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La bellezza della libertà. Il sogno della bellezza e l’incubo di non averla

Quanto amiamo i titoli semplici ed evocativi! ed anche quelli monchi di una parte di significato, sia per pudicizia, per errore o altro

Ma procediamo con ordine.

Si sa, quando c’è Toni Servillo al cinema corriamo a staccare il biglietto; perché è l’unico “giovane” a saper esprimere la complessità di un artista. Ed è stato così anche per Viva la libertà e per La grande bellezza.

Ne hanno parlato tutti, del secondo – tra amici, sulla stampa, su quelle cose meravigliose che sono i social network, dove la gente si parla ma non si capisce – mentre del primo … poca cosa, forse l’avranno ritenuto banale, mah!

Il lamento generale, ormai almeno trentennale, è che “non ci sono più storie per il cinema”; chissà poi che storie si devono cercare, tutto sommato sono le stesse da millenni, sono i particolari ad essere diversi, i particolari e la sensibilità del tempo che cambiano, e che possono far cambiare storie uguali.

Qui c’era un validissimo esempio di storia diversa, anzi inversa, e ci riferiamo a Viva la libertà, ma non abbiamo visto in giro nessun accenno che lo sottolineasse; ed invece ce n’era un gran bisogno, perché non è usuale invertire un destino. Da Caino a Samonà, il fratello o è stato ammazzato o era pazzo, o è stato ammazzato perché era pazzo. Forse si ritiene banale uscire dal seminato, fare la figura dello scrittore di favole, uscire dal recinto degli “Autori”, forse qualcos’altro, ma in genere le storie millenarie sono intoccabili; ed invece abbiamo amato l’inversione “favolistica” che Andò ha usato facendo resuscitare il fratello pazzo, che pazzo non era per niente; se poi fosse il fratello, se fosse lui stesso, se fosse chissà chi, a noi non interessa; ci piace il coraggio dell’Autore di rischiare il banale, anche quando la scusa per l’emergere della figura nascosta avviene quando si va a ricercare il vecchio amore. Teniamo a mente il particolare, il ricordo del vecchio amore fa succedere qualcosa, lo ritroveremo anche di là.

Tra i due fratelli, Servillo ci stupisce per l’ennesima volta, e ci chiediamo quale possa essere il limite di quest’attore; giacché su registri tesi come corde di violino il nostro si muove agilmente quasi prendendosi gioco di noi, con sorrisi a volte ineffabili come quello della Gioconda, creando quello spessore che, solo, può riscattare da qualsivoglia accusa di “favolismo”. Anche gli altri attori, tutti molto bene orchestrati, sono più di semplici figure minori, diremmo che sono comprimari (la Bonaiuto, Mastandrea e gli altri); si sente attraverso di loro la tensione che origina da Servillo; ovvero, la tensione di cui Servillo è strumento, che origina da Andò quando candidamente mostra una soluzione che è più semplice e molto meno traumatica di quello che si è portati a credere, ovvero il cambiamento di un pensiero storico millenario sul mors tua-vita mea, sulla derivazione darwiniana della morale umana. Non è una cosa da poco, né cosa che può essere trattata né qui né da un dilettante critico cinematografico.

Una cosa chiediamo ad Andò, magari per il prossimo lavoro, che attendiamo, ed è un pari coraggio nella costruzione delle immagini di quanto ne abbia avuto nella costruzione della storia; totali-campi-controcampi descrivono bene, diremmo scolasticamente, quello che c’è, ma non aggiungono nulla; gli rivolgiamo qui un invito a ché le prossime volte ci stringa e ci trascini, più che farci solamente vedere gli attori.

E’ sempre Servillo che ci imbambola ne La grande bellezza, la quale però non c’è per niente, da qualsiasi parte si osservi la cosa. Ma qui ci piace il suo mestiere, il suo giggioneggiare, col quale passa quasi tutto il film, a parte qualche momento di grandezza tipica sua. Ma non è di lui la colpa, è il copione ad essere asfittico; la storia è banale, ma banale sul serio; il giovane scrittore di grande successo si vende per un pugno di denari alla società, che lo fa diventare famoso a prezzo della conquistata mediocrità, finché una vecchia suora gli fa balenare l’idea di ritrovare il suo giovanile amore (coincidenza, anche nell’altro la crisi dell’uomo lo spinge a ricercare il vecchio amore, solo che poi lì scappa fuori il fratello).

Quello che ci ha fatto ridere, leggendo un po’ in giro le recensioni e sentendo i pareri di persone colte, in genere di sinistra, è stato il coraggioso, al limite del voluto sacrilegio, con cui molti fieramente hanno scomodato Fellini e La dolce vita; come se nessuno di loro l’abbia vista, perché nel capolavoro si descriveva una Roma nei suoi interni, attraverso i suoi sguardi, una Roma misteriosa come una donna senza una parte del corpo in mostra (infatti nessun esterno romano viene in mente); al limite il tentativo di “imitazione”, se di questo si tratta, Sorrentino lo rivolge semmai a Satyricon, per noi un obbrobrio, un film per truccatori; con la presunzione però di descrivere un certo mondo, romano, altolocato e di potere; e di dare su questo una parola definitiva, un giudizio morale. La superficialità di tutto, dialoghi, ambientazione, caratteri, è resa paradossalmente ancor più banale dalle splendide interpretazioni degli attori, anche della Ferilli (a parte ovviamente la Ferrari) con un cammeo da storia del cinema, alla Giovanna Ralli, conferma una volta in più l’adagio in base al quale non esistono piccole parti, ma piccoli attori.

Ma non siamo poi così sicuri che la triade storiella banale-serate del potere- cartoline di Roma, sia una miscela con errori nelle dosi; siamo più convinti che dietro ci sia una idea dell’oggi, una Weltanshauung come direbbero alcuni tizi istruiti che conosco, molto radicata. La religione come metodo di conoscenza, la vecchia suora. Il circolo del potere come luogo- specchio della società, non è così per niente, ormai da tanti anni; ci sono tanti circoli, ed il potere non è più assieme alle avanguardie, alla cultura, come negli anni 50 e 60, l’ha detto La Porta su Left. Certo, si descrive quello che si vede, che si conosce, che si è in grado di conoscere. La bellezza di Roma, la Bellezza, che si contrapporrebbe al potere che corrompe, descritta con piattissime immagini da cartolina, che pure ci rimandano ai ricordi di una Bellezza che aiuta a vivere.

In verità ne esce un incubo, un labirinto dal quale scappare; per ultimo atto di complicità ritrattiamo però tutto, e vogliamo credere che la Bellezza ci serva come l’aria, che il Potere la distrugga, che dobbiamo darci da fare per ricostruirla.

Ma sarà poi vero? Oppure quella che dobbiamo ricostruirci è la Libertà, e la Bellezza sarà inevitabilmente parte di questa?

Non è un quesito da poco; invertire i termini potrebbe essere mortale.

Pedro

 

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06 Cinema Viva la libertà locandinaViva la libertà

 

Un film di Roberto Andò

 

Con Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Valeria Bruni Tedeschi, Michela Cescon, Anna Bonaiuto, Eric Trung Nguyen, Judith Davis, Andrea Renzi, Gianrico Tedeschi, Massimo De Francovich, Renato Scarpa, Lucia Mascino, Giulia Andò, Stella Kent, Federico Torre

 

Drammatico, durata 94 min. – Italia 2013.

 

 

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06 Cinema La grande bellezza locandinaLa grande bellezza

Un film di Paolo Sorrentino

Con Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Carlo Buccirosso, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Anna Della Rosa, Giovanna Vignola, Roberto Herlitzka, Massimo De Francovich, Giusi Merli, Giorgio Pasotti, Massimo Popolizio, Isabella Ferrari, Franco Graziosi, Sonia Gessner, Luca Marinelli, Dario Cantarelli, Ivan Franek, Anita Kravos, Luciano Virgilio, Giulio Brogi, Vernon Dobtcheff, Serena Grandi, Lillo Petrolo, Giorgia Ferrero

 

Drammatico, durata 150 min. – Italia, Francia 2013

 

 

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Milano noir

La notte, le finestre dei palazzi di Milano nascondono stanze e vite private.

A volte, come in questa notte, nascondono uffici, e un uomo: è l’ispettore Monaco (Silvio Orlando), stanco del suo lavoro da quando tre anni fa è morta la moglie.

