Mai nome fu scelto meglio. Sto parlando di un museo all’aperto di arte contemporanea allestito su una delle tante isole che il Danubio crea nel suo lungo percorso. Qui siamo a 25 km da Bratislava verso Budapest, in un punto dove il fiume si amplia formando lunghe isole e depositi di ghiaia. Il sabato e la domenica estivi fa servizio un battello, altrimenti è mezz’ora di bus dal centro di Bratislava, passando per quartieri di edilizia pianificata e ampi spazi verdi. Con una sorpresa: lungo il percorso leggo “Gerulata”. Il nome m’incuriosisce e scopro che è un forte costruito dalle legioni romane a guardia della riva destra del Limes Danubiano. Non c’è tempo per visitare la zona archeologica, ma annoto la posizione con l’aiuto di Google maps. E qui un’altra sorpresa: i confini con Austria e Ungheria distano pochi km dal sito. Una ragione in più per aver scelto un’isola sul Danubio come incrocio fra culture diverse.
Il nome ufficiale del museo è in realtà Danubiana Meulensteen Art Museum, dal nome del collezionista olandese (vivente) che insieme al gallerista slovacco Vincent Polakovič ha fondato questo museo nel 2000, confidando nel generoso supporto del Ministero della Cultura slovacco. Il risultato è un moderno edificio di due piani tutto vetrate e sale espositive, con una naturale continuità verso lo spazio esterno, un parco fluviale dove al tramonto statue e istallazioni si stagliano controluce sullo sfondo della pianura alluvionale e del verde profilo montuoso dei Piccoli Carpazi, creando un paradossale effetto di “Natura”. Al di là della loro funzione primaria, le ampie vetrate con vista sul Danubio amplificano dunque il senso di arte come comunicazione. Il segreto di Danubiana è proprio questo: una studiata continuità tra Arte e Natura, erede dell’Armonia dell’arte classica. E’ un sentimento che prova anche chi si accosta all’arte contemporanea senza avere una cultura specifica, magari bevendo un tè nella caffetteria del museo mentre oltre le vetrate i bambini giocano nel parco attorno a una “buffa” statua di Peter Pollàg e alcuni turisti con Canon e treppiede fanno capire di non essere passati lì per caso.
Nel dettaglio, il museo ha una parte dedicata alle collezioni permanenti, l’altra alle mostre temporanee, anche se gli spazi sembrano sfumare uno dentro l’altro. Le 200 opere della parte “stabile” le ha messe insieme il collezionista Gerard Meulensteen, che iniziò a comprare dalla seconda metà degli anni ’80 le opere di artisti del gruppo sperimentale CoBrA, del pittore cinese americano Walasse Ting e in seguito di Claes Oldenburg, Paul Jenkins e quanto di meglio circolava nelle gallerie tra Europa e Stati Uniti. Nel parco sono disseminate sculture di El Lissitzky, Magdalena Abakanowicz, Jim Dine, Hans van de Bovenkamp, Josef Jankovic’, Peter Pollàg, Arman, Jean-Claude Farhi, Vladimir Kompanek, Billio Nic, Sam Francis e Rudolf Uher. Come si vede anche solo dai nomi, l’ambiente è internazionale, stavo per dire per obbligo morale.
Nela parte dedicata alle mostre temporanee intanto ci siamo divertiti con la delicata e umoristica grafica dell’illustratrice slovacca Petra Lukovcsova. In più quest’estate il museo ospita una interessante raccolta di 23 artisti dalle Filippine, già da sole un intrico di contaminazioni culturali. E infatti la mostra si chiama, tradotta in italiano, “Remoto ma stranamente familiare”. Una gita dunque da non perdere.
