludeva a un Theatro acquatico. Proprio Roma, di lì a pochi anni sarebbe stata riempita di scenografiche fontane. Qui sicuramente si era in villa, magari non lontano dal centro abitato, o forse nel Lazio, lontano dagli occhi indiscreti. Si parlava di ninfe, tritoni, satiri e fauni. Si suggerivano antri e ninfei e specchi d’acqua ove celarsi è normale, salvo farsi sorprendere in atti suggeriti o espliciti. Si discopre Diana al bagno, ma sappiamo la fine di Atteone. Oppur sono proprio loro, le ninfe, a esibirsi sfacciatamente, provocando il pubblico, spesso assai meno composto – complice il vino – di quanto uno creda. I quadri d’epoca danno appena un’idea di cosa fosse veramente una festa. Soprattutto, una festa segreta. Entrare in quei giri non era facile allora come non lo è oggi: un conto esser nobili o ricchi o entrambi, altro è la vita dei comuni mortali. In mezzo v’erano sono le solite cortigiane, i falsi altolocati e provinciali arrivisti di cui anche oggi v’è ampia copia. E anche all’epoca si doveva saper puntare sul cavallo giusto.
Ma di queste feste in realtà io ne avevo scoperte più di una. Non se ne parlava ovviamente in modo esplicito, gli indizi erano ambigui. In certi atti processuali un non meglio identificato ser Giovanni di Menico, romano, aveva introdotto nelle feste di primavera alcune giovani donne che aveva presentato per cugine, più alcune donne al loro servizio, sicuramente più anziane. Non era specificato il luogo dove si svolgevano queste feste, ma era certo trattarsi di un qualche spazio all’interno di qualche villa privata suburbana. Tutto il mondo è paese: le feste dei ricchi son sempre piene di femmine; se poi succede qualcosa, in fondo sono quegli scandali in cui ogni tanto uno vorrebbe essere coinvolto. La storia era perlomeno interessante, sicuramente più delle tante cause tra parenti per la spartizione di un latifondo. Ma in un altro documento lo stesso ser Giovanni figurava musico e coreografo. Lo aiutava un fiammingo trapiantato, certo Gian del Grotto (Jan de Groote, come chiarì la mia amica storica dell’arte), già noto agli atti per una sciabolata di troppo a Federico Lupinacci pittore di cose sacre; normale attrito tra botteghe d’arte concorrenti. Ci si divideva gli appalti con le chiese per zone e botteghe e gli sconfinamenti finivano in zuffa. Anche Caravaggio in fondo era stato coinvolto in tali guerre.
L’intuizione mi venne soltanto dopo: e se quelle ragazze invece che donne di piacere fossero state attrici o figuranti? In fondo, all’epoca il confine tra i due mestieri erano labili, marginale com’era la figura dell’attore: basta vedere quelle stupende stampe di Callot che rappresentano gli artisti girovaghi. Agli attori non veniva nemmeno concessa la sepoltura in terra consacrata. Ecco dunque la vera natura di quel convito segreto: era anche quello uno spettacolo. Le statue del giardino si animavano una dopo l’altra, scendendo dai loro piedistalli e incrociando passi di danza e inseguimenti nella verzura. Quelle nel ninfeo fingevano di star ferme immobili nelle nicchie, per poi schernire chi avventurava in galleria. Il giardino è pur sempre un luogo di delizie:
Ora il Signore Dio sin da principio aveva piantato un paradiso di delizia; ivi pose l’uomo da Lui formato. Produsse il Signore Dio dalla terra ogni albero bello a vedersi e buono a mangiarsi….E dal luogo di delizia usciva ad irrigare il paradiso un fiume…” Genesi, II, 8-9.
Dai disegni e dalle testimonianze di quelle carte processuali usciva dunque un panorama di sesso trasposto in scena mitologica, che tutto sommato siamo ben avvezzi ad ammirare nei quadri di genere: ninfe che fan finta di fuggire al ruvido abbraccio dei satiri, menadi senza freni, fauni ebbri, Diana e le ancelle che fanno il bagno ignude, Cupido che tira dardi per scatenar l’amore in timidi amanti. E’ un repertorio ben noto, ma altro era sentirlo raccontare nei diari d’epoca, epistole e corrispondenze, o saperle dai verbali di un tribunale. Che dire? Se la spassavano e sapevano farlo, a patto di salvare le apparenze. Altro è rimirare un quadro di Guido Reni, altro è invece veder uscire a sorpresa una ninfa ignuda in carne e ossa dal teatro di verzura. Ben altre emozioni se invece del quadro a olio noi si rimira l’inseguimento delle ninfe dal vivo: sono in gioco corpi reali, che sudano. Sublimata nel verbale di un interrogatorio, l’emozione diventa stupore, imbarazzo
Ma qui c’era ben altro: sotto mentite spoglie recitavano la loro parte anche alcune figlie di nobili famiglie romane, che sarebbe stato impossibile riconoscere in quelle circostanze. Ne approfittavano per accoppiarsi con maschi sconosciuti quanto prestanti, invitati pure loro al convito segreto. Tutto era casuale, ma organizzato da un regista esperto. Costui alla fine mi era noto: nelle carte si alludeva spesso ad un certo ser Bartolomeo pittore, ma senza dirne il cognome o il soprannome, né citarne almeno un paio di opere, e soprattutto senza che fosse chiara la sua funzione all’interno dell’apparato. Ormai invece l’avevo capito: egli concepiva la scena come fosse un grande quadro animato, una scenografia mentale che andava ben oltre la realizzazione di una festa o di una danza. Come lo scultore Orfeo Boselli incarnava la figura dell’artista dotato di profonda cultura umanistica di cui dà prova nella composizione di due commedie (Il disperato amante, Viterbo, 1623), allo stesso modo ser Bartolomeo pittore dimostrava un grande senso scenografico ed un talento particolare per quello che chiamiamo erotismo, ma che in realtà portava ben oltre la cultura fisica cui noi siamo oggi nevroticamente abituati. E’ come se di una melodia riuscissimo solo a goderne il tema, ma senza capirne la complessa armonizzazione. Loro invece ci riuscivano benissimo, intrisi com’erano di filosofia della Natura, di neoplatonismo, e soprattutto di un profondo amore per il teatro, tanto da consacrarlo a modello e forma simbolica di un intero universo culturale.
Andiamo oltre. Se del nostro pittore poco sappiamo, è perché cadde in disgrazia: la nobile famiglia che lo aveva protetto rescisse presto i contratti che aveva stipulato con lui, come risultava dai documenti di archivio. Come mai? Semplicemente perché il suo nobile protettore era stato coinvolto in uno scandalo che si voleva a tutti i costi archiviare, vista l’inevitabile parentela con un cardinale di curia. Si era scoperto il giro di ninfe e satiri e statue viventi, ma poi?. Qui era la stranezza: il nostro gentiluomo non evitava questo tipo di accuse, anzi ammetteva che il convito era stato saltuariamente allietato da donne procurate da fuori. Allora? La spiegazione la trovai mettendomi mentalmente nei suoi panni: si voleva in realtà coprire qualcosa di più grosso. Meglio ammettere il reato minore che passar guai seri con un’accusa assai più grave: quella di eresia. L’accusa di eresia implicava ben altro che un’ammenda pecuniaria per sesso di gruppo in villa. Ne sapeva qualcosa Giordano Bruno, arso vivo il 17 febbraio 1600 a Campo de’ Fiori.
Come ci arrivai? Da un dettaglio sfuggito agli altri. Spesso esercitiamo un controllo stretto sulle cose grandi, trascurando invece quelle minute, e son proprio quelle a tradirci. In quella festa segreta le statue viventi non erano state collocate a caso, ma a precisa distanza una dall’altra, e attorno ad esse ruotavano come in danza altre statue minori, ognuna con diversi attributi. Quando una torcia illuminava una di queste statue centrali, lente incedevano quelle di contorno, veri e propri satelliti. Poi, lentamente la face si spegneva, per dar tempo di illuminare un’altra statua posta a maggiore distanza dalla prima, e così via per tutta la sera in una teoria di movimenti cosmici regolata come un orologio. Era per l’appunto il teatro degli Infiniti Mondi di Giordano Bruno.
La questione era affascinante ma complicata: qual’era la reale diffusione del pensiero di Giordano Bruno nell’ambiente romano dell’epoca? La commissione che giudicò Bruno prese tempo per acquisire le opere a stampa disponibili sul mercato e impiegò almeno due anni per studiarsele con cura. Studi recenti hanno chiarito l’influsso diretto del pensiero bruniano sugli intellettuali olandesi dell’epoca, ma poco sappiamo dell’ambiente romano, che comunque doveva ben tenersi defilato per non fare la fine del maestro: a Roma la censura ecclesiastica era molto stretta e la circolazione delle opere di Bruno era vietata, come vietato era anche l’insegnamento delle sue idee. Una traccia è forse visibile nello scambio epistolare tra intellettuali e nelle ricche corrispondenze tra accademie, ma è una ricerca che richiede tempo ed è ancora tutta da fare. In questo atto giudiziario legato a quello che sembrava uno scandalo sessuale c’era invece un segreto, ed io l’avevo scoperto. Con l’unico rimpianto di non essere stato presente in quella festa segreta. Per questo voglio terminare la mia narrazione proprio con una frase di Giordano Bruno:
Amate una donna se volete, ma non dimenticate di essere adoratori dell’infinito.