Sulla sua scrivania arrivano documenti, fotografie di omicidi, i residui freddi dei delitti: perché le regole che l’ispettore Monaco si è dato per resistere, non prevedono più il contatto con le persone, e con gli odori della violenza. Solo carte da controllare.

E stanotte, in queste stanze della Questura, oltre al caso dell’omicidio del signor Ullrich, entra anche Linda (Alice Raffaelli) ‐ la figlia dell’ispettore ‐ fermata perché trovata con una pistola. La solidità apparente di Monaco protetto dalla burocrazia, è messa a repentaglio dal suo ruolo di padre. Si rende conto dell’abbandono in cui ha lasciato la sua vita privata, e anche ‐ drammaticamente ‐ di non essere più il poliziotto di una volta, il maestro di tanti altri poliziotti, neppure di Levi (Giuseppe Battiston), suo allievo e amico.

Ma il caso Ullrich, sul quale si sollevano pressioni politiche per la notorietà della vittima, costringe Monaco a partecipare alle indagini, di nuovo insieme a Levi.

E lo porta a scoprire un mondo metropolitano di decadenza e promiscuità, popolato anche da ragazzine come Linda, di cui si ritrova a seguire le tracce di una vita sotterranea, e sulle orme di vite apparentemente comode e distanti, come quella della Signora Ullrich (Sandra Ceccarelli).

L’alba getta luce su una nuova e crudele realtà, che Monaco deve scegliere come affrontare, da poliziotto o da padre. È cercando se stesso, che ritroverà anche Linda, e una verità che non è come sembrava.

 

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06 Cinema LA VARIABILE UMANA la-variabile-umana_cover

La variabile umana

 

Regia: Bruno Oliviero

 

Attori: Silvio Orlando, Giuseppe Battiston, Alice Raffaelli, Sandra Ceccarelli, Renato Sarti, Arianna Scommegna, Giorgia Senesi, Dafne Masin, Mao Wen, Davide Tinelli, Caterina Lucani, Luca Cerri, Silvano Piccardi, Paolo Grossi, Gabriele Dino Albanese, Francesco Palamini, Roberta Paparella.

 

Soggetto Bruno Oliviero E Valentina Cicogna

Sceneggiatura Valentina Cicogna, Doriana Leondeff, Bruno Oliviero

 

Una Produzione Lumière & Co. E Invisibile Film con Rai Cinema

Film riconosciuto di Interesse Culturale con il contributo economico del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Direzione Generale per il Cinema Italia

 

Distribuzione: Bim Distribuzione

Nazionalità: Italiana

Anno: 2013

Durata: 83’

 

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La sofferenza della vita

Henry Barthes, supplente di letteratura al liceo, è un uomo solitario che porta dentro di sé un’antica ferita e cerca di tenere gli altri a distanza. Henry entra ed esce dalla vita degli studenti, cercando di lasciare qualche insegnamento come può, nel poco tempo che ha con loro.

Quando un nuovo incarico lo porta in una degradata scuola pubblica di periferia, il mondo di Henry viene lentamente alla luce attraverso i suoi incontri con gli studenti – giovani senza speranze per il futuro – e gli altri insegnanti disillusi.

Ciò che sconvolge di più la sua vita è, tuttavia, l’incontro con Erica, una prostituta adolescente scappata di casa. Ma anche Meredith – allieva sveglia e molto sensibile, schiacciata dal conflitto con il padre – e gli altri studenti, entrano in modo travolgente nella vita di Henry, rompendo gli argini e azzerando quella distanza tra lui e il mondo.

 

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06 Cinema IL DISTACCO images 48876Il Distacco

Regia: Tony Kaye

Attori: Adrien Brody, Sami Gayle, Christina Hendricks, James Caan, Lucy Liu, Tim Blake Nelson, Blythe Danner, Marcia Gay Harden, Betty Kaye, William Petersen

Sceneggiatura: Carl Lund

 

Distribuzione Italia: Officine UBU

http://www.officineUBU.com

 

Durata: 100’

 

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Esistenzialismo Cinematografaro

