Pandemic Objects (Oggetti Pandemici) è un progetto editoriale che raccoglie e riflette su oggetti che hanno assunto nuovi significati e scopi durante l’epidemia di coronavirus. Durante i periodi di pandemia, una miriade di “oggetti” spesso trascurati di tutti i giorni (nel senso più ampio possibile del termine) vengono improvvisamente caricati di nuova urgenza. La carta igienica diventa un simbolo di panico pubblico, un termometro frontale uno strumento per il controllo sociale, i centri congressi diventano ospedali, mentre i parchi diventano beni pubblici contestati. Compilando questi oggetti e riflettendo sul loro mutevole scopo e significato, questo spazio mira a dipingere un’immagine unica della pandemia e del ruolo chiave che gli oggetti svolgono al suo interno.
Il virus che mette a dura prova le capacità dell’umanità nel fronteggiarlo, porta anche a riflettere su quest’epoca Antropogenica ed al rapporto che le persone hanno maturato in questi anni con la natura. Non si può ignorare che alcune settimane di blocco delle attività abbia ripulito l’aria e che nelle città sia la fauna, più che la flora, a riappropriarsi degli spazi urbani che l’invasività della presenza umana ha relegato nella clandestinità.
Sul Covid-19, più noto come Coronavirus, si sono fatte molte ipotesi sulla sua apparizione nella vita quotidiana delle persone e tra queste quella della ribellione della natura alla prepotenza antropocentrica.
Un’ipotesi da prendere in considerazione dopo che la NASA ha pubblicato delle foto satellitari della Cina di gennaio 2020 che confrontate con quelle di febbraio evidenziano una nuvola rossa dell’inquinamento che in un mese si è ridotta significativamente.
Una pandemia che ha portato al blocco delle attività, all’isolamento di intere città , con milioni di persone segregate in casa, portando a riflettere sul futuro del Pianeta e fare delle consapevoli scelte per non essere vittime della nostra incapacità di ripensare al modello di vita fino ad ora perseguito.
Qualche anno fa era comparso sugli schermi una serie televisiva della CBS basata sull’omonimo romanzo di James Patterson, dal titolo Zoo. La serie preconizzava una pandemia che infettava gli animali in varie parti del mondo, facendogli assumere comportamenti aggressivi verso l’uomo.
Con gli odierni virus gli animali non aggrediscono, ma fanno da silenti vettori, come monito per un periodo sabbatico da dedicare all’ambiente, perché il problema era la normalità e tornare alla sbandierata normalità non potrà essere uguale a quella sconvolta dal coronavirus.
Basterebbe, senza intraprendere svolte radicali, far tesoro della pubblicazione Laudato si’ che papa Francesco ha dedicato al rapporto dell’uomo con la natura, richiamando alla sobrietà per non essere travolti dal consumismo e dallo spreco.
Per questo sarebbe opportuno tenere presente il punto:
95. L’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti. Chi ne possiede una parte è solo per amministrarla a beneficio di tutti. Se non lo facciamo, ci carichiamo sulla coscienza il peso di negare l’esistenza degli altri. Per questo i Vescovi della Nuova Zelanda si sono chiesti che cosa significa il comandamento “non uccidere” quando «un venti per cento della popolazione mondiale consuma risorse in misura tale da rubare alle nazioni povere e alle future generazioni ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere».
Non si deve soccombere ad una decrescita imposta da una pandemia, ma essere guidati verso un altro stile di vita, la prossima normalità non sarà come quella passata e dovremmo essere consapevoli delle conseguenze che le nostre azioni avranno sul Pianeta , nel quale vorremmo vivere in un modo diverso.
Un Pianeta che non preveda, come nel documentario“Tiger King”, trasmesso da Netflix, lo sfruttamento degli animali selvatici in via di estinzione ed in particolare il confinamento della Natura in spazi sempre più angusti.
Le città, con il Coronavirus, hanno
svelato una nuova dimensione difficilmente paragonabile a quella vissuta negli
anni ’70 con la crisi energetica o le lontane permanenze ferragostane di una
metropoli deserta.
Non si tratta di un vigoroso
ridimensionamento del traffico stradale o di una presenza pedonale limitata
all’essenziale, ma di corpi trasformati in immagini; quello che conoscevamo ha
acquisito una nuova presenza, nel tempo che Freud definiva del perturbante, il
familiare che si trasforma in estraneo e l’assente che diventa quotidiano.