A
Bratislava ci siamo arrivati con calma, risalendo la Mitteleuropa da Trieste,
via Lubiana, Graz e Vienna e usando solo treni e pullman. Solo al ritorno io e
mia moglie ci siamo concessi un volo RyanAir per Roma. A Graz volevo
assolutamente vedere l’arsenale storico cittadino, mentre Bratislava non la
conoscevo. C’ero in realtà passato davanti nel 1980 con una gita in battello da
Vienna, ma all’epoca non potevamo scendere senza il visto e per metà percorso
una motovedetta cecoslovacca ci scortava a vista. Ricordo però la sagoma del
castello, oggi perfettamente restaurato ma vuoto. Sì, vuoto, a parte cinque
quadri (sic) e un paio di mostre. Purtroppo la Slovacchia non ha sempre avuto
una corte o una monarchia autonome e per secoli è stata solo un satellite dei
vicini. La stessa Bratislava ha più nomi: Pressburg per gli Austriaci, Poszòny
per gli Ungheresi. E qui il vantaggio dell’Europa di oggi: puoi andare dove ti
pare senza che nessuno ti chieda i documenti; che hai sconfinato te lo dice
solo un sms di Vodafone. Nelle varie gite, mi sono accorto solo dalla mappa di
quanto fosse vicina la frontiera ora ungherese, ora austriaca, ora cèca e
morava, frontiere che seguono le sponde del Danubio, oppure sono il retaggio di
due guerre mondiali. Della Slovacchia ho visto solo la capitale, ma ci ha
sorpreso lo sviluppo industriale e commerciale della città, con un centro
storico perfettamente restaurato, grandi centri commerciali, quartieri nuovi e
grattacieli sede delle multinazionali. I trasporti pubblici sono efficienti e i
mezzi sono tutti nuovi, mentre dei tassisti è meglio non fidarsi troppo. La
Slovacchia uno sviluppo industriale lo aveva già avuto grazie ai Sovietici: socialista
è metà dell’architettura pianificata dei nuovi quartieri. Ma negli ultimi anni
gli investimenti stranieri (soprattutto tedeschi, ma non solo) e un regime
fiscale favorevole ne hanno fatto una sorta di Austria Felix. Da un’amica
abbiamo anche saputo che per le professioni c’è molto lavoro disponibile anche
per gli stranieri, e in fondo lì si vive bene, tutto pulito e organizzato.
Peccato che la lingua slovacca non sia poi così facile, vista anche la sua
scarsità di vocali. Ma mentre in quella settimana di vacanza io cercavo di
imparare qualche parola di slovacco e di pronunciarla in modo decente, mia
moglie si ostinava a parlare una specie di inglese con gente che parlava una
specie di inglese, col risultato di non pochi malintesi, visto che non sempre
il personale di servizio e le commesse sono gentili. Residuo del socialismo
oppure lavoratori inurbati dalla campagna? Forse tutt’e due.
Il
nostro albergo è delizioso: un vecchio battello da crociera ancorato sul
Danubio, con comode cabine e sala da pranzo in stile Titanic. Il nostro sonno è
cullato dalle onde del fiume, ma più spesso dallo spostamento d’acqua causato
da navi da crociera lunghe quanto l’astronave di Guerre stellari e da chiattoni
con la capacità di venti Tir. La sponda destra è tutta verde a parco pubblico,
quella dove siamo ancorati dà sulla collina del castello, e sul lungofiume devi
solo star molto attento ai ciclisti, molto bravi a pedalare a luci spente. La
città in fondo è tutta piatta, quindi le due ruote sono non solo popolari, ma
attirano il cicloturismo internazionale. Da Vienna a Budapest è tutta una pista
ciclabile e Bratislava sta in mezzo. Io invece sognavo di scendere il Danubio
in canoa, e so che ogni tanto i circoli sportivi internazionali organizzano
queste imprese collettive. Siamo comunque andati a Vienna in battello e sempre
in battello il sabato e la domenica di può raggiungere un’isola dove è
allestita Danubiana, una mostra permanente di arte contemporanea che da sola
merita un articolo a parte.
Prima dicevo che la città vecchia – Stare mesto – è stata perfettamente restaurata. Come fosse prima s’indovina da alcuni edifici cadenti che attendono l’immobiliare di turno. Oggi è la Disneyland perfetta: nessun abitante, tutto pulito e colorato, solo B&B, alberghi e case vacanze, nessun negozio che non sia funzionale al turismo, ristoranti e birrerie di ogni tipo, più saloni massaggi Thai e locali di strip-tease aperti h24. In compenso c’è molto ordine (mai visto un abusivo), molti negozi sono di qualità – tutte firme internazionali – e l’area è realmente pedonalizzata, senza italiche deroghe alla legge. Tutta la città vecchia è contenuta in due km quadrati, è piena di chiese barocche e conserva ancora parte delle mura. Tutto sommato è una piacevole passeggiata, a patto di non fare troppo caso alle masse di turisti scesi dai pulmann o dai battelli fluviali, e avendo cura di mangiare da un’altra parte: i prezzi sono come Roma se non più alti.
Oggi abbiamo mangiato lungo il Danubio, al ristorante dello scalo passeggeri, un edificio che sia dentro che fuori è un capolavoro di architettura socialista: razionale, elegante come si concepiva negli anni Sessanta. Fuori cemento armato, dentro tutto legno e ferro. Ci fanno accomodare in terrazza: le sale interne sono prenotate da due gruppi provenienti da Vienna o Budapest. Tavoli con salviette gialle, italiani; salviette celesti, forse tedeschi. Dico forse perché qui nazioni e dialetti s’incrociano quasi sfumando, e il tedesco che parlano non è quello che s’insegna a scuola. Gli italiani del primo gruppo si rivelano torinesi e con loro scambiamo racconti e informazioni. Gli altri giorni avevamo conosciuto una studentessa romana che lavora in un campo archeologico del FAI e una matura coppia di viaggiatori “lenti”, tutto il contrario dei tour che caricano e scaricano in continuazione turisti di ogni tipo. Purtroppo invece non abbiamo potuto incontrare la nipote di un mio amico che qui studia slovacco e certo troverà qui un buon lavoro. Il suo programma è per ora molto intensivo.
Ieri
sera abbiamo mangiato a bordo della nostra nave-albergo, due giorni fa in un
piccolo ristorante fuori le mura, per scoprire oggi che la sera lì vendono solo
da bere. Già, qui molti ristoranti chiudono la cucina dopo il pranzo, la sera
la gente beve birra. La bevono sia gli slovacchi, sia gli stranieri che
affollano i tavoli all’aperto dei locali. La cucina locale è tutto sommato
semplice: zuppe, molta carne (manzo, maiale, anatra, pollo), ottimi contorni.
Ma non mancano ovviamente ristoranti di ogni nazione, e noi italiani siamo ben
messi. Anche il caffè espresso è diffuso come tale, e preferivamo prenderlo da
un ambulante che aveva attrezzato a caffetteria italiana un furgone Ape.
La
messa nella cattedrale di San Martino merita due righe a parte. La chiesa è
gotica con qualche aggiunta barocca nell’interno, che non copre complesse scene
lignee di scuola tedesca. San Martino è rappresentato in divisa da ussaro in
una grande statua nella navata destra e un grande organo accompagnava la messa
della domenica. Quando c’è funzione i turisti non possono entrare e la liturgia
qui è presa molto seriamente sia dal clero che dai fedeli. La Slovacchia è
l’unico paese europeo che non accetta migranti musulmani, e durante la guerra
la Slovacchia era un protettorato tedesco governato da un ecclesiastico,
monsignor Tiso, figura ambigua ma significativa del sentimento popolare.
Passato il socialismo, l’anima slovacca si è ritrovata cattolica, anche se qui
in città il rapido sviluppo sicuramente porterà cambiamenti profondi. Qui i
giovani sono tanti, c’è lavoro e il pil quest’anno è al 4%. Ed è anche una
bella gioventù: sportiva se non atletica (anche qui il socialismo aveva
lavorato bene); le donne sono molto belle ed eleganti e ovunque c’è gente che
pedala o fa jogging.
L’ultimo
giorno, dopo una passeggiata nel parco del lungo Danubio, saliamo a vedere il
panorama dall’UFO. E’ un cugino più svettante e moderno del Fungo all’EUR, che
si erge sopra il ponte nuovo, meraviglia ingegneristica tutto cemento armato e
stralli, senza neanche un pilone. Da 100 metri di altezza vediamo tutta la
città e il Danubio da una parte, e i quartieri nuovi o addirittura in
costruzione dall’altra. E’ un finale di viaggio quasi obbligato, ma dall’alto
ti rendi realmente conto della natura della città.
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