La nostalgia del tempo che fu non nego spesso si affacci e si rimiri da questa finestra ma, senza esagerare in patetici rimpianti, mi pare legittimo qui riesaminare e riconsiderare valori e qualità (se ce ne sono) di tendenze e autori che furono gli autentici padri coscritti, monumenti incontestabili, della nostra patria cinematografara. Tutto questo per parlarvi di un film del 1966 di Florestano Vancini: Le stagioni del nostro amore, protagonista Enrico Maria Salerno, dove con più o meno sincera vena poetica (ma sì! usiamo la scandalosa parola:poesia!) si rappresenta in maniera impietosa ed efficace la crisi esistenziale di un intellettuale di sinistra (c’era pochissimo spazio allora per ipotetiche crisi di intellettuali di destra…). Il film forse non è un capolavoro ma, secondo me (e nonostante il citatissimo Mereghetti che impietosamente parla di “ambizioni intellettualistiche che hanno fatto il loro tempo”) trovo che il film di Vancini esprime con sincerità delicatezza e intensità (insomma poeticamente) il dolore e la pena di un uomo che attraversa la stagione amara in cui pentimenti e fallimenti si affastellano e schiacciano residue speranze e slanci. Ottimi i dialoghi e gli attori compresi di questo clima autunnale (oltre Salerno, Valeria Valeri, Gian Maria Volonté, Gastone Moschin); eccellente lo “spaccato” provinciale di una Mantova nebbiosa e saporosa dove il nostro tenta di recuperare sangue e umori del tempo migliore. Detto questo del film di Vancini, mi viene lo spunto irresistibile di riflettere su una curiosa tendenza di quegli anni: non certo solo Vancini, ma moltissimi altri autori, e non solo di cinema, vissero allora la stagione “dell’incomunicabilità”. Ve ne ricordate? Definizione abusata e citatissima, quasi proverbiale introdotta ovunque, dai migliori salotti alle più sconce barzellette! Il clima era più o meno quello del film citato: strazianti pause, parole penosamente estratte da lunghi silenzi, nebbie, penombre, solitudini, tetraggini e desolazioni a specchio della enigmatica pena dei protagonisti. Tutto un clima, secondo me, sinceramente vissuto ma sostanzialmente indotto da una letteratura e una poetica nordica (Bergman, Dreyer) da noi ammirata e amata sopratutto dal ceto intellettuale che molto influenzò i nostri autori: in testa a tutti Antonioni, padre incontestato della sofferta incomunicabilità, ma che forse per temperatura (fredda), motivazioni e necessità ataviche non ci apparteneva. Come giustificarla del resto con lo slancio contemporaneo di quegli anni di frenetico fervore, ottimismo a tutti i costi, follie e cialtronerie di quel “miracolo economico” che ribolliva ovunque? Questo sì, più nostro e italico delle malinconiche brume nordiche. E i lunghi e strazianti silenzi di quelle rarefatte atmosfere, come giustificarli per una gente come la nostra per tradizione ciarliera ed esibizionista pur nelle situazioni più tragiche?

Non che da noi si vivesse solo di clamorosa superficialità, tutt’altro! Ma le crisi esistenziali avevano ed hanno per noi il sangue e l’umore della risata amara mischiata a lacrime umanissime e spudorate, conseguenza di una civiltà mediterranea antichissima e beffarda abituata a convivere tra farsa e tragedia nella misura alterna della nostra commedia umana. Non che i film compassati e lenti degli autori “incomunicabili” non abbiano prodotto arte e sostanza autentica!

Ci restano esempi memorabili di sincera e commossa poesia: fu una stagione colta e raffinata dei nostri migliori autori, e forse l’inaugurazione avvenne proprio con un film di Antonioni: Il grido del 1957 che chiudeva definitivamente il glorioso capitolo dell’italico neorealismo.

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Nanni Moretti: I primi sessantanni

