Le Nuvole liberate nel libro di Luigi M. Bruno sono dei frammenti di vita osservata e vissuta in un viaggio introspettivo e come ogni viaggio introspettivo veleggia tra la realtà del quotidiano e l’immaginario indefinito dove l’Io e l’alter ego si mescolano e si sovrappongono.
In questo rimpallo di ruoli si inseriscono le opere di una ventina di artisti che hanno trovato ispirazione nella scrittura di Luigi.
Opere essenzialmente narrative, ma non mancano quelle di ispirazione minimalista ed astratta, per indagare nelle varie figurazioni scaturite dalle suggestioni che i racconti sono stati capaci di far emergere dalla consequenzialità delle parole.
Viaggi per rincorrere amori sognati o rifugiarsi nei peccati di gola, per sfuggire alla realtà o a una vita che sprofonda nella routine dell’incomunicabilità: sono alcune delle trame dalle quali si dipanano le immagini.
Lavori di varie tecniche e stili che rappresentano l’individualità creativa nelle varie manualità pittoriche per elaborare composizioni fotografiche e collage, incisioni, stampe a secco e riverberi grafici, trasformando la mostra in una vetrina di come si può tradurre in immagini le parole e ancor di più un piccolo campione statistico di quali racconti di Bruno hanno riscosso maggior interesse.
Immagini di Parole
Dal 5 al 25 maggio 2019
Un viaggio nei Racconti di Luigi M. Bruno
intrapreso da 21 artisti:
Claudia Bellocchi, Elisabetta Bertulli, Paolo Bielli, Michiel Blumenthal, Manuel Cecchinato Posadas, Gilles Cuomo, Eleonora Del Brocco, Venera Finocchiaro, Giorgio Fiume, Cristina Giammaria, Silvana Leonardi, Adrian Levy, Maurizio Morandi, Mattia Morelli, Marco Mucha, Claudia Nizza, Laura Rago, Graziella Reggio, Maria Teresa Romitelli, Giulia Sargenti, Stefano Sartini
Storie Contemporanee
Studio Ricerca Documentazione
via Alessandro Poerio 16/b
Roma
Orario:
martedì – giovedì – dalle 11.00 alle 13.00
mercoledì – venerdì – dalle 17.00 alle 19.00
Si inaugurerà Domenica 5 maggio 11,00 – 14,00
si chiuderà sabato 25 maggio, pomeriggio
a cura di Gianleonardo Latini
con un testo di Anna Cochetti
“La donna capovolta” di Titti Marrone racconta la storia di una donna, Eleonora, anzi due perché c’è anche Alina, due storie, quella di Eleonora e quella di Alina che si intrecciano nel microcosmo quotidiano, ed ecco svilupparsi un caleidoscopio di emozioni.
Il libro inizia con la voce di Eleonora che parla intimamente di quello che le accade, si confida ci confida, allo stesso modo con la voce di Alina. Racconti personali e versioni soggettive di come vengono coinvolte da ‘Loro’, gli altri personaggi che le circondano nel momento in cui entrambi i cammini si incontrano.
Eleonora filosofa e docente di studi di genere si accorge che la madre ha i primi sintomi di Alzheimer, comprende che la vedrà lentamente svanire. Il dolore e le difficoltà quotidiane rendono ancora più evidente l’assenza del marito la cui relazione è ridotta a comunicazioni di servizio; di fatto si rende conto che non può contare su nessuna delle persone care come ad esempio la figlia Laura ventenne che studia all’estero ed è troppo presa dalla sua giovane vita per fermarsi ad osservare ciò che succede realmente a casa. La stessa Laura contribuisce a dare uno scossone alla madre deludendola nelle aspettative in quanto interrompe la sua carriera di scienziata.
Eleonora non si ritrova, non ritrova la solidità degli affetti e quella dell’ambiente intellettuale che ha scelto, un ambiente sempre più autoreferenziale che sembra di vuota apparenza. Eleonora perde il senso di sé e della sua femminilità: è rovesciata!
