Con Gina Lollobrigida scompare forse la penultima (ci resta la Loren) delle dive “nostrane” ,figlie del dopoguerra, del disagio di quelli anni difficili, un po’ provinciali ma con tanta grinta e coraggio da farle capaci di attraversare il turbine della guerra, il travaglio della povertà, i disordini politici, l’affermazione della democrazia in Italia, il cosiddetto “Boom” economico e, non ultimo, l’avventura hollywoodiana!… La nostra Gina nazionale (insieme alla Loren) dopo l’esplosione della cosiddetta “maggiorata” (famoso l’episodio di Blasetti di “Il processo di Frine” nel quale uno scatenato Vittorio de Sica usò per primo questo termine!) con la sua tenacia e la sua volitiva personalità volle affermarsi anche come interprete e attrice: desiderio che ahimè rimase sempre incompiuto perché poche furono le occasioni che ebbe per distinguersi aldilà della sua bellezza.
In genere le furono concessi ruoli che si affidavano al suo fisico perfetto e a un po’ di umorismo nostrano, tanto che anche oggi rimane il suo pseudonimo di ” bersagliera” in “Pane ,amore e fantasia” che poi, a parte il successo del film, è un filmetto di quel neorealismo rosa che tanto imperversò negli anni ’50…. A questo riguardo la Lollo orgogliosamente affermava, per le poche occasioni che aveva avuto, che al contrario di altre (la Loren) lei “non aveva sposato un produttore”, e doveva tutto solo a sé stessa!… La sua avventura nella Mecca del cinema americano diede qualche frutto e qualche film soprattutto spettacolare che più che altro servì a rinforzare il mito internazionale della sua bellezza mediterranea. Ma dietro questa levigata bellezza c’era una donna forte, intelligente, coraggiosa, ammirata oltre che da noi, in Francia, in America, dovunque affermando l’icona proverbiale della sua sicura personalità.
In quelli anni la nostra Gina ebbe occasione di confrontarsi con alcune leggende femminili d’oltreoceano, soprattutto l’indimenticabile Marylin Monroe, in cui risaltò il carattere e la sicurezza della nostra attrice rispetto alla scoperta fragilità della Monroe (cosa che già aveva posto in risalto anche la Magnani al tempo del suo Oscar nell’incontro con la biondissima!)… Lollobrigida, la Magnani, la Loren: tutte dive nostre ma con un denominatore comune: la fierezza anche delle loro umili origini, la creatività, lo spessore umano e la forte capacità interpretativa che, in terra americana, seppe risaltare appieno rispetto ad altre dive e problematiche di donne e attrici “vittime” di una fragilità e di una sofferenza pur imposta forse dalla terribile ghigliottina spietata dei loro “media”, dello “Star-system” e della logica americana del successo che logora :penso, oltre la Monroe, a Judy Garland, a Jane Mansfield, a Liza Minnelli e al mito di Jeane Harlow… Le nostre dive, soprattutto la Lollobrigida che oggi piangiamo, seppe conservare la sincerità, la franchezza e la solidità delle sue origini; ecco perché oggi la ricordiamo con affetto e la ammiriamo come una nostra piccola eroina, un po’ sfacciata e orgogliosa della sua terra e delle sue tradizioni di cui anche noi viviamo e godiamo. Per tutto questo volentieri e con affetto salutiamo una ultima volta la Lollo come fece allora de Sica: “…Salutammo bersaglié!”
Il film è tratto dall’omonimo romanzo della scrittrice finlandese Rosa Liksom, nota in Italia anche per altri suoi libri (1). Chi li ha letti ha imparato ad amare i suoi personaggi usciti dal nulla, poco comunicativi, spesso in viaggio e frequentatori dei non-luoghi tipici del road movie. Qui siamo immersi piuttosto in un “rail movie”: i protagonisti viaggiano nello stesso scompartimento ferroviario e sono fin troppo diversi: una giovane, taciturna ricercatrice finlandese di archeologia e un giovane operaio russo, bullo e mezzo delinquente. Il libro è ambientato nell’Unione Sovietica di fine anni ’80 – ma davvero la Russia è cambiata una volta usciti dalle grandi città? – e si dipana per la Transiberiana. Qui però il film per esigenze narrative si concentra sul tratto San Pietroburgo – Mosca per poi puntare a nord verso Murmansk (mare Artico). La ragazza deve vedere alcune pitture rupestri, lui è stato assunto come operaio da una compagnia mineraria. Ogni volta che scendono dal treno di decente c’è solo la vodka, ma la vita a bordo non è facile: spazi stretti, convivenza difficile e lunghe soste in stazioni inospitali di città chiuse (2). Lui è brusco, ma si rivela generoso: ospita lei da una ciarliera vecchietta mezza parente, le rimedia una macchina (rubata?) e l’aiuta a cavarsela con russi disposti a tutto purché pagati: d’inverno il luogo dove si trova la zona archeologica è impraticabile e il meteo è proibitivo. Lei ha alle spalle una dolorosa storia d’amore (sembra; in realtà il suo malessere è più profondo) e in fondo si affeziona a questo simpatico mascalzone (diciamolo: è un classico) sfuggente quanto lei, ma più onesto di quanto sembra, mentre è proprio un connazionale della ragazza a rubarle la videocamera dove c’è anche il suo archivio personale. Ma è in fondo quando perde la memoria (digitale) che la ragazza si concentra su questo scontroso e solitario giovane russo, fin troppo caratterizzato (robusto, testa rasata, una cicatrice in fronte e l’aria spavalda; sembra uscito di peso da Educazione siberiana). Lo spazio claustrofobico dello scompartimento – a una stazione sale pure una famiglia con bambini – si alterna al lusso del vagone ristorante, dove a fine viaggio però servono solo panini (3). Inospitale è invece l’esterno: quando arriveremo a Murmansk e infine all’isolotto dove si trova questa famosa zona archeologica, ci ritroviamo in capo al mondo fra relitti di navi e inquinamento industriale. Lei vorrebbe in fondo legarsi a quest’uomo, ma lui non si fa mai prendere. Alla fine inevitabilmente si separano, ma ormai sono tutti e due cambiati interiormente e la convivenza in fondo non è stata così drammatica come si pensava all’inizio. Merito del film è infatti una ripresa fatta esclusivamente con camera a mano (molto realistica) e una sceneggiatura che riesce sempre a tenere sospesa l’attenzione dello spettatore. L’idea della convivenza forzata di caratteri diversi e di incontri improbabili durante un viaggio in un piccolo spazio chiuso non è nuova: è introdotta per la prima volta in un racconto di Balzac, Palla di sego (4) e ripresa da decine di film, persino in Ombre Rosse di John Ford. Qui il regista finlandese Juho Kuosmanen sfrutta al massimo le differenze culturali e caratteriali dei due protagonisti, con effetti anche divertenti. Il film è stato presentato al Festival di Cannes quest’anno e ha conquistato il Premio Grand Prix Speciale della Giuria.
Note:
Stazioni di transito (1985, ed. it. 2012) e Memorie perdute (1986, ed. it. 2003) sono raccolte di racconti, mentre sono romanzi La moglie del colonnello (2019, ed. it. 2020) e Scompartimento n. 6 (2011, ed. it. 2014). La traduttrice è Delfina Sessa.
Alcune città russe sono chiuse agli stranieri o a chi non ci lavora. Vi sono concentrate le industrie militari o comunque strategiche e sono del tutto prive di interesse per un turista. Vedi: https://www.iltascabile.com/societa/citta-chiuse/
In Transiberiana , di Marco Pellegrino (1992) testimonia che in molte stazioni sovietiche cuochi e i ferrovieri si rivendevano i viveri pregiati, traffico che avveniva alla luce del sole.
Scompartimento n.6 (Hytti nro 6) Regista: Juho Kuosmanen Con: Seidi Haarla e Yuriy Borisov Genere: Drammatico Anno: 2021 Paese: Finlandia, Russia, Estonia, Germania Durata: 107 min Data di uscita: 02 dicembre 2021 Distribuzione: BIM Distribuzione
Hollywood non cessa di stupirci: a partire dall’edizione 2024, per poter essere candidati al titolo di Miglior Film (Best Picture), le pellicole dovranno presentare nella storia e/o nel team di produzione una quota variabile di persone provenienti da categorie sottorappresentate: donne, Lgbtq, etnie minoritarie negli Stati Uniti, disabili. Più che Miglior film, meglio chiamarlo Equilibrista: per ottemperare a tutti i criteri di giustizia sociale richiesti, i produttori, gli sceneggiatori e i registi dovranno dar prova di straordinarie capacità di adattamento all’ambiente.
Intanto ecco le regole contro le discriminazioni. Il film dovrà soddisfare almeno due di quattro standard diversi. Il primo (standard A), riguarda la «rappresentazione sullo schermo, i temi e la narrazione». Un film può venire candidato se almeno uno dei protagonisti, o uno dei comprimari di peso, appartiene a una minoranza razziale tra quelle di seguito elencate: «Asiatico, ispanico/latino, nero/afroamericano, indigeno/nativo, nativo dell’Alaska, mediorientale/nordafricano, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico, altro». Male che vada, «almeno il 30% degli attori in ruoli secondari o minori dovrà provenire da almeno due dei seguenti gruppi sottorappresentati», cioè «donne, minoranze razziali, Lgbtq, persone con disabilità cognitive o fisiche, o che sono sordi o con problemi di udito». Perché mai i sordi sono considerati disabili a parte? Mistero. Terza possibilità, «la storia principale»: almeno quella dovrà vertere su uno dei gruppi sottorappresentati ma succitati. Insomma, basta che parli di donne, di minoranze, di disabili, di omosessuali. Facile, no?
Il secondo standard, il B, considera invece la direzione artistica e la produzione e non riguarda il pubblico pagante. Criterio B1: «Almeno due delle seguenti posizioni devono essere affidate a persone provenienti da gruppi sottorappresentati: direttore del casting, direttore della fotografia, compositore, designer dei costumi, regista, tecnico del montaggio, parrucchiere, truccatore, producer, designer della produzione, set decorator, tecnico del suono, supervisore agli effetti visivi, autore». E almeno una di queste deve appartenere a un gruppo razziale (sempre di quelli elencati prima) minoritario. Il B2 chiede soltanto che almeno «sei» posizioni di quelle non elencate (tranne gli assistenti alla produzione) siano affidate a gruppi sottorappresentati o di etnie minoritarie. E il B3 vuole che «almeno il 30%» della troupe del film appartenga alle ormai note categorie sottorappresentate.
Lo standard C parla di soldi e opportunità di carriera, e per ottenerlo bisogna soddisfare entrambi i criteri presentati: «L’azienda che si occupa del finanziamento o della distribuzione del film deve prevedere stage e apprendistati pagati per i gruppi sottorappresentati». Per la precisione, gli studios più importanti o le aziende di distribuzione più grandi «devono avere in essere apprendistati o stage pagati per i gruppi sottorappresentati» e «soprattutto nel settore della produzione, della produzione fiscale, della post-produzione, della musica, degli effetti visuali, delle acquisizioni, della distribuzione, del marketing e della pubblicità». Per gli indipendenti basta che ci sia almeno un minimo di due posizioni affidate a chi proviene dai gruppi sottorappresentati (ma almeno uno deve essere di una etnia minoritaria), negli stessi settori. Il secondo criterio prevede che chi si occupa della produzione o del finanziamento del film offra opportunità di lavoro o di sviluppo delle competenze fuori dal capitolo di spesa per persone dei gruppi sottorappresentati.
Infine lo standard D: prevede un criterio solo: «La rappresentazione nel marketing, nella pubblicità e nella distribuzione». In questi settori «più posizioni dirigenziali interne dovranno essere coperte da persone provenienti dai gruppi sottorappresentati ».
Questo il testo, che ho voluto riportare quasi per intero. E’ evidente che gli impegni più gravosi riguardano lo standard A, artistico ed espressivo, mentre gli altri rimodulano questioni diciamo pure sindacali. Ma è impressionante notare che, mentre il codice Hays (la vecchia censura cinematografica americana, esterna allo Stato ma efficacemente gestita dai produttori, come adesso queste nuove regole) dava un elenco di quello che non si doveva mostrare, questo nuovo codice prescrive quello che si deve rappresentare e in che modo. In questo ricorda più la nostra Controriforma cattolica. Ma c’è davvero tanta differenza con la censura sovietica imposta dal GosKino ai registi, quasi mai liberi di parlare di certi argomenti in modo che non fosse simbolico e vagamente allusivo? E non spingerà tanti artisti all’autocensura, pur di far carriera o campare?
Tanto per cominciare, inclusione e maggiore diversità da sole non significano qualità. Ce lo ricordava (con un ragionamento inverso) il protagonista di Mephisto (1981) di Istvàn Szabò, stupendamente interpretato da Klaus Maria Brandauer: l’artista si vende al Nazismo, ma è costretto ad assumere attori mediocri solo perché alti biondi con gli occhi azzurri. Era la Berlino degli anni Trenta, ma non è invertendo i poli che si cambia la corrente. Quello che è peggio, nella balcanizzazione sindacale a rimetterci è l’umanità fuori schema o figlia di matrimoni misti: penso a chi nell’ex Jugoslavia morente era costretto a scegliere l’etnia, o chi a Bolzano deve decidere per legge se il figlio è tedesco o italiano. In sostanza, per proteggere le minoranze finisci nella trappola delle “quote” ed escludi chi non vuol saperne di tessere, etichette, clan e tribù.
Secondo: i controlli. Come verifichi la razza e la sessualità di chi lavora a un film? Il documento parla di «ispezioni sul set». Stupendo: con che coraggio chiedi a un attore se è ebreo? ? E con quale diritto mi chiedi con chi vado a letto? Ancora : devo portarti il DNA per dimostrare che ho sangue polinesiano? E Barak Obama che alle Hawaii c’è nato, devo assumerlo in quota ai neri o agli hawaiani? Alla faccia della privacy e con la speranza che i miei dati non finiscano nello schedario delle Milizie di Cristo o dei gruppi paramilitari del Nebraska.
Terzo, il tipo di prodotto. In un film storico non posso rischiare l’anacronismo solo per far piacere ai nativi dell’Alaska o ai portoricani. In un film sulla Serenissima posso includere mori, turchi, schiavoni, stradiotti, greci, panduri e morlacchi, ma nel deserto di El Alamein devo attenermi alla cruda realtà storica. In una serie ispirata all’Iliade (Troy) Achille è nero, ma solo per solleticare il pubblico dello stesso colore. Io invece avrei suggerito Elena: la bellezza sottratta al popolo africano dagli Europei colonialisti. Purtroppo Brecht non è più di moda.
Quarto: i film stranieri, dovranno rispondere agli stessi criteri? Ci sto: noi italiani ci risparmieremo le spese per proporre film che tanto nessuno si fila. Nessun film italiano è stato mai prodotto seguendo quelle regole: ne uscirebbe una sgangherata commedia sociale piuttosto che un dramma. E’ vero che gli sceneggiati televisivi son sempre più attenti a includere gay, immigrati buoni e famiglie ricostruite, incluso il fidanzatino “bangla” per la figlia adolescente, ma chi paga il biglietto in sala in genere è più esigente.
Infine: come se ne esce? Come il cinema ha sempre fatto: aiutando la minoranze a studiare e ottenere quella maturità culturale che poi permetterà loro di esprimersi da protagonisti. Francis Ford Coppola, Robert De Niro, Martin Scorzese hanno riscattato dal basso l’immagine degli italo-americani, ma non perché protetti da quote etniche: talento a parte, si sono affermati grazie al loro lento, sistematico impegno nel mestiere. Pensavo stamattina ad Assandira, il film del regista sardo Salvatore Mereu presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Nessuna quota era riservata ai film sardi, eppure Mereu ce l’ha fatta. Mentre provo a immaginare un film fatto con i nuovi criteri: è ambientato in Alto Adige, deve tener conto non solo della minoranza (?) di lingua tedesca, ma anche delle subminoranze incastrate nelle valli: ladini, mocheni, cimbri. E se il protagonista italiano offende il comprimario sudtirolese, a metà film rotolerà giù per un burrone.
Ieri
è morto Max von Sydow, l’indimenticabile cavaliere che nel Settimo Sigillo di
Ingmar Bergman (1957), proprio durante un’epidemia di peste, gioca una lunga
partita a scacchi con la Morte. Parlare della peste finora mi ricordava solo
certi temi di liceo (la peste in Tucidide, in Lucrezio, nel Decamerone e nei
Promessi Sposi, col primato manzoniano nell’umanità delle descrizioni), ma di
mio ci metto anche letture meno scolastiche, non tanto The Journal of Plague
Year di Daniel Defoe (1722) o La Peste di Camus (1947), quanto piuttosto
L’amore ai tempi del colera di Jorge Amado (1985), dove l’epidemia ostacola ma
non scoraggia affatto chi ama la vita. Già, perché l’epidemia scatena
l’angoscia di massa (basta vedere i supermercati presi d’assalto come in guerra
o la diffidenza sui mezzi pubblici), ma anche frenetiche reazioni vitali: ogni
giorno su whatsapp mi arrivano scherzi e barzellette sul coronavirus, che
subito ritrasmetto in modo virale (!) agli amici. Questo almeno compensa il
clima di coprifuoco e i quotidiani consigli: lavarsi spesso le mani, non
tossire in faccia agli altri, sanificare water e lavandini, cioè quello che una
persona civile dovrebbe comunque fare ogni giorno senza aspettare un’infezione.
L’epidemia diventa sempre una metafora: ora castigo divino, ora segno di
malessere o degenerazione politica, ora prova del complotto internazionale o
dei cambiamenti climatici. Una letteratura che va dalla Bibbia a Manzoni, da
Thomas Mann ad Albert Camus fino a Saramago, ma non disdegna inverosimili
rivelazioni del Mossad (che non rilascia mai dichiarazioni, ndr.) o profezie
apocalittiche. Ma gli antichi erano in parte giustificati: privi di microscopio
e di antibiotici, non avevano idee migliori che relegare in isole lazzaretto le
navi provenienti dall’Oriente o le carovane con cui viaggiavano insieme uomini,
merci, animali, virus e batteri. Soprattutto gli intellettuali francesi – penso
ai Nouveaux Philosophes degli anni ’70 del secolo scorso – hanno scritto colti
volumi sulla strategia dell’isolamento e della reclusione ed esclusione del
malato infetto, sia esso appestato o psichiatrico, ma i pragmatici Veneziani di
cinque secoli fa certi problemi non se li ponevano proprio e quindi
provvedevano a isolare – esattamente – gli infetti. Ricordo anni fa di aver
trovato un teschio scavando in un campeggio nell’isola di Osljak (in veneziano:
Calugerà) davanti Zara, in Dalmazia. L’isola naturalmente si chiamava anche
Lazaret. Le navi di un tempo viaggiavano comunque lente e così le carovane,
quindi le epidemie non si spargevano rapidamente come ora, dove bastano un
aereo o una nave da crociera per creare il panico mondiale. Ne La morte a
Venezia di Thomas Mann l’impiegato inglese dell’agenzia di viaggio spiega al
prof. Aschenbach il lento itinerario del colera di cui nessuno deve parlare:
alla fine dalla Turchia è arrivato a Venezia, dopo aver fatto per anni il giro
di altri porti. Quell’epidemia non se l’era inventata Thomas Mann, ma si è
saputo dopo: la censura sull’informazione era stretta, tant’è vero che pochi
sanno che l’epidemia di febbre spagnola del 1918 fu introdotta in Europa dai
soldati americani inviati in Francia contro i Tedeschi. La chiamiamo
universalmente “spagnola” perché la Spagna era un paese neutrale e quindi solo
i giornali iberici ne parlavano senza censura militare. In realtà il focolaio
si era sviluppato tra le reclute del Kansas che lavoravano negli allevamenti
dei maiali e si sparse in Francia fra la truppa ammassata nelle retrovie del
fronte occidentale. Il tentativo di dar la colpa agli operai cinesi non regge:
erano stanziati lontano, sulla costa californiana (1). Ma come sempre, il Male
lo porta sempre lo Straniero. L’epidemia fece 100 milioni di morti, di cui 20
solo in Europa, più dei 17 milioni di soldati caduti al fronte, anche se
bisogna mettere in conto una popolazione indebolita da quattro anni di guerra e
dalla mancanza di antibiotici, inventati e diffusi vent’anni più tardi. Ma la
memoria della spagnola si è spenta con i nostri nonni, i veri sopravvissuti a
tutto quanto può essere accaduto nel Secolo Breve.
Naturalmente
nel momento della disgrazia collettiva saltano fuori il meglio e il peggio del
Genius Loci. I Cinesi hanno dimostrato ancora una volta una grande
organizzazione collettiva, ma anche la differenza tra un ordine che parte
dall’alto e una comunicazione che parte dalla periferia per il centro. Noi
italiani abbiamo finora scoperto che la frettolosa e sgangherata riforma del
Titolo quinto della Costituzione ha portato allo scoordinamento totale tra
Stato e poteri locali. Voluta qualche anno fa per contrastare il federalismo e
il pericolo della secessione, ha precluso al Ministero della Salute la
possibilità di imporre standard sanitari coerenti su tutto il territorio
nazionale. Il balletto dei decreti ufficiali sembra poi allineato allo stile di
Badoglio. Ma neanche l’Europa brilla per capacità organizzativa: non si è
stabilito subito un protocollo comune per stabilire il grado di contagio; si
permette ai singoli stati di decidere chi entra e chi esce, senza neanche
avvertire i viaggiatori e le ambasciate. E se abbiamo scoperto tanti casi, è
anche perché abbiamo fatto un controllo con 25.000 tamponi, dieci volte più che
in Germania o Francia. Infine, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ancora
non ha deciso se è pandemia o no. Nel frattempo è sparita l’Amuchina, insieme
ai partiti politici in continua lite fra di loro. Forse per senso civico, ma
anche perché il Coronavirus ha – come direbbero i pubblicitari – vampirizzato
la comunicazione, complice anche una tv che mobilita un esercito di esperti –
virologi, ospedalieri, volontari, ricercatori a tempo pieno. Momenti di Gloria.
Nel frattempo finalmente anche in Italia si scopre lo smart working, lavoro
agile, quello che anni fa si chiamava telelavoro ma non poteva ancora valersi
delle linee veloci, di whatsapp e della logistica in stile Amazon. Ma ci voleva
la Peste Nera per modernizzare l’Italia?
E
sempre a proposito della Peste, mi piace essere originale e di parlare di un
libro tradotto solo nel 1940 da Elio Vittorini e di cui ho fatto cenno
all’inizio: A Journal of the Plague Year (Diario dell’anno della peste o La
peste di Londra ) pubblicato nel 1722 anonimo, ma riferito all’epidemia che
falciò la popolazione di Londra nel 1665. Presentato come cronaca autografa di
un testimone oculare dell’epidemia e integrato da documenti originali, era
stato in realtà scritto da Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe,
pubblicato anch’esso come reale autobiografia. Fake news? No, il nostro autore
sapeva far bene il suo mestiere di scrittore e pioniere del giornalismo. La
critica italiana preferisce naturalmente Manzoni: «Nel libro di Defoe c’è meno
arte, meno maestria, meno meditazione e più peste» , scrive Vittorini. Io
invece provo una profonda ammirazione per i grandi falsari, e Daniel Defoe lo
era (2). Alieno da sentimentalismi e sovrastrutture morali, ha confezionato una
vivida e accurata cronaca fingendosi testimone oculare.
Tutti
gli altri scrittori hanno esteso invece la descrizione dell’epidemia
proiettandola in una dimensione morale, metafisica. Lucrezio nel sesto e ultimo
libro del De rerum natura descrive la peste di Atene del 430 a.C. sulla scia di
Tucidide (3), il quale notava la destrutturazione morale della società colpita
dal morbo, il che non sfugge neanche a Boccaccio nel Decamerone. Se gli dèi non
ti proteggono, l’etica non paga. Ma è proprio Lucrezio a suggerire che
l’epidemia è un fenomeno naturale e gli dèi poco c’entrano: proprio i santuari
sono pieni di cadaveri e la malattia non distingue tra buoni e cattivi. Sarà
piuttosto Manzoni ad affidare alla peste il compito di punire Don Rodrigo e il
Griso, anche se sapremo solo dopo anche della morte di Fra’ Cristoforo nel
Lazzaretto, dove prestava aiuto agli altri. Epidemia invece tutta laica,
decadente e tardo romantica ne La Morte a Venezia di Thomas Mann (1912), libro
noto anche per l’interpretazione cinematografica di Luchino Visconti (1971).
Peste che Albert Camus interpreta invece come metafora del Nazismo, anche se la
dinamica resta la stessa: all’inizio si sottovaluta il contagio, poi non si
deve creare allarmismo e in questo modo la situazione peggiora; quindi si
ordina un rigido cordone sanitario attorno alla città e si studia il vaccino.
Qui siamo a Orano, in Algeria, forse nel 1940 o comunque sotto il governo di
Vichy (1940-44), e a descrivere tutto è un medico. La trama è abbastanza nota,
quindi non la riassumo, come nota è la morale: bisogna vigilare perché solo la
prevenzione può evitare il ritorno del flagello. Ma che si parli di Nazismo è
solo sottinteso, visto che i topi neri che hanno invaso Orano non portano
incisa la svastica. In fondo, il romanzo di Camus potrebbe essere
reinterpretato di continuo, come certe opere di Brecht.
Mi
piace però terminare questo primo excursus con Cecità di José Saramago (1995).
Questa improvvisa cecità che si espande a macchia d’olio fra gli abitanti di
una città non definita è inspiegabile, come non si capisce il motivo per cui
nel finale tutti i ciechi guariscono senza alcuna ragione apparente, proprio
come all’inizio della vicenda era sopraggiunta improvvisa l’epidemia. Nel libro
non manca niente: la sofferenza collettiva, i morti per le strade, una
protagonista immune dal contagio, la strategia della reclusione dei malati, il
crollo della morale e l’affermarsi della legge del più forte. E’ un romanzo
complesso e va letto per intero, ma ha una precisa chiave di lettura, espressa
da uno dei personaggi, più precisamente la moglie del medico: «Secondo me non
siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non
vedono». E’ quindi un j’accuse all’indifferenza, il nuovo male del secolo.
E
passiamo al cinema. In questo momento le sale cinematografiche sono vuote per
paura del contagio, ma di film con epidemie è piena la storia del cinema.
Scarto però in anticipo le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso
illustrano, non interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in
scena, sfruttando le enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel
ricostruire ambienti e scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie
edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino
Visconti (1971) o ancora de L’amore ai tempi del colera (2007). I soggetti
originali per una rassegna di cinema “epidemico” sono infatti per la maggior
parte film di fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove
virus e batteri sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. Con l’aiuto di
Google, ecco un breve elenco: L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha
visto ben tre adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954
da Richard Matheson col titolo Io sono leggenda (1954), narra di un’epidemia
causata da un batterio che trasforma tutti gli umani in vampiri. Il solito
meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è Robert Neville, che si barrica e
si difende a modo suo. Una curiosità: la prima versione fu girata all’EUR. Ma
parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato George Romero: La città verrà
distrutta all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in
questione, è stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli
abitanti diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in
attesa che lo sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus
Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang Petersen. Il virus nasce in
Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce gli Stati Uniti si finanzia la
ricerca (più chiaro di così..) e parte la caccia per rintracciare la “scimmia
zero” da cui è partita l’infezione e così produrre il vaccino. Cugini primati
che rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry
Gilliam (1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe
dopo la pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willys) nel
1995, a pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga il danno.
Nel film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due
anni dopo esce Il Quinto Elemento di Luc Besson e ricompare proprio il nostro
Bruce Willys, stavolta nell’impresa di salvare il mondo dal Male Supremo,
evocato da uno sconsiderato scavo archeologico. Il film è intricato e mischia
anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al genere catastrofico, dove
l’elemento di base è che la minaccia letale per gli umani proviene sempre da
fuori.
Andiamo
avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi
ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare
loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28
giorni dopo (2003), di Danny Boyle, dove stavolta il virus è stato creato in
laboratorio e sperimentato su aggressivi scimpanzé che scappano in giro (ancora
scimmie, ma che fantasia!). Manco a farlo apposta, in quell’anno scoppiò
l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh, vero
uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema respiratorio
e si trasmette velocemente con una stretta di mano. Ma giusto ieri sera in tv
c’era Weaponized (2016), di Timothy Woodward jr. , dove il virus è robotico,
creato in laboratorio dal padre vendicativo di una vittima per terrorismo.
Cosa
resta allora che non sia film di genere? Beh, ho citato
all’inizio Il Settimo sigillo di Ingmar Bergman, dove siamo in piena epidemia di peste nera, e il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo meno schematico. In Orfeo negro (1959) di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria due film che ci proiettarono alle elementari, quando esisteva ancora una figura professionale chiamata vigilatrice scolastica. Il primo era avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il siero contro la difterite. Non ricordo il titolo, ma ricordo questi treni di slitte che avanzano nella tormenta polare e ieri ho scoperto (con Google, lo ammetto) che Balto, uno dei leggendari husky siberiani della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento in bronzo al Central Park di New York, a perenne riconoscenza dei bambini. L’altro era un tetro film giapponese del dopoguerra: Una lettera per Tezuò. Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e ogni volta che penso a quel film giuro che ancora mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa convincermi a cambiare idea sui vaccini. Ricordo anche di quel padre che nella Budapest del dopoguerra è alla spasmodica ricerca della penicillina per salvare il figlio (El Dorado o A peso d’oro, 1989, regia di Géza Bereményi ). E visto che parliamo di cinema ungherese, mi piace concludere in modo indiretto con un film che di epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982, ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa significa il rallentamento della vita sociale dovuto a un traumatico evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.
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NOTE
1)
Laura Spinney, 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo.
Trad. di
2)
Defoe è considerato il padre del moderno romanzo, ma è stato anche un
giornalista, e il suo stile realistico lo dimostra. Tutte le sue opere
narrative (Robinson Crusoe, Capitan Singleton, Memorie di un Cavaliere, Moll
Flanders, Lady Roxana) si presentano come autobiografiche e lasciano poco
spazio al sentimentalismo che avrebbe imperato dopo.
3)
Dai sintomi, gli specialisti hanno ipotizzato che si trattasse in realtà di
tifo esantematico. Vedi: Manolis J.
Papagrigorakis, Christos Yapijakis, Philippos N. Synodinos e Effie
Baziotopoulou-Valavani, DNA examination of ancient dental pulp incriminates
typhoid fever as a probable cause of the Plague of Athens, in International
Journal of Infectious Diseases, vol. 10, nº 3, 2006, pp. 206–214
Il racconto dell’assedio di Khartoum da
parte del Mahdi e della resistenza operata da Charles Gordon. Una delle
pellicole più celebri del cinema inglese, incentrata sulla più grande
rivolta mai operata in Sudan.
Khartoum
1884: ad el Obeid, in Sudan, un esercito
di 10’000 soldati anglo-egiziani vengono uccisi dai ribelli fedeli a
Muhammad Ahmad, il neo proclamato Mahdi. La presenza di 15’000 cittadini
britannici a Khartoum, spingerà allora il governo britannico ad inviare
in Sudan il generale Gordon, eroe dell’Impero che già si era occupato
del paese. La sua missione appare però fin da subito disperata e
l’inglese si darà un gran da fare per potenziare al meglio le difese,
riuscendo a far circondare completamente la città dal Nilo.
Un colloquio con il Mahdi risulterà pieno
di stima ma privo di sostanza, rendendo chiaro a Gordon che la fine è
ormai vicina. A questo punto il condottiero britannico non potrà far
altro che sperare in un aiuto in extremis, mentre tenta di far risalire
ai suoi concittadini il corso del fiume.
Eroe britannico
Il film, uscito nelle sale nel 1966, narra
la caduta di uno dei più celebri eroi dell’Impero britannico, Charles
Gordon, caduto infine proprio durante tale assedio. La celebrazione a
tale personaggio sarà la chiave portante di tutto il film, trasponendo
esattamente l’idea che avevano gli inglesi sia di questa battaglia che
del loro ruolo nel mondo. Il “buono” è l’europeo venuto a “civilizzare”
in Africa, non l’africano a cui la terra è stata sottratta.
Va detto che la figura del Mahdi, per
quanto non compresa, viene comunque rispettata durante tutto il film.
Tuttavia, anche se a vincere saranno poi i locali, il focus non sarà mai
sugli indigeni e sulle loro motivazioni continuando ad essere una
celebrazione di Gordon e dell’Impero.
L’ultima vittoria del Mahdi
La pellicola resta però estremamente interessante per la presenza di questo personaggio, simile, sotto moltissimi aspetti, a Lalla Fatma n’Soumer.
Con la condottiera algerina, infatti, condividette sia la presunta
vicinanza a Dio, sia un’incredibile abilità militare. Il Mahdi, in arabo
“il ben guidato/il messia”, fu anche in grado di concludere da
vincitore la propria campagna. A differenza della magrebina non venne
mai sconfitto, cadendo, probabilmente per tifo, pochi giorni dopo la
vittoria di Khartoum.
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