Rivedere dopo tanti anni Io sono un autarchico (1976) mi ha fatto impressione, era come rivedere una Roma ormai lontana e storicizzata. Eppure Alberto Moravia notò che al Filmstudio, dove il film veniva proiettato, non c’era differenza tra il pubblico e quanto si vedeva nella pellicola. L’identificazione era dunque immediata e questa fu la fortuna del film e del suo giovane regista, che dal superotto sarebbe passato al 35 mm (in realtà un 16 mm gonfiato) con Ecce Bombo (1978), il film con cui ha consolidato la sua carriera. Pochi ricordano Sogni d’oro (1981) ma sicuramente hanno visto Bianca (1984) e i film successivi, cinematograficamente più maturi, che non analizzo in questa sede, ma in cui è facile notare una progressiva estensione a tutta la società italiana dell’analisi partita dal privato, sulla base di un pensiero etico che pochi registi italiani hanno sviluppato in modo così rigoroso. Faccio piuttosto notare che la critica cinematografica, e non solo quella ideologicamente schierata, fu con lui fin dall’inizio molto clemente, mostrando un entusiasmo unico nel suo genere e sorvolando sulle inevitabili smagliature di un’opera prima. Meno fortuna e clemenza ebbero infatti negli anni ’80 le opere dei suoi seguaci, all’epoca indicati collettivamente come morettismo, sorta di commedia all’italiana a passo ridotto sulle inconcludenti giornate e i tic nervosi dei giovani della sinistra studentesca.(1). A far carriera sono stati pochi, e qui mi piace ricordare Daniele Luchetti, Roberto Di Vito e Claudio Fragasso. I primi due sono stati anche aiuto registi, di Moretti, mentre Fragasso , dopo un fortunato inizio realistico (Passaggi, 1979) seguirà strade diverse (Difendimi dalla notte, 1981), sviluppando un reale talento per l’horror (2). Ma anche Luchetti e Di Vito si sono affermati in quanto autonomi e diversi dal maestro; il primo con Domani accadrà (1988) (3), l’altro con creazioni sospese tra realismo e immagine onirica (4). In realtà Roma non era solo la capitale del cinema industriale, ma anche di quello amatoriale, svincolato ormai dalla FEDIC (la gloriosa Federazione dei cineclub) e dal Festival di Montecatini che li valorizzava. I cineclub romani sono tutti figli del ’68 (Filmstudio, Politecnico, Occhio Orecchio Bocca, Cineclub Tevere poi Labirinto) i quali, oltre a proporre il cinema che non si vedeva in sala, incoraggiavano tutti noi a prendere in mano una cinepresa e a mettersi in gioco. Ricordo benissimo, p.es., la stagione dell’Underground,  che, pur entro i limiti di una cultura di importazione, resta un episodio degno di essere ricordato. Era l’epoca d’oro del cortometraggio e ne avrò visti centinaia, italiani e stranieri. Negli anni ’80 assistiamo invece a un fenomeno strano: il cinema italiano ha proposto in sala almeno 450 esordienti in dieci anni. Tenendo conto che nello stesso periodo la televisione privata stava divorando il cinema italiano per poi digerirlo, tuttora è poco chiaro come facessero tanti autori finanche privi di scuola di cinema a sfornare opere prime, totalmente scollate dalle strutture produttive e distributive, festival esclusi. C’era ancora l’articolo 28 (una legge del Ministero dello Spettacolo che finanziava il cinema d’autore), ma la distribuzione era già al collasso e di troppi autori non si è saputo più nulla. Di quel periodo ricordo bene solo un film: I ragazzi di Torino sognano Tokyo ma vanno a Berlino (1985), per la regia di Vincenzo Badolisani, che oggi lavora in tv senza troppa gloria. Di tanti altri non riesco a ricordarmi che poche scene o alcune frasi di dialogo, mai incisive e caratterizzate come quelle di Nanni Moretti, ormai divenute proverbiali. Solo lui infatti è riuscito a diventare paradigma, cioè modello di riferimento, magari odiato dalla cultura di destra, che non vedeva i suoi film ma si gratificava nel contemplare dall’esterno il declino dell’intellighencija. Altri lo ignoravano come lo ignorano tuttora: semplicemente non lo capiscono. E a rivedere Io sono un autarchico, si notano gli stessi pregi e limiti dei film successivi: idee originali sviluppate con ritmo ponderato, la tendenza dell’autore a rubare la scena, il minimalismo e soprattutto il primato della parola sull’immagine. Nel complesso, nessuno ricorda i film di Nanni per i movimenti di macchina o per la fotografia: il suo è un cinema fortemente concettuale, incapace forse di partire da un’immagine, ma capace però di anticipare i tempi invece di registrare quanto esiste. Habemus Papam (2011) è un film emblematico: la sua tesi era considerata con scetticismo dall’Osservatore romano, fino a quando due anni dopo la realtà ha superato la fantasia. Nanni Moretti è lentamente cresciuto come regista quando è passato dalla descrizione del quotidiano all’analisi profonda della società italiana. E non sono molti tutto sommato i registi che hanno l’Etica come fondamento della loro cinematografia.

  Nanni Moretti index

 

 

 

 

 

 

 

 

Note.

 

 

 

 

 

 

 

  • (4) Roberto Di Vito è il vero cineasta indipendente, impossibile collegarlo a scuole o maestri o capire a cosa sta pensando. Quando girava in superotto, non di rado gli prestavo io le attrezzature necessarie e sono contento che abbia fatto carriera. Tra me e lui è rimasto un grande rapporto di amicizia. Assistente alle riprese per due film di Nanni Moretti (Bianca e La messa è finita). Segretario di edizione del film La setta di Michele Soavi. Regista, operatore e montatore video di backstage di importanti spot pubblicitari, tra i quali tre per la Banca di Roma diretti da Federico Fellini. Lavora sui set di Phenomena, Opera e Due occhi diabolici di Dario Argento. Esordisce ufficialmente alla fine degli anni Ottanta con un cortometraggio thriller La notte del giudizio, anche se in realtà ha cominciato a quindici anni girando una quarantina di cortometraggi in super8, alcuni dei quali devono molto all’estetica autarchica del primo Nanni Moretti. Ma è con Sole (1994), vincitore del premio del pubblico al Festival di Capalbio 1995, che si delinea una cifra autoriale più precisa: «Questa volta si tratta di un thriller esistenziale, psicologico, in cui la paura si alimenta di se stessa» spiega Di Vito. «La protagonista si lascia prendere dall’angoscia in una situazione di assoluta normalità. La casa, da rifugio ovattato, da “casa dolce casa”, si trasforma a poco a poco in un luogo ostile, pieno di rumori e presenze inquietanti. Sono stati d’animo che riguardano ognuno di noi, anche in età adulta. Quante volte, di notte, ci svegliamo improvvisamente con la sensazione che qualcuno sia entrato nella nostra camera da letto?». Ma se qualcuno ha voluto etichettare l’allora trentatreenne come uno dei nuovi cineasti horror, si è sbagliato di grosso. A Di Vito interessano gli spazi, i luoghi, gli stessi corpi attoriali che tendono all’astrazione. «Astrazione non vuol dire però sperimentazione estraniante, concettuale e noiosa. Io punto all’opposto, vorrei commuovere, emozionare e far sognare non partendo solo dalla storia o da quello che si dice ma anche da quello che non si dice. Da questo punto di vista, l’ambizione espressiva è alta: arrivare al cinema “commerciabile” ma puro, senza un grande intreccio narrativo». Il cortometraggio successivo, forse il capolavoro del regista, Ai confini della città, è un amaro apologo di una civiltà e di più generazioni allo sbando, all’interno di una Roma inedita, completamente svuotata, pronta alla desertificazione, molto vicina ai paesaggi apocalittici di Ciprì e Maresco.Vincitore di svariati premi, tra i quali il Globo d’Oro nel 1998, segna anche il passaggio verso un approfondimento di tematiche sempre più personali: l’attenzione verso gli ultimi, condito da un realismo magico ambientato in luoghi mai banali, dal corto comico, interpretato da Stefano Masciarelli, Il parco (2000), all’astratto Righe (2001) e all’intenso L’angelo (2004). Per arrivare poi all’agognato esordio al lungometraggio Bianco, rielaborazione dell’omonimo cortometraggio del 2001, summa del cinema corto del regista con echi tra Polanski e Antonioni. Dopo aver partecipato al Fantafestival e Bari International Film Festival 2011, arriva finalmente in dvd, distribuito da CG Home Video. «Non è facile imbattersi nel panorama asfittico delle opere prime, molte delle quali terribilmente omologate, in un film come quello di Roberto Di Vito, così attento ai valori plastici e figurativi della composizione, della messa in quadro geometrica e rigorosa di ossessioni visive ed esistenziali, tali da renderlo, al di là del pretesto narrativo, particolarmente adatto ad esplorare i territori del fantastico, da decenni assai poco proficuamente praticati nel cinema italiano». 

(Anton Giulio Mancino).