In questo momento incontra Alina che assume come badante della madre. Alina è moldava, colta e laureata con passato roseo nel suo paese che è stato poi rovesciato per cause politiche e con un presente in Italia nel quale arranca faticosamente facendo umili lavori per sostenere economicamente la famiglia lontana, coltivando la speranza di un futuro migliore.
Alina è dritta, ha capito cosa ci si aspetta da lei è un panzer: recita alla perfezione l’archetipo della badante in quanto viatico per il presente e premessa per il suo futuro. Per sopravvivere nasconde il suo vero volto che dunque è rovesciato, rivolto dentro di sé: non può essere se stessa nel mondo di fuori non può lasciarsi andare. Ha dovuto capire presto che “mostrandosi nelle vesti di entità pensante e acculturata” e invadendo i territori del sapere “non richiesti e quindi non permessi”, il maschio occidentale l’avrebbe interpretata come eccentrica e quindi disponibile “all’approccio carnale”. Anche la difficile vita di Alina viene messa in crisi: sembrano rovesciarsi le premesse per il futuro in cui aveva riposto le speranze e che le permettevano di sopportare le umiliazioni del presente.
Le protagoniste Eleonora ed Alina profondamente diverse si incontrano e si scontrano tra pregiudizi e difficoltà: entrambe nella stessa fase di vita, un rovesciamento, proprio nel momento in cui nessuna di loro può contare sugli affetti. Tutto sembra sgretolarsi, vane le lotte e pie illusioni le speranze; a ciascuna di loro non rimane altro che aggrapparsi a se stessa e rimettersi in gioco con autocritica e con il coraggio di ripartire, un coraggio tutto al femminile.
Eleonora ed Alina due donne, ma forse solo una che con Eleonora esprime lo spaesamento sociale e con Alina la solitudine interiore.
La donna capovolta di Titti Marrone riguarda tutte le donne perché in fondo tutte noi siamo capovolte.
Noi tutte abbiamo difficoltà a vivere secondo la direzione che vorremmo, non solo perché a volte gli eventi della vita ci rovesciano, ma anche perché molto spesso i codici stabiliti da questa società ci impediscono di raddrizzare il tiro.
Titti Marrone, ha dedicato il romanzo alle sue amiche, e scommetto che chi lo leggerà, entrandoci dentro tutta, sentirà che in fondo è stato dedicato anche a lei.
Hans si presenta: sono un clown. Il protagonista del romanzo proviene da una famiglia della borghesia in vista della cittadina di Bonn: gli Schnier. Gli Schnier sono “quasi nobili”, sono la famiglia del carbone della cui ricchezza però, i figli non hanno ricevuto niente, neppure da mangiare: risparmio ossessivo su qualsiasi cosa che non avesse una portata sociale; alla fine Hans mangiava meglio nel vitto del collegio!
Hans rifiuta il percorso di carriera che gli viene offerto dalla famiglia e decide di vivere facendo il clown. In fondo quando la distanza tra i principi morali e l’etica supera l’umana contraddizione, la realtà si trasforma in una farsa grottesca e un clown nella sua pantomima riesce a partecipare al gioco folle della vita. Hans vive girovago mettendo in scena “Predica cattolica e predica evangelica”, “Seduta di consiglio d’amministrazione”, “Traffico”.
Hans nasce e cresce non comprendendo le dinamiche del mondo contemporaneo. L’ipocrisia ferisce, e ferisce ancor di più quando per giustificare un comportamento, ci si costruisce sopra una morale a cui comunque può succederne un’altra se la prima non è più alla moda, così, senza alcuna responsabilità come “come se niente fosse”. Feriscono affermazioni prive di una qualunque umanità. In epoca nazista la sorella Henriette sedicenne viene mandata dalla madre, per il credo nazista, come volontaria nella Flak, incontro a morte certa; dopo la guerra la madre rinnega posizioni precedenti divenendo peraltro presidente di una società per la conciliazione dei contrasti razziali e la figlia non viene più nominata; alla morte di Georg, ragazzino saltato in aria nell’esercitazione con il “Panzerfaust” sente dire: “per fortuna che era orfano”.
Le ferite proseguono e tutto viene letto allo stesso modo: meglio essere un clown dalla vita anarchica libera dai cliché sociali o dagli obblighi formali imposti da una religione. Hans soffre, ora soffre soprattutto per la fine della relazione con Maria. Maria se ne è andata: dopo anni di convivenza e di amore non riusciva ancora ad accettare una vita non consacrata nel matrimonio.
Opinioni di un Clown o confessioni di un uomo che non si trova nel mondo che gli è toccato vivere. Non descriverò come conclude questo capolavoro: che i curiosi vadano fino in fondo e lo leggano per intero; per i pigri, genialmente l’autore Heinrich Böll, svela tutto nell’incipit: «Coloro ai quali non è stato annunciato nulla di Lui, lo vedranno; e coloro che non ne hanno udito parlare, lo intenderanno. “Romani”, 15, 21». Buona lettura!
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Opinioni di un clown
Heinrich Böll
Traduttore: A. Pandolfi
Editore: Mondadori, 2016, pp. XVI-232
«C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo» di E. Medina Reyes non è un romanzo ma un long play alla stregua di quelli registrati dai Sex Pistol o dai Nirvana in cui le note sono sostituite da parole gridate, dissacranti, lanciate con il ritmo frenetico e cadenzato, non da una penna ma dalla mitragliatrice nelle mani di un anarchico. Seppur nella finzione letteraria l’autore riesce a far traboccare di vita i suoi personaggi: essi non sono costruiti come nella “letteratura letteraria ( … ) rigidi e deambulano per la trama come vasetti di conserva sul nastro strasportatore di una fabbrica” cioè se “sono buoni e cattivi allo stesso tempo – hanno un modo inequivocabile di esserlo”. Nel protagonista ci sono tutte le contraddizioni che potrebbe avere un essere umano se si permettesse di ammetterle, e se ovviamente riuscisse ad esprimerle alla maniera di Kurt o di Vicius. Il protagonista si presenta subito: “Mi chiamo Rep, diminutivo di Reptil (…) Sono alto un metro e ottantatrè peso ottantuno chili (…), ho gli occhi neri e infossati che paiono due canne di fucile pronte a sparare, la bocca sensuale e una verga di 25 centimetri nei giorni più caldi”.
Rep si muove tra Bogotà e la Città Immobile; Rep ha un occhio sempre rivolto a New York, città alla quale sente di appartenere e alle star che ama. In “C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo” E. Medina Reyes in meno di 200 pagine parla del rimpianto amore di Rep per “una certa ragazza” e della sua vita inquieta e stretta nel suo paese e del suo di sentire che il lettore potrebbe banalizzare o stigmatizzare. E perché, no? In fondo, come esprime l’autore, i media per comunicare la morte di Kurt al pubblico ha fornito stupide interviste dalle quali trarre solo il rotocalco drammatico delle possibili cause delle fine prematura dell’artista. Personaggi di un romanzo o uomini fatti star che vengono trasformati in personaggi. Indagare più a fondo vuol dire superare il limite di quella superficie che per il mondo non avrebbe senso: in fondo “nessun mondo sarà sommerso da lacrime che non abbiamo mai visto scendere per un dolore che mai nessuno ha condiviso”.
Sentimenti concreti e reali espressi in una maniera semplice portano il lettore che naviga nella trama grunge ad assaporare momenti unici di profondità e poesia. La chitarra invisibile di Kurt, il percepire dell’artista in “bilico su un sottile steccato” che lo isola nel suo percepire e vivere il quotidiano. Ma l’autore incita: “Come as you are” vieni come sei, mettiti a nudo, fottitene del resto e lì comprenderai l’esistenza: “il peggior delitto è fingere”.
“Per vedere le mie cicatrici e ascoltare il mio cuore bisogna pagare il biglietto (…)” da qui lo splendido romanzo: acquistatelo, ma per favore leggetelo anche con il vostro occhio invisibile.
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C’era una volta l’amore ma ho dovuto ammazzarlo
(Musica dei Sex Pistols e dei Nirvana)
di Efraim Medina Reyes
Traduttore: G. Maneri
Editore: Feltrinelli, 2008, pp. 173
Il solo modo di trattare con un mondo privo di libertà è diventare così assolutamente liberi che la sola propria esistenza diventa un atto di ribellione.
(Albert Camus)
Il libro di Erving Goffman “Asylum – le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza”, nonostante sia stato pubblicato la prima volta nel 1961, è stato ristampato in quanto mantiene la sua attualità nella struttura dell’analisi delle istituzioni sociali in generale.
Goffman si riferisce a quella struttura sociale che si compone anche di luoghi di residenza, dove gruppi di persone vengono inglobati e si ritrovano ad essere tagliati fuori dalla società per un periodo di tempo; le prigioni, le caserme e in una misura diversa, ma significativa, anche le istituzioni più morbide come un collegio o una scuola possono rappresentare un’istituzione totale.
C’è un rapporto tra Società e Istituzioni Totali? C’è una verità? C’è un’unica verità? Nessuna disquisizione filosofico–religiosa sul valore della verità, ma una riflessione sul libro di Goffman e sulla realtà di una società che potrebbe inglobarci.
«Un’istituzione totale può essere definita come il luogo di residenza e di lavoro di gruppi di persone che – tagliate fuori dalla società per un considerevole periodo di tempo – si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato. Prenderemo come esempio esplicativo le prigioni nella misura in cui il loro carattere più tipico è riscontrabile anche in istituzioni i cui membri non hanno violato alcuna legge. Questo libro tratta il problema delle istituzioni sociali in generale, e degli ospedali psichiatrici in particolare, con lo scopo precipuo di mettere a fuoco il mondo dell’internato». Cosi scrive Goffman in apertura di Asylums. Egli realizza una descrizione impressionante di «ciò che realmente succede» in un’istituzione totale, al di là delle retoriche scientifiche, terapeutiche o morali con cui chi detiene il potere nell’istituzione giustifica la degradazioni degli esseri umani.
Goffman è consapevole che “lo staff di un’istituzione totale” detiene una posizione capace di produrre una «versione ufficiale della realtà» e dunque tra le varie versioni quest’ultima appare se non l’unica, la verità più forte e socialmente accettata. Da ricercatore obiettivo e buon sociologo, Goffman mette da parte tale punto di osservazione ed analizza cultura e struttura istituzionali che regolano l’interazione sociale perché “Ogni istituzione si impadronisce di parte del tempo e degli interessi di coloro che da essa dipendono, offrendo in cambio un particolare tipo di mondo: il che significa che tende a circuire i suoi componenti in una sorta di azione inglobante”. Tale azione avviene tramite il processo di spoliazione del sé di coloro che stanno “dentro” per renderli più plasmabili alla irreggimentazione della cultura istituzionale.
Solo nel riconoscere le asimmetrie di ruolo, di posizione sociale o di potere, che danno una certa impronta all’interazione sociale, può essere realizzata “l’analisi non sponsorizzata della situazione sociale di cui godono coloro che hanno autorità istituzionale – sacerdoti, psichiatri, insegnanti, poliziotti, generali, capi di governo, genitori, maschi, bianchi, cittadini, operatori dei media e tutte le altre persone con una posizione che permette loro di dare un imprimatur ufficiale a versioni della realtà”.
Goffman affronta l’istituzione totale dal punto di vista di coloro che la subiscono, mostrando la capacità degli internati o dei pazienti (e in generale dei «clienti» delle organizzazioni che pretendono di disciplinare la loro vita) di «resistere» alle mortificazioni e alle pratiche di spoliazione alle quali vi sono abituali.
Il libro raccoglie 4 saggi, quello “Sulle caratteristiche delle istituzioni totali” è il più interessante in quanto l’autore non intendendo eliminare le differenze tra le varie istituzioni esaminate, porta comunque alla luce i tratti comuni delle pratiche utilizzate. Goffman compila un’ampia lista di Istituzioni Totali: istituti per ciechi, anziani, orfani o indigenti, ospedali psichiatrici, prigioni, penitenziari, furerie militari, navi, collegi, organizzazioni definite come «staccate dal mondo» che però hanno anche la funzione di servire come luoghi di preparazione per religiosi (abbazie, monasteri, conventi etc). Forse oggi questa lista potrebbe essere cambiata; è importante comunque riflettere su alcune caratteristiche per essere consapevoli se in qualche modo anche noi ne siamo dentro. Il grande contributo di Goffman infatti è stato portare alla luce logiche di gestione dell’ordine e pratiche di assoggettamento che vanno al di là del contesto manicomiale, mettendo dunque in evidenza il grande problema dell’istituzionalizzazione nella società moderna.
Il fatto cruciale delle istituzioni totali è dunque il dover «manipolare» molti bisogni umani per mezzo dell’organizzazione burocratica di intere masse di persone – sia che si tratti di un fatto necessario o di mezzi efficaci cui l’organizzazione sociale ricorre in particolari circostanze.
L’ingresso in un’istituzione totale segna per l’individuo l’inizio della sua “carriera morale”, ossia del “[…] progressivo mutare del tipo di credenze che l’individuo ha su di sé e su coloro che gli sono vicini”. Questo percorso inizia con una “spoliazione di ruoli”, ovvero una serie di perdite che mortificano l’identità dell’individuo fino a cancellarla.
Si perde l’autonomia delle proprie azioni e il potere dell’autodeterminazione attraverso una “rottura della relazione abituale fra l’individuo che agisce e i suoi atti”; ciò avviene attraverso un processo descritto dall’autore come “irreggimentazione” o “tiranneggiamento” nel quale “anche i più piccoli segmenti dell’attività di una persona, possono essere soggetti alle regole e ai giudizi del gruppo dirigente. Ogni regola priva l’individuo dell’opportunità di equilibrare i suoi bisogni e i suoi obiettivi in un modo personalmente efficace, e lo fa entrare nel terreno della sanzione. È in questo senso che l’autonomia dell’azione viene violata”.
Lascio in nota ulteriori stralci presi dal libro nel caso il lettore abbia voglia di saperne di più, anche se consiglio una lettura completa in modo da comprendere profondamente quanto esposto da Goffman.
Letto il libro in un primo momento mi sono sentita come dentro il Castello di Kafka, poi ho cercato di respirare con calma e riflettere perché la società attuale mi fosse sembrata essa stessa un’istituzione totale.
Non è forse inglobante? Non agisce forse con un sistema di privilegi e punizioni che ci rendono sempre più manipolabili?
Ormai i media non ci permettono di conoscere i fatti sui quali sviluppare un’opinione personale ed in mano alle istituzioni totali contribuiscono a diffondere la paura, condizionando chiunque. La paura blocca le reazioni dell’individuo, non lo fa riflettere in autonomia, può farlo addirittura regredire in forme di chiusura verso “l’altro” che la “verità ufficiale” induce a far credere essere l’ostacolo o parte in causa del declino sociale (es: xenofobia).
Quanto spazio è rimasto alla riflessione e alla nostra libertà di scelta?
La riforma della scuola, le ultime sul lavoro, la disoccupazione, a volte sembrano contribuire a creare una rete che intrappola la crescita di generazioni presenti e future in un sistema di regole che impoveriscono la persona togliendone elementi di autonomia (come la cultura) e autodeterminazione personale, rendendola dunque ancora più ricattabile. Punizioni e privilegi!
José Luis Sampedro in un’intervista, oltre a denunciare l’economia capitalistica usata come unica giustificazione di punizioni e di privilegi, sostiene che la politica, l’economia e la religione sono sistemi ormai decadenti che non permettono la risalita.
“Nella prima infanzia ci insegnano a credere e poi a ragionare su quello che crediamo: è tutto a rovescio! In questo modo non si può avere libertà di pensiero ed espressione”.
Ma andando più sul sottile: quante pubblicità o altri strumenti sotterranei ci rendono vittime inconsapevoli di induzione psichica?
E’ uguale entrare in una libreria e scegliere un libro stando con sé stessi e impegnando del tempo ritenuto ormai inutile, o meglio ordinarlo su internet sulla base di scelta indotta da cookies perché “il grande fratello“ ha intercettato anche solo un nostro precedente acquisto on line?
Non sono anatemi alla Savonarola… non significa essere catastrofica, ma se sono riuscita a stimolare una riflessione, allora ho raggiunto il mio intento: tirarvi dentro a ciò che forse viviamo o subiamo.
Thomas Stearn Eliot disse: «In un mondo di fuggitivi, la persona che prende la direzione opposta sembrerà un disertore». Proviamo ad avere il coraggio a non adattarci, ad andare verso noi stessi: chi siamo veramente? Cosa vogliamo fare della nostra vita? Quanto spazio dedichiamo agli affetti o alla comunicazione profonda? Quante giustificazioni troviamo per non tentare neppure di modificare la situazione in cui ci troviamo, per non uscire dalla cosiddetta “zona di confort”! Qual è il nostro senso di giustizia e come agiamo per essere coerenti con esso, anche se questo può voler dire andare contro il sistema?
Togliere la maschera, guardarci onestamente allo specchio, quanto ci costa?
Forse sembreremo degli stupidi, forse saremo etichettati come dei pazzi o giudicheremo noi stessi “fuori dal mondo” rimproverandoci ad ogni caduta, ma almeno avremo provato a vivere a nostro modo nel rispetto dell’altro mantenendo la nostra individualità: questo è fare la differenza. La libertà è la più grande conquista umana, la libertà di essere, di esprimerci coerentemente con ciò che si è. Forse questa oggi è la vera follia da vivere.
Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza
Erving Goffman
Traduttore: F. Basaglia
Editore: Einaudi
Collana: Piccola biblioteca Einaudi. Big
Anno edizione: 2010
Pagine: 415 p., Brossura
EAN: 9788806206017
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Morte del sergente Hartman
da “Full Metal Jacket” – scena della morte del sergente Hartman e successivo suicidio del soldato “palla di lardo”
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Stralci dal libro di Goffman “Asylum – le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza”
Nelle istituzioni totali c’è una distinzione fondamentale fra un grande gruppo di persone controllate, chiamate opportunamente «internati», e un piccolo staff che controlla.
Il ricoverato è escluso, in particolare, dalla possibilità di conoscere le decisioni prese nei riguardi del suo destino. Che ciò accada nel campo militare (viene allora nascosta agli arruolati la destinazione del loro viaggio) o medico (si nasconde la diagnosi, il trattamento e la lunghezza della degenza prevista per i pazienti tubercolotici), questa esclusione pone lo staff ad un particolare punto di distanza dagli internati, conservando una possibilità di controllo su di loro.La frattura fra staff e internati è una delle più gravi implicazioni della manipolazione burocratica di grandi gruppi di persone.
Le istituzioni totali sono incompatibili anche con un altro elemento fondamentale nella nostra società, la famiglia.
La vita familiare è talvolta in contrasto con la vita del singolo; tuttavia i conflitti più reali si evidenziano nella vita di gruppo, dato che coloro che vivono, mangiano e dormono nel luogo di lavoro con un gruppo di compagni, difficilmente possono avere una vita familiare particolarmente significativa. Al contrario, invece, il fatto di avere la famiglia, separata dal luogo di lavoro, consente ai membri dello staff di mantenersi integrati nella comunità esterna e di sfuggire alla tendenza inglobante della istituzione totale.
Nella nostra società esse sono luoghi in cui si forzano alcune persone a diventare diverse: si tratta di un esperimento naturale su ciò che può essere fatto del sé
La recluta è sottoposta ad una serie di umiliazioni, degradazioni e profanazioni del sé che viene sistematicamente, anche se spesso non intenzionalmente, mortificato.
La prima riduzione del “sé” viene segnata dalla barriera che le istituzioni totali erigono fra l’internato e il mondo esterno. In molte istituzioni totali il privilegio di ricevere visite o di uscire dall’istituto per andare a trovare qualcuno, è all’inizio totalmente negato, il che produce nella nuova recluta una prima profonda frattura con i propri ruoli passati, con conseguente percezione di spoliazione dei ruoli. Quantunque alcuni ruoli possano essere ricostruiti dall’internato se e quando egli faccia ritorno al mondo, è chiaro che altre perdite risultano irreversibili e come tali possono venire dolorosamente esperite. Può non essere possibile rifarsi – ad una fase più tarda della vita – del tempo che non si è potuto spendere nel coltivarsi, nel far carriera, nel far la corte a qualcuno, nell’educare i propri figli. Un aspetto legale di questa spoliazione permanente è evidente nel concetto di «morte civile»( …). L’internato si trova dunque a perdere alcuni ruoli a causa della barriera che lo separa dal mondo esterno.
Una volta che l’internato sia spogliato di ciò che possiede, l’istituzione deve provvederne un rimpiazzamento, che tuttavia consiste in oggetti standardizzati, uniformi nel carattere ed uniformemente distribuiti.
Al momento dell’ammissione, la perdita di ciò che è la propria identità, può impedire all’individuo di presentare agli altri la sua usuale immagine di “sé”. Dopo l’ammissione l’immagine di sé che egli propone viene “attaccata” in altro modo.Qualunque sia la forma o l’origine di questi diversi tipi di umiliazione, l’individuo deve sempre impegnarsi in attività le cui implicazioni simboliche sono incompatibili con il concetto che egli ha di se stesso.
Nella società civile, quando l’individuo diventa adulto, ha già incorporato modelli di riferimento socialmente accettabili per la maggior parte delle sue attività: il risultato della correttezza delle sue azioni si evidenzia soltanto a certe scadenze, come, ad esempio, quando viene giudicata la sua produttività.
L’internato non può sfuggire facilmente alla pressione del giudizio ufficiale e all’azione inglobante della situazione. Un’istituzione totale è come una scuola di alta classe, che abbia molti perfezionamenti ma che in realtà risulti poco rifinita. Vorrei ora commentare due aspetti di questa tendenza all’allargamento del dominio attivamente imposto.
Primo, le imposizioni sono spesso strettamente legate all’obbligo di portare a termine un’attività, regolata all’unisono con gruppi di compagni internati. Ciò è talvolta definito come irreggimentazione.Le istituzioni totali spezzano o violentano proprio quei fatti che, nella società civile, hanno il compito di testimoniare a colui che agisce e a coloro di fronte ai quali si svolge l’azione, che egli ha un potere sul suo mondo – che si tratta cioè di persona che gode di autodeterminazione, autonomia e libertà d’azione «adulte».
Inoltre, la tensione psicologica spesso provocata dalle aggressioni al “sé”, può anche essere determinata da qualcosa che non viene percepito come strettamente legato ai territori del “sé” – ad esempio perdita del sonno, cibo insufficiente, o impossibilità di prendere decisioni.
Nelle «regole di casa», viene stabilito un sistema di prescrizioni e proibizioni, relativamente esplicite e formali, che definiscono lo schema dei bisogni dell’internato. Secondo, in questa rigidità d’ambiente viene offerto un esiguo numero di compensi o di privilegi, esplicitamente definiti come tali, in cambio dell’obbedienza – materiale e psicologica -allo staff.
La costruzione di un mondo attorno a questi privilegi forse non è uno degli elementi più importanti della cultura dell’internato, e tuttavia è qualcosa che non può essere facilmente capita da chi vive nel mondo esterno, anche se si tratta di persone che hanno avuto, in precedenza, esperienze analoghe.
Il terzo elemento nel sistema dei privilegi è costituito dalle punizioni, che sono designate come la conseguenza di un’infrazione alle regole.Punizioni e privilegi sono essi stessi modalità organizzative, tipiche delle istituzioni totali.
Bisogna inoltre notare che nelle istituzioni totali i privilegi non corrispondono a ciò che si considera come privilegio nel mondo esterno (profitti, favori o valori) ma semplicemente all’assenza di privazioni cui nessuno presume, abitualmente, di dover sottostare. Terzo, punizioni e privilegi vengono inglobati in una sorta di sistema di lavoro di tipo residenziale.
Il sistema dei privilegi e i processi di mortificazione fin qui trattati, rappresentano le condizioni cui l’internato deve adattarsi, per fronteggiare le quali escogita mezzi individuali, oltre alle azioni eversive di carattere collettivo. Lo stesso internato userà forme diverse di adattamento, nelle diverse fasi della sua carriera morale, quando addirittura non ne alternerà i modi contemporaneamente.
Gli internati devono essere spinti ad autodeterminarsi in un modo manipolabile, e, perché ciò possa essere ottenuto, si deve definire sia la condotta desiderata che quella indesiderata, come derivanti dalla volontà e dal carattere personale dell’internato stesso; qualcosa dunque su cui egli stesso può agire.
Dati il tipo di internati che hanno in carico, e il trattamento cui devono sottoporli, lo staff tende a sviluppare ciò che potrebbe essere definito come una teoria della natura umana. Implicitamente presente nella finalità istituzionale, questa teoria razionalizza le attività, provvede un mezzo sottile per mantenere la distanza sociale dagli internati, e un giudizio stereotipato su di loro, giustificando il trattamento cui sono sottoposti.
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Un’organizzazione strumentale formale si sostiene in base alla sua capacità di strumentalizzare coloro che ne fanno parte; si devono usare mezzi stabiliti e si deve tendere a fini stabiliti.
L’ideologia della nostra società ci suggerisce che colui che fa parte di un’organizzazione possa collaborarvi volontariamente per mezzo di «valori comuni», attraverso i quali gli interessi dell’organizzazione e del singolo si fondono sul piano concreto così come sul piano strategico.
Nella nostra società, quindi, come probabilmente in alcune altre, un’organizzazione formale strumentale non strumentalizza soltanto l’attività dei suoi membri, ma delinea anche quelli che sono considerati i livelli di assistenza adatti, i valori comuni, gli incentivi e le penalità.
Ben strutturato negli ordinamenti sociali di un’organizzazione, c’è quindi un giudizio totalizzante su colui che vi partecipa – e non si tratta soltanto di un giudizio su di lui in quanto membro dell’organizzazione, ma in quanto essere umano.
Ogni istituzione sociale esige ufficialmente dai suoi partecipanti ciò che le spetta.
Al di là di queste imposizioni grandi o piccole che l’organizzazione fa sull’individuo, coloro che la dirigono avranno un concetto implicitamente totalizzante di ciò che deve essere il suo carattere, perché queste pretese organizzative gli risultino consone.
Lo stigma di malato mentale e il ricovero coatto sono i mezzi con i quali rispondiamo a queste offese contro la correttezza.
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