L’on. Franceschini, attuale ministro della Cultura, ha decretato la fine della censura cinematografia in Italia. Sì, perché era ancora in vigore, anche se decenni di luci rosse facevano credere nella sua desuetudine. In realtà le commissioni di revisione cinematografica (questo il nome tecnico) si sono spesso accanite sui film d’autore: per l’Italia citiamo Blow-Up di Antonioni (1967), L’urlo di Tinto Brass (1968), L’ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci (1972) e Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pasolini (1975), La chiave di Tinto Brass (1983) e i meno noti Totò che visse due volte di Ciprì e Maresco (1998) e Morituris di Raffaele Picchio (2011). Tra l’altro, se un pretore stabiliva poi il sequestro nella sua zona, il provvedimento era esteso automaticamente a tutto il territorio nazionale, come se il pubblico di Roma o Milano fosse omologo di una remota provincia italica. Benvenga dunque la fine di una istituzione anacronistica e anche inutile, visto che per anni si è accanita sul sesso ma troppo spesso trascurando la violenza. Ma non fatevi troppe illusioni: nel momento in cui viene meno la centralità della sala cinematografica e la visione si sposta sulle grandi piattaforme multimediali per famiglie, saranno le multinazionali dell’audiovisivo a decidere cosa sia lecito vedere e cosa no. E in tempi di politically correct, sarà un bagno di sangue. Chi avrà il coraggio di proiettare La ciociara (1960) senza evitare di offendere i soldati marocchini? Sia chiaro: la censura di mercato è sempre esistita e proprio negli Stati Uniti fu elaborato il Codice Hays, esempio unico ma efficace di censura esterna alle istituzioni governative, in pratica un patto di ferro tra produttori per evitare grane legali e perdere i soldi del pubblico pagante. Lo stesso in fondo avviene ora con le nuove americane regole sulle “quote” di minoranze varie da inserire nelle produzioni cinematografiche (su cui ho già parlato) e le varie regole che evitano di offendere o discriminare donne, afroamericani, lgbtq+ e altro, col risultato di un appiattimento etico e artistico o – al contrario – di scelte estreme. Ho letto p.es. che Cenerentola sarà riscritto dalla sceneggiatrice e regista Kay Cannon, in anteprima esclusiva su Amazon Prime nel settembre 2021: la classica fata madrina sarà interpretata da Billy Porter, attore gay afroamericano. Kay Cannon afferma che Billy Porter si presta benissimo al ruolo che gli è stato affidato; stiamo parlando di un bravissimo attore oltre che splendido trasformista. “Si adatta così bene al ruolo”, ha continuato Cannon. “Per me, Billy è magico”. Questo dice il comunicato ufficiale. Personalmente non mi pronuncio prima di aver visto il film: censura significa pregiudizio o semplicemente non saper vedere in profondità. Ricordo quel bel film di Peter Greenaway, I misteri del giardino di Compton House (1982): il disegnatore Neville si illude di aver compreso i meccanismi della storia, ma sarà solo una illusione. Come commenta lo stesso regista “Neville ritrae ciò che vede e non ciò che sa”. Esattamente lo stesso meccanismo mentale del censore.
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Revisionismo Animato
La Disney ha messo le mani avanti, sconsigliando ai minori di sette anni alcune sue pellicole: Dumbo, gli Aristogatti e Peter Pan; contengono alcuni stereotipi sbagliati. Negli Aristogatti è il perfido, ambiguo gatto siamese, sugli altri non mi sono informato. La Disney ora non rimuove i contenuti, ma ne riconosce l’impatto dannoso, e vuole stimolare il dibattito “per creare insieme un futuro più inclusivo”. E perché non sostenibile? La Disney si è parato il sottoschiena evitando un pericoloso boicottaggio commerciale. Certo si ricordava di Aladdin (1992), quando per le proteste dell’American-Arab Anti-Discrimination Committee (ADC) cambiò in fretta le parole di una canzone dove gli Arabi non ci facevano bella figura:
“Where they cut off your ear if they don’t like your face / It’s barbaric, but, hey, it’s home”
“E ti trovi in galera anche senza un perché / che barbarie, ma è la mia tribù”
Notare che nella versione originale ti tagliano un orecchio. Di seguito ecco la versione riveduta e corretta. Notare che in italiano “barbaric” diventa “non è facile”
“Where it’s flat and immense and the heat is intense / It’s barbaric, but, hey, it’s home”
“C’è un deserto immenso e un calore intenso / Non è facile, ma io ci vivo laggiù”
Come si vede, Disney all’epoca l’aveva fatta proprio grossa e neanche era di moda la parola islamofobia, termine che io rimando sempre al mittente, non essendo lecito bollare un atteggiamento di opposizione ideologica usando le categorie della psichiatria clinica. Il dissenso non è una malattia mentale.