Cittadini che riscoprono la pazienza e
l’educazione di affrontare le file per l’acquisto di alimentari e farmaci, per
accedere ai servizi postali e bancari, per una riparazione informatica o
nell’acquistare materiale da bricolage e sistemare ciò che l’abitazione
attendeva da tempo.
Un periodo sospeso nel tempo da
utilizzare per le riparazioni casalinghe da tempo rimandate o un libro che
attendeva di essere letto, scoprire la cultura su internet visitando musei o
ascoltare musica, guardare film e documentari, sfogliare o gustarsi un romanzo
letto con patos.
La società si comprime sui singoli
individui, per celebrazioni comunitarie di balconi plaudenti, canterini, in una
lontananza che avvicina le persone nell’affrontare un diverso stile di vita che
abbatte il consumismo dello spreco, abbracciare l’oculatezza dell’acquisto,
dopo un primo momento di panico esternato in acquisti compulsivi da carta
igienica e scatolame vario.
File educate di persone con una bassa
conoscenza della geometria che sceglie alla linea retta quella a zig-zag o
quella sinuosa della serpentina, ponendo i pedoni interessati ad andare oltre
lo scendere dal marciapiede o affrontare calcoli algebrici per non entrare in
collisione negli spazi altrui.
La speranza è che al termine di questa
vicissitudine le persone possano aver acquisito l’educazione necessaria per
convivere con le altre persone.
Il rumore delle città ritornerà a
coprire il cinguettio e in quel momento è augurabile che persone, al termine
della pandemica reclusione, possano aver fatto tesoro dell’esperienza, per un
oculato stile di vita e di rapporto con gli altri.
Il Coronavirus come un corso di
rieducazione per il rispetto del prossimo, senza dare in escandescenze,
nell’uso dei mezzi di trasporto privati per brevi distanze. Le ipotesi di come
sarà il dopo comprende anche scenari di una diseguaglianza accentuata e di un
accentuato conflitto sociale.
Cosa dire in questo periodo surreale,
con Roma vuota e tutti reclusi ai domiciliari? Cosa fare ogni giorno col
coprifuoco di 24 ore? A quali ricordi fare riferimento per affrontare una
situazione mai vista se non in tempo di guerra? Come convivere serenamente con
chi altrimenti vedevi poche ore al giorno? E quando finirà una situazione che
pareva breve? Ogni giorno prendo appunti e come tutti gli altri cerco di
capirci qualcosa, di dare un senso a questa reclusione. Non sono originale,
però vivo come tutti una strana situazione che mai avrei immaginato possibile;
da qui il bisogno di mettere nero su bianco la quotidiana esclusione dallo
spazio sociale. Ma dopo venti giorni al telefono ci diciamo tutti più o meno le
stesse cose, cioè poco, visto che poco possiamo fare. Chi ha figli può
approfittarne per avere con loro un dialogo, un rapporto più stretto; ma noi
siamo solo in due e la giornata è lunga, molto lunga. Cristina per fortuna ora
può lavorare da casa e lo fa con entusiasmo, per ore. E’ una bibliotecaria come
lo sono stato io, quindi spesso collaboro con lei nella revisione delle schede
di catalogo. Tutto in linea, ovvio. Ieri sera invece mi sono collegato via
Skype con un’associazione, e con mia sorpresa il collegamento funzionava bene.
Oggi invece è domenica e la rete è sovraccarica e ricorda i collegamenti di
vent’anni fa. Ma sia chiaro: vivo quello che vivono tutti, a Roma la situazione
è ancora sotto controllo e io non sono in prima linea come medici, infermieri e
volontari. Seguo ogni giorno le notizie e mi chiedo come mai abbiamo oggi più
morti dei cinesi (se non hanno barato: ieri sera abbiamo visto tanti, troppi
pallets con imballate le urne cinerarie da restituire ai parenti); telefono
ogni tanto agli amici del nord e mi rimangono indelebili sia le immagini dei
camion militari che portano via le bare che quelle di Papa Francesco che da
solo predica in mezzo a piazza san Pietro totalmente vuota, vera Lux in
tenebris.
Ma come si svolge la vita quotidiana?
Primo consiglio: di questi tempi è meglio la radio. Ogni giorno, su tutti i
canali tv e a tutte le ore non solo si parla soltanto di Coronavirus, ma ne
parlano anche persone in cerca di visibilità quanto prive di competenza, e il
bollettino di guerra della Protezione Civile da solo non dice tutto. Ma
l’epidemia di fatto monopolizza l’informazione, al punto che nulla più sappiamo
dell’assedio di Tripoli, dei combattimenti in Siria, dei migranti che premono
sui confini greