“Poi devo sentire Terry”. Io e Giulia ci vediamo una o due volte a settimana per buttar giù la sceneggiatura di un film. Siamo proprio all’inizio degli anni ’80, quando tutti volevano fare cinema e in genere ci si riusciva pure: era ancora l’epoca d’oro del Superotto, dei cineclub, dei teatri sperimentali, quindi potevi anche fare il colpaccio e passare al 35mm o almeno al 16mm, oppure semplicemente avere la soddisfazione di aver creato qualcosa con i tuoi amici o col tuo collettivo e poterlo condividere con gli altri. Ma nel profondo, tutti volevamo sfondare; da qui lunghe riunioni in pizzeria, scambi di idee, bozze scritte a mano, ricerca di attori e attrici disposti a recitar gratis. Ingenuamente pensavamo che una volta comprata la pellicola – la spesa più grande – tutto filasse liscio tra prove in bianco o in video. Poca attenzione alle luci e alla qualità del sonoro, anche perché magari qualcuno aveva seguito pure un corso di sceneggiatura, ma non aveva mai usato una cinepresa neanche per girare un filmetto di prima comunione. Io invece ero pratico di proiettori per aver fatto il proiezionista nei cineforum, ma qui poco me ne facevo. Ben confezionati o sgangherati che fossero, di quei filmetti se ne producevano tanti e li proiettavi nei vari cineclub o dove capitava. Una cosa poi ci univa tutti nel profondo: di film ne vedevamo tanti, in sala, in pellicola e per intero. Oggi questo non esiste più.
Nel caso nostro la divisione del lavoro stavolta era buffa: regista e sceneggiatrice del Campo (Campo de’ Fiori), attori e attrici da Trastevere, come se il Tevere marcasse anche la differenza dei ruoli. Semplicemente, a Trastevere c’erano teatri e teatrini e quindi tanti attori; in più ci viveva all’epoca anche una vivace comunità straniera, complice anche il cambio favorevole di dollaro e marco.
Con Giulia lavoravo bene, o almeno così mi sembrava: lei aveva in attivo una regia teatrale e ci vedevamo due volte a settimana per stendere giù la sceneggiatura, i dialoghi e quant’altro. A casa mia lo spazio era poco, ma c’era comunque un lungo tavolo dove non mancava niente: bozze, penne, tazze di tè, libri, una macchina da scrivere. Già, perché la videoscrittura non era normale come adesso, quindi i tempi per forza si dilatavano. Ormai era da due mesi che io e Giulia lavoravamo sul soggetto iniziale, ma ora la novità: aveva due attori per le mani, uno era anche regista, l’altra era una sua amica oltre che attrice professionista. Era inglese, quindi adatta per certe parti. Già, quindi la sceneggiatura non dico che andava scritta da capo, ma almeno modificata, visto che il soggetto non prevedeva donne inglesi. Ma infilare un personaggio in più non era un grosso problema, mentre calibrare i tempi lo era; da qui lunghe discussioni fino a sera, ma questo era normale.
Quello che non si rivelò normale era l’attore, almeno per i miei gusti: appena presentato, iniziò a parlare di teosofia, di oriente, di ginnastica biodinamica e altre stronzate. Tutto era funzionale al suo personale modo di intendere il teatro, ma non è detto che funzionasse nel cinema. Giulia dal canto suo non era così scema da non leggermi in fronte, ma con quel tipo ci aveva già lavorato e lo avrebbe diretto lei, sapeva come prenderlo. Quanto ne fossi convinto è intuibile: sapevo già che con quello avrei avuto problemi. Quanto a Terry, ancora non la conoscevo e alla fine non l’avrei mai vista. Rimasi sorpreso nel sapere che ormai non era più la ragazza trasgressiva che ricordavo in tutti i film che avevo visto: ormai aveva un figlio (o una figlia?) e non era più la ragazzina perversa che le proponevano di fare, anche se pure nelle foto patinate doveva sempre sembrare un’adolescente. Conoscere in privato una persona simile mi incuriosiva, vederla recitare nel nostro film per amicizia mi sembrava troppo bello per essere vero. E infatti non se ne fece niente, ma per altri motivi: l’attore nel frattempo aveva trovato un ingaggio stagionale e non poteva più starci dietro, mentre Giulia alla fine mi scaricò quando capì che non sapevo gestire una troupe, sia pur ridotta e amatoriale. Qualche mese dopo avrebbe scaricato anche suo marito, ma questi sono affari suoi. Ebbi però il tempo e il modo di vedere una scena di prova girata dall’attore per conto di Giulia: lei e Terry passeggiano mano per mano lungo la banchina del Tevere verso Ponte Sisto e parlano di chissà cosa; lo spezzone è poco più un’inquadratura fissa spacciata per piano-sequenza. Possibile che Terry recitasse così male? Giulia mi spiegò che quando non c’è un regista viene sempre fuori una mezza commedia dell’arte, e che quella scena era solo per provare le inquadrature. Fu l’ultima nostra riunione e Terry non l’avrei mai vista. So da altre fonti che è morta a Milano qualche anno fa.
Mi rendo conto
che parlare di un trasloco è qualcosa che trascende la logistica: in questo
caso era in gioco la ridefinizione di un’identità costruita nell’arco di mezzo
secolo. Sia chiaro: la casa l’hanno voluta vendere i miei fratelli, ma due
contro uno ho accettato la loro scelta, giustificata anche dal futuro dei loro
quattro figli all’università. Ma anche se da oltre dieci anni non abitavo più
fisicamente a via del Paradiso, ho continuato a sentirmi legato alla casa dove
sono entrato all’età di 15 anni (era il 1965) e che ora lascio esattamente come
l’ho trovata il primo giorno: enorme, vuota e malmessa. L’impianto elettrico è
quello originale – cioè da incubo – e spostando i mobili è rivenuta fuori la
squallida e sbiadita carta da parati con cui i vecchi inquilini tappezzavano le
pareti. L’enorme spazio nel corso degli anni era divenuto saturo di oggetti e
ogni oggetto parlava, aveva una storia da raccontare. Gli album delle foto di
famiglia narrano di feste, di rituali familiari, di vita quotidiana e
registrano qualsiasi avvenimento degno di memoria. Lo studio di mio padre non
era stato toccato dal giorno della sua morte (2003), al punto che mancava solo
lui, quotidianamente intento a dipingere all’acquerello le stampe del negozio o
a classificare foto e negativi o sentire un disco jazz. La discoteca di papà
l’ha presa per intero mio fratello Fabio, compresi i rari V-Disc dei soldati
americani. Più problematica la sorte di altre cose riesumate da armadi e
ripostigli: giocattoli, quaderni di scuola, riviste ingiallite; praticamente di
tutto e di più. Per fortuna tutti i vestiti erano stati dati per tempo alla
parrocchia, comprese due pellicce – una di visone, l’altra di astrakan ora
invendibili. Quello che non abbiamo diviso tra fratelli lo abbiamo venduto o
svenduto, regalato, buttato, smontato. Il resto è finito nelle nostre case o in
un paio di box che abbiamo dovuto prendere in affitto per qualche mese in
attesa di idee migliori. Casa di Gloria era grande, 145 mq, mentre le nostre
sono piccole e bisogna per forza adattarsi. In più, la vita matrimoniale
mantiene sempre un filtro per gli oggetti provenienti dall’esterno, peggio ancora
se antiquati e voluminosi.
Quando siamo
venuti a Campo de’ Fiori il quartiere era molto diverso. Tanto per cominciare, non era zona di ricchi
e c’erano ancora sacche di reale povertà. Nei palazzi le diverse classi sociali
condividevano piani e spazi diversi, ma erano relativamente distribuite. Ci
siamo trasferiti da via Tirso – quartiere borghese Salario – non per snob, ma
perché le case costavano poco e in quel momento l’azienda di nonno era in
rapido declino, invecchiata col padrone. Nella seconda metà degli anni Sessanta
del secolo scorso la borghesia abbandonava il centro per espandersi verso
l’esterno – Vigna Clara, Casal Palocco – in cerca di case con ascensore,
riscaldamento e posto macchina, mentre gli stanzoni del centro storico non li
voleva più nessuno e venivano ripopolati da stranieri e famiglie meno ricche, a
cui si sommavano le varie ondate di giovani alternativi e gli stranieri con la
valuta forte. Per noi era diverso: i Pasquali sono romani dal 1860 e i miei
genitori erano nati e vissuti da giovani tra piazza Navona e Corso Vittorio,
dove ancora erano in vita alcuni parenti. Io invece ricordo il senso di
spaesamento quando mi sono trovato dentro questa casa ancora vuota, enorme e
fredda. Leggevamo i sonetti del Belli e di Trilussa ma non parlavamo in
romanesco, mentre all’epoca la calata del Campo ancora si distingueva da quella
più cupa di Trastevere. Avevo lasciato
una casa stupenda, vicino a villa Borghese, andavo al liceo Tasso e tutti i
miei compagni di scuola abitavano in quel quadrante. Avrei potuto continuare al
Visconti e forse sarebbe stato meglio: più vicino, meno claustrale e
altrettanto buono ma meno formale del Tasso. L’aveva frequentato mia madre e in
seguito l’avrebbero frequentato anche mio fratello e sua figlia. Ora mi trovato
in una zona che neanche conoscevo e dove per anni non avrei avuto mai un amico,
visti anche i giri di droga che iniziavano a ronzare sulla piazza. Gli
spacciatori noi ce li avevamo pure dentro il palazzo e ricordo le siringhe
vicino alle fontanelle del mercato e le autoradio rubate nascoste negli
armadietti dei contatori del gas. Ormai quegli sciagurati sono tutti morti di
eroina o di epatite, ma all’epoca erano un problema di ordine pubblico.
Quando son
partito militare ho portato con me solo pochi oggetti per l’igiene personale.
Chi ha condiviso la naja lo sa, dentro l’armadietto di metallo doveva entrarci
tutto: divise, cappotto, anfibi, abiti civili e quant’altro: radiolina, libri e
riviste, rasoio, spazzolino, quaderno di appunti, più quello che ti mandavano
da casa. Ancora mi chiedo come facesse a entrarci tutto; eppure in questo modo
io e i miei camerati siamo sopravvissuti un anno e mezzo. Ora lo spazio non mi
basta mai e in fondo rimpiango quel periodo: mi piace sempre dire che la mia
casa ideale è una branda in caserma. Ed è vero.
Questo ci porta
a parlare di un altro argomento: cosa ci serve veramente e perché accumuliamo
tanti oggetti, salvo poi in seguito buttarli per far spazio? Io non sono
definibile come accumulatore seriale, sono piuttosto un collezionista
archivista, figlio di un antiquario e preparato a farlo dalla stessa
professione che ho svolto per 40 anni: archivista e bibliotecario. Da mio padre
antiquario ho anche imparato a distinguere e conservare quanto acquisterà
valore nel tempo e scartare tutto il resto. La maggior parte della gente e
delle associazioni culturali invece accumula senza un metodo, non classifica e
non ordina, e al momento di dover traslocare o far spazio butta via tutto senza
un criterio. Forma intermedia: vengono ospiti a cena e per non far brutta
figura tua moglie infila di corsa tutto dentro gli armadi. Risultato: per una
settimana non trovi più niente, visto che alla rinfusa son finiti dentro anche
documenti, capi di vestiario, oggetti d’uso quotidiano. Ma sul motivo di tanto
accumulo, penso che entrino in ballo non solo i desideri indotti dal mercato,
le mode che cambiano di continuo o il lascito di vecchie zie, ma ben altro: io
lo ritengo un sintomo depressivo; si accumulano oggetti materiali per compensare
qualcos’altro, e poco importa che i film scaricati dalla rete o migliaia di
file in mp4 occupino meno spazio di una penna o di un accendino: è il principio
quello che conta.
Nel caso di
quanto era a via del Paradiso, ho detto spesso che ogni oggetto voleva
raccontarmi una storia, e presto stilerò un lessico con almeno gli oggetti
dalla storia più significativa. E’ il
procedimento letterario usato da Heinrich Boll in Foto di gruppo con signora
(1971), ben altro dai versi dell’Iliade dove sono elencati tutti i capitani e i
reparti in forza ad Agamennone (libro II, versi 494-759). O diversamente dalle
Etymologiae di Isidoro da Siviglia (m. 636 d.C.), vera e propria enciclopedia
che classifica e spiega ogni singolo ramo del sapere partendo appunto dall’etimologia
della parola che lo definisce. Isidoro riuscì in questo modo a recuperare e
organizzare l’eredità del mondo classico, in modo da trasmetterne la cultura al
medioevo che iniziava. Più recentemente, ricordo il film di Peter Greenaway,
Prospero’s books (L’ultima Tempesta, 1991), dove i 24 libri del sapere umano
vengono animati da oggetti, video e altro. Anche qui viene marcato il passaggio
da un’epoca all’altra, cercando di strutturarne l’eredità. Anch’io farò in modo
che da un singolo oggetto si ricostruisca una cultura che ora non c’è più.
Ma se parliamo
di cultura, ribadisco i motivi del mio attaccamento alla posizione centrale:
hai tutto a portata di mano; teatri, cinema, concerti, pub, archivi,
biblioteche, accademie. La zona dove abito ora ha più abitanti di Trieste ma
neanche un teatro o un cinema; qualsiasi cosa vuoi fare, devi prendere la
macchina. Ero abituato ad andare al cinema Farnese o all’Augustus quando
volevo, a far tardi al teatro Valle o Argentina, a sentire un concerto in una
delle tante chiese, a chiacchierare al Campo davanti a un aperitivo preso con
gli amici o a sfogliare un libro da Fahrenheit 451 la sera tardi, o a vedere un
film ungherese con sottotitoli all’Accademia di Ungheria a via Giulia. O
semplicemente a recarmi ogni giorno in ufficio in Campidoglio facendo una
passeggiata di quindici minuti invece che guidare per 13 km di traffico e 27
semafori. Il centro lo paghi, ma risparmi sulla benzina e sullo stress da
traffico, sempre che trovi parcheggio. L’unica cosa che trovi invece in
periferia sono il verde e tanti artigiani, specie umana ormai da anni estinta
dal centro. Anche questa è ormai storia.
Non mi faccio
illusioni: tornerò in quel palazzo solo per prendere la posta residua. Non
suonerò ogni tanto ai vicini per far due chiacchiere, né incontrerò per le
scale Fabio Sargentini, il gallerista de L’Attico, che nel palazzo ne ha
mostrate di cotte e di crude. Ma anche se passassi ogni giorno a via del
Paradiso guarderei verso l’alto e poi andrei oltre. Mantengo come ultima immagine
il panorama dalla mia finestra, che qui vedete. Non è retorica, ma nostalgia.
Ho dovuto alla fine cambiare residenza e restituire il permesso ZTL, che avevo
mantenuto per poter assistere mia madre. In realtà la residenza a via del
Paradiso era ormai una finzione giuridica, ma per me era anche una questione di
principio: da quando mi sono sposato abito in un bel quartiere periferico con
tanto verde, ma privo di quanto serve alla mia anima. Ho rivendicato per anni
la mia identità di romano del Centro, anche se abbiamo visto che la storia va
raccontata per intero. La parte l’ho recitata per benino a tutti e per anni, ma
quando sono arrivato a via del Paradiso ero una sorta di profugo istriano
esattamente come adesso. E come i profughi istriani, mi son portato dietro
l’insegna della bottega storica che abbiamo chiuso dopo più di mezzo secolo,
quando mia madre aveva ormai 90 anni e io non potevo prenderne la gestione
perché ancora in servizio in Campidoglio.
Già, mia madre.
Fino all’ultimo si è fatta tre piani di scale e l’ascensore resta tuttora il
tormentone del condominio. Non mi va di entrare in polemica visto che ormai il
problema non mi riguarda, ma avrei voluto che almeno mia madre potesse fare a
meno di quei 78 gradini. Mia madre ha comunque chiuso la bottega storica
all’età di 90 anni, che abbiamo festeggiato alla grande al Circolo Ufficiali.
Purtroppo negli anni si era appesantita e non era sempre facilmente gestibile,
ma l’abbiamo accudita fino alla fine. Anche Cristina le ha voluto bene e si è spesso
sacrificata per lei, mentre io distraevo energie dal nostro matrimonio. Mia
madre era un personaggio; difficile dimenticare le sue battute, i suoi
capricci, le sue espressioni. Sicuramente era una donna diversa dalle altre,
nel bene e nel male. Su mia madre potrei realmente scrivere un libro, anche se
non è facile: significa anche parlare di me stesso, vista la continua
interazione con lei per via della gestione del negozio e di quel rapporto di
dipendenza che s’instaura con le persone anziane e sole. Mia madre negli ultimi
tempi soffriva anche di solitudine: i suoi amici erano defunti o non potevano
fare le scale, la sua vita sociale era legata soprattutto al negozio e alla
quotidiana vita di strada, dove era servita e riverita e s’intratteneva anche con
giornalisti e studiosi. A casa invece riceveva poche telefonate, ma ancor meno
ne faceva. Leggeva molto, scriveva anche poesie in romanesco. Naturalmente
vedeva per ore la televisione, ma per noia, e non posso darle torto. E fumava.
In quello era come mia zia, la sorella maggiore morta a 93 anni e da sempre
fumatrice. La prima generazione delle donne lavoratrici faceva tutt’uno con le
sigarette e tenevo sempre un pacchetto di riserva per evitare di rifare le
scale un’altra volta, anche se ormai gambe e polmoni erano ben abituati a farle
più volte al giorno.
Un’altra
caratteristica di casa nostra: sempre aperta a tutti. I compagni di scuola che
suonavano dai Pasquali potevano sempre salire senza pensare di aver disturbato;
le feste di carnevale permettevano persino l’uso dei coriandoli e non si
contava il numero degli imbucati. Qualche volta le feste debordavano sul
pianerottolo e se la battevano con quelle organizzate da Fabiana al piano di
sopra. Nulla nasce da nulla: negli album di famiglia si vedono le feste a tema
organizzate da mio nonno tra le due guerre (in quella del 1935 tutti sono
mascherati da abissini!), se ne deduce che godersi la vita insieme agli altri è
una tradizione di famiglia. Mio nonno, grosso commerciante, organizzava spesso
il Mercante in fiera e naturalmente era il banditore. Papà e mamma avevano un
debole per le cene gastronomiche, dove ognuno portava un piatto preparato da
sé. Abbiamo una serie di foto dove si vede di tutto: ecclesiastici italiani e
stranieri, amici di famiglia, compagni di scuola, commilitoni di caserma,
famiglie con bambini. Non solo: quando mia sorella Susanna doveva preparare
l’esame di architettura detto di composizione, era un turnover di studenti che
si alternavano per disegnare di continuo tavole su tavole (all’epoca non c’era
la computer grafica). Camera di Susanna era piccola e da solo il tavolo da
disegno occupava un terzo dello spazio, quindi io e Fabio prestavamo anche le
camere nostre. Una festa di compleanno di Fabio rimase storica: più di 80 o
forse 100 invitati, al punto che si temeva per i solai. E poi le famose
proiezioni: papà faceva un film per ogni viaggio che una volta all’anno faceva
con mia madre. Essendo stato un semiprofessionista del cinema, i film erano
medio metraggi ben fatti, ben al di sopra dei filmetti in superotto della prima
comunione che dovevamo sorbirci altrove. Seguiva sempre un ricevimento dove non
ci siamo mai fatti guardare dietro neanche quando non avevamo una lira. Questo
è stile.
Quella casa ha
visto anche i nostri primi amori. Non avendo figli, poco so dei giovani d’oggi,
ma è evidente che crescono in un ambiente familiare e sociale molto diverso dal
nostro – parlo per me e per i miei fratelli e sorelle. Le ragazze erano normali
ma poco sveglie e soprattutto molto controllate dalle famiglie, mentre noi
maschi eravamo spesso imbranati e sul sesso e l’amore c’erano meno informazioni
di adesso. Morale: Fabio mio fratello ogni tanto mi chiedeva di andare a
studiare in biblioteca, visto che lui con le ragazze ci sapeva fare, mentre la
prima volta che mi sono portato in casa una ragazza – quanti anni avevo meglio
non dirlo, altro che rapporti precoci – ho rischiato di farmi scoprire perché
nel frattempo mia madre tornava dal negozio. Nascosi la mia giovane amante da
qualche parte, poi la feci uscire, nonostante ancora mezza nuda insistesse per
conoscere la potenziale suocera, la quale seppe tutto il giorno dopo dalla
portiera. Già, perché avevamo pure la portiera, dove oggi un senatore ci ha
messo lo studio privato. Ma la regola imposta da mio padre era: le donne non ce
le porto io, quindi non dovete farlo manco voi. Principio discutibile, visto
che una donna comunque lui ce l’aveva, ma con mio padre non si scherzava. Oggi
i miei nipoti ascolterebbero questi racconti come una cronaca d’altri tempi,
come in effetti è. Ma se penso che nelle feste di liceo del sabato pomeriggio
non era affatto rara la presenza delle madri e zie delle ragazze che ci avevano
invitato, qualche volta mi viene da ridere: visto col metro di oggi, il nostro era
un mondo omerico.
Anche il letto
dove ho vissuto i miei non molti amori non esiste più: l’ho smontato e buttato.
Qualcosa però a casa vecchia è rimasto: qualche quadro per arredo, la grande
stampa panoramica di Roma che ornava continuerà a ornare la parete del salotto
(venduta al nuovo proprietario) e quel pianoforte inglese che mio padre suonava
nel tempo libero. Non lo volevamo portar via perché scordato e tutto sommato di
media qualità. Mia suocera a casa di pianoforti ne ha due, uno meglio dell’altro
perché era pianista, quindi non aveva senso averne un altro. In più, il
trasporto dei pianoforti è gestito da poche, costose ditte specializzate.
Quando il nuovo padrone di casa ha chiesto di tenerlo per arredo, non ce lo
siamo fatti dire due volte.
Quanto al nuovo
proprietario, è l’ennesimo esempio di come si distrugge il centro storico. Una
sinistra ossessionata dalle piste ciclabili ma incapace di elaborare un piano
per il commercio nel Centro, più una giunta di dilettanti allo sbaraglio hanno
sottovalutato se non ignorato un fenomeno che sta modificando le città d’arte:
il sovra turismo, overtourism in inglese. L’affitto breve ai viaggiatori
low-cost è l’affare del momento. Tenete duro, se siete ancora abitanti del
centro, anche se ogni giorno vedrete per le scale gente diversa che parla altre
lingue e lascia solo mondezza, o se per strada sentite il rumore continuo e
ossessivo dei trolley che scorrono sui sampietrini, erede dei carri che
disturbavano il sonno del poeta latino Orazio. I negozi di zona – sempre più
kitsch e omologati sul modulo cinese e pakistano – si sono adeguati a questi
nuovi nomadi, grazie anche alla totale disattenzione o corruzione dei politici.
Anche il mercato di Campo di Fiori si è adeguato al turismo e si vede: un altro
segno dei tempi. Ma il Campo era già da tempo divenuto almeno di sera un luna
park per alcolisti italiani e stranieri e i titolari dei banchi preferivano
trasferire la licenza ad altri mercati rionali. Questo anche per un motivo poco
noto: la speculazione sui magazzini attorno alla piazza, diventati pub, ha reso
troppo costosa la loro gestione come depositi di mercato. Il turismo ha fatto
il resto, visto anche il progressivo spopolamento della zona.
Detto questo, la
mia non è una lettera di addio. Sicuramente niente sarà più come prima, ma la
vita continua.
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