Ma torniamo al revisionismo estremo e trionfante dei nostri giorni. Che un’opera d’arte sia figlia del suo tempo è un optional. Si è visto di tutto: Dante censurato perché scortese con gay e musulmani, il Vangelo perché chiama Farisei gli ebrei ortodossi, Via col vento perché esalta i Sudisti schiavisti, e persino i classici latini e greci per intero perché basi fondanti del suprematismo bianco coloniale (1). Inutile dire che la civiltà europea ha dato al mondo anche la democrazia, il diritto romano, il pensiero laico, i diritti umani, il voto alle donne, la divisione dei poteri costituzionali: da quell’orecchio non ti sentono, preoccupati di azzerare la storia, la cultura e la memoria, possibilmente la propria. A questo punto ben vengano il Giorno della Memoria e i suoi derivati, a patto che diventino momenti di riflessione e di ricerca storica e non cerimonie retoriche. Il giorno della Memoria dell’esodo istriano e dalmata non è stato p.es. l’occasione di rinfocolare vecchi nazionalismi, ma anche di stimolare una ricerca storica seria, che ora ha rivelato anche la parte avuta dalle nostre forze armate nella dura repressione delle bande partigiane jugoslave. Un giudizio storico e politico si può dare soltanto cercando e rendendo pubblici i documenti storici. Memoria quindi come archivio della realtà fattuale, e non a caso il revisionismo per prima cosa si premura di riscrivere la storia e alterare i documenti, seguendo un preciso progetto di controllo politico. E qui gli esempi anche attuali non mancano, al punto di non dover neanche annoiare il lettore con le citazioni d’uso. Mi preme però far notare alcune novità.
La prima è che viviamo in un’epoca che ama poco la storia; basta vedere i programmi scolastici italiani attuali, parlare coi giovani o seguire le risposte ai quiz televisivi. Se non c’è interesse dal basso perché si vive nel presente e allo stesso tempo lo Stato non si preoccupa di insegnare storia e geografia aggiornando i programmi, il danno è completo. Notavo anni fa la mancanza di senso storico degli studenti americani con cui lavoravo: per loro l’Impero romano, l’antico Egitto, i Maya, i Ming o Guerre Stellari erano strutture complesse, strutturate ma praticamente sincroniche e parallele. Ma in fondo – si dirà – gli Stati Uniti esistono da due secoli e mezzo, quindi non hanno avuto tempo di stratificare la conoscenza. Già, ma noi? Perché buttare nel cesso la nostra cultura, come il Vaticano ha fatto con il latino e il canto gregoriano?
Seconda osservazione: se la storia non ha valore, ben vengano le contaminazioni. E qui diventa quasi un allegro gioco di società: nella serie Netflix inglese Bridgerton, dramma in costume che si ispira ai libri di Julia Quinn, vediamo attori di colore che interpretano aristocratici e dame di corte (la regina d’Inghilterra compresa) nella Londra di fine Ottocento. È il blind casting, cioè scegliere senza curarsi della coerenza. E’ antistorico, ma in fondo è finzione. Il pubblico sta al gioco: è gratificante e strizza l’occhio al politically correct. Già si era visto Achille nero in Iliad, come se la storia fosse uno spot pubblicitario dove secondo il mercato oggi è opportuno mostrare i vispi figli degli immigrati invece dei soliti pargoli biondi con gli occhi azzurri. Ricordo un film con Bud Spencer e Terence Hill ambientato in Africa: quando in un esclusivo club cittadino un bianco si scandalizza per l’ingresso di soci neri, la pronta risposta è: “per me non esistono bianchi e neri, ma solo clienti”.
Terza osservazione: il relativismo, da cui metteva in guardia papa Ratzinger. Se metti tutto sullo stesso piano, alla fine è il caos della conoscenza. E qui dilagano complotti, false verità, balle spaziali e quant’altro, amplificati se non legittimati dai social. L’Internet non era nata per diffondere odio, veleno e menzogna, ma la realtà attuale ci pone di fronte a una doverosa presa d’atto. E quando un falso ideologico o la distruzione morale di un dissidente dal pensiero corrente passano per la rete, si è visto che sono più micidiali dei mezzi di comunicazione precedenti. Si può davvero credere al delirio di QAnon? Eppure migliaia di persone ci credono o fanno finta di crederci per esaltare il proprio Ego frustrato e trovare conferma presso gli altri.
Quarta e ultima osservazione: parliamo di una censura che non viene imposta da governi autoritari e antidemocratici: quella in fondo neanche pone troppi problemi di analisi, essendo palese quanto rozza. Il problema è quando parte – come ora – da minoranze organizzate o addirittura docenti universitari che vivono in società libere e democratiche, quindi realtà apparentemente esterne al potere politico. L’unico precedente che mi sovviene è il codice Hays, censura cinematografica esterna allo Stato ma non per questo meno efficace (2) e non per niente nata negli Stati Uniti. Oggi il problema è che non solo accettiamo la censura, ma la introiettiamo per paura delle conseguenze. Censura sottovalutata solo perché non è imposta da una polizia segreta, ma da uno strisciante condizionamento mentale gestito da minoranze “social”. Ricordo una frase della regista ungherese Marta Meszàros: la vera censura è quella che hai dentro.
Note:
Un Codice politicamente arcobaleno
Hollywood non cessa di stupirci: a partire dall’edizione 2024, per poter essere candidati al titolo di Miglior Film (Best Picture), le pellicole dovranno presentare nella storia e/o nel team di produzione una quota variabile di persone provenienti da categorie sottorappresentate: donne, Lgbtq, etnie minoritarie negli Stati Uniti, disabili. Più che Miglior film, meglio chiamarlo Equilibrista: per ottemperare a tutti i criteri di giustizia sociale richiesti, i produttori, gli sceneggiatori e i registi dovranno dar prova di straordinarie capacità di adattamento all’ambiente.
Intanto ecco le regole contro le discriminazioni. Il film dovrà soddisfare almeno due di quattro standard diversi. Il primo (standard A), riguarda la «rappresentazione sullo schermo, i temi e la narrazione». Un film può venire candidato se almeno uno dei protagonisti, o uno dei comprimari di peso, appartiene a una minoranza razziale tra quelle di seguito elencate: «Asiatico, ispanico/latino, nero/afroamericano, indigeno/nativo, nativo dell’Alaska, mediorientale/nordafricano, nativo delle Hawaii o di altre isole del Pacifico, altro». Male che vada, «almeno il 30% degli attori in ruoli secondari o minori dovrà provenire da almeno due dei seguenti gruppi sottorappresentati», cioè «donne, minoranze razziali, Lgbtq, persone con disabilità cognitive o fisiche, o che sono sordi o con problemi di udito». Perché mai i sordi sono considerati disabili a parte? Mistero. Terza possibilità, «la storia principale»: almeno quella dovrà vertere su uno dei gruppi sottorappresentati ma succitati. Insomma, basta che parli di donne, di minoranze, di disabili, di omosessuali. Facile, no?
Il secondo standard, il B, considera invece la direzione artistica e la produzione e non riguarda il pubblico pagante. Criterio B1: «Almeno due delle seguenti posizioni devono essere affidate a persone provenienti da gruppi sottorappresentati: direttore del casting, direttore della fotografia, compositore, designer dei costumi, regista, tecnico del montaggio, parrucchiere, truccatore, producer, designer della produzione, set decorator, tecnico del suono, supervisore agli effetti visivi, autore». E almeno una di queste deve appartenere a un gruppo razziale (sempre di quelli elencati prima) minoritario. Il B2 chiede soltanto che almeno «sei» posizioni di quelle non elencate (tranne gli assistenti alla produzione) siano affidate a gruppi sottorappresentati o di etnie minoritarie. E il B3 vuole che «almeno il 30%» della troupe del film appartenga alle ormai note categorie sottorappresentate.
Lo standard C parla di soldi e opportunità di carriera, e per ottenerlo bisogna soddisfare entrambi i criteri presentati: «L’azienda che si occupa del finanziamento o della distribuzione del film deve prevedere stage e apprendistati pagati per i gruppi sottorappresentati». Per la precisione, gli studios più importanti o le aziende di distribuzione più grandi «devono avere in essere apprendistati o stage pagati per i gruppi sottorappresentati» e «soprattutto nel settore della produzione, della produzione fiscale, della post-produzione, della musica, degli effetti visuali, delle acquisizioni, della distribuzione, del marketing e della pubblicità». Per gli indipendenti basta che ci sia almeno un minimo di due posizioni affidate a chi proviene dai gruppi sottorappresentati (ma almeno uno deve essere di una etnia minoritaria), negli stessi settori. Il secondo criterio prevede che chi si occupa della produzione o del finanziamento del film offra opportunità di lavoro o di sviluppo delle competenze fuori dal capitolo di spesa per persone dei gruppi sottorappresentati.
Infine lo standard D: prevede un criterio solo: «La rappresentazione nel marketing, nella pubblicità e nella distribuzione». In questi settori «più posizioni dirigenziali interne dovranno essere coperte da persone provenienti dai gruppi sottorappresentati ».
Questo il testo, che ho voluto riportare quasi per intero. E’ evidente che gli impegni più gravosi riguardano lo standard A, artistico ed espressivo, mentre gli altri rimodulano questioni diciamo pure sindacali. Ma è impressionante notare che, mentre il codice Hays (la vecchia censura cinematografica americana, esterna allo Stato ma efficacemente gestita dai produttori, come adesso queste nuove regole) dava un elenco di quello che non si doveva mostrare, questo nuovo codice prescrive quello che si deve rappresentare e in che modo. In questo ricorda più la nostra Controriforma cattolica. Ma c’è davvero tanta differenza con la censura sovietica imposta dal GosKino ai registi, quasi mai liberi di parlare di certi argomenti in modo che non fosse simbolico e vagamente allusivo? E non spingerà tanti artisti all’autocensura, pur di far carriera o campare?
Tanto per cominciare, inclusione e maggiore diversità da sole non significano qualità. Ce lo ricordava (con un ragionamento inverso) il protagonista di Mephisto (1981) di Istvàn Szabò, stupendamente interpretato da Klaus Maria Brandauer: l’artista si vende al Nazismo, ma è costretto ad assumere attori mediocri solo perché alti biondi con gli occhi azzurri. Era la Berlino degli anni Trenta, ma non è invertendo i poli che si cambia la corrente. Quello che è peggio, nella balcanizzazione sindacale a rimetterci è l’umanità fuori schema o figlia di matrimoni misti: penso a chi nell’ex Jugoslavia morente era costretto a scegliere l’etnia, o chi a Bolzano deve decidere per legge se il figlio è tedesco o italiano. In sostanza, per proteggere le minoranze finisci nella trappola delle “quote” ed escludi chi non vuol saperne di tessere, etichette, clan e tribù.
Secondo: i controlli. Come verifichi la razza e la sessualità di chi lavora a un film? Il documento parla di «ispezioni sul set». Stupendo: con che coraggio chiedi a un attore se è ebreo? ? E con quale diritto mi chiedi con chi vado a letto? Ancora : devo portarti il DNA per dimostrare che ho sangue polinesiano? E Barak Obama che alle Hawaii c’è nato, devo assumerlo in quota ai neri o agli hawaiani? Alla faccia della privacy e con la speranza che i miei dati non finiscano nello schedario delle Milizie di Cristo o dei gruppi paramilitari del Nebraska.
Terzo, il tipo di prodotto. In un film storico non posso rischiare l’anacronismo solo per far piacere ai nativi dell’Alaska o ai portoricani. In un film sulla Serenissima posso includere mori, turchi, schiavoni, stradiotti, greci, panduri e morlacchi, ma nel deserto di El Alamein devo attenermi alla cruda realtà storica. In una serie ispirata all’Iliade (Troy) Achille è nero, ma solo per solleticare il pubblico dello stesso colore. Io invece avrei suggerito Elena: la bellezza sottratta al popolo africano dagli Europei colonialisti. Purtroppo Brecht non è più di moda.
Quarto: i film stranieri, dovranno rispondere agli stessi criteri? Ci sto: noi italiani ci risparmieremo le spese per proporre film che tanto nessuno si fila. Nessun film italiano è stato mai prodotto seguendo quelle regole: ne uscirebbe una sgangherata commedia sociale piuttosto che un dramma. E’ vero che gli sceneggiati televisivi son sempre più attenti a includere gay, immigrati buoni e famiglie ricostruite, incluso il fidanzatino “bangla” per la figlia adolescente, ma chi paga il biglietto in sala in genere è più esigente.
Infine: come se ne esce? Come il cinema ha sempre fatto: aiutando la minoranze a studiare e ottenere quella maturità culturale che poi permetterà loro di esprimersi da protagonisti. Francis Ford Coppola, Robert De Niro, Martin Scorzese hanno riscattato dal basso l’immagine degli italo-americani, ma non perché protetti da quote etniche: talento a parte, si sono affermati grazie al loro lento, sistematico impegno nel mestiere. Pensavo stamattina ad Assandira, il film del regista sardo Salvatore Mereu presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia. Nessuna quota era riservata ai film sardi, eppure Mereu ce l’ha fatta. Mentre provo a immaginare un film fatto con i nuovi criteri: è ambientato in Alto Adige, deve tener conto non solo della minoranza (?) di lingua tedesca, ma anche delle subminoranze incastrate nelle valli: ladini, mocheni, cimbri. E se il protagonista italiano offende il comprimario sudtirolese, a metà film rotolerà giù per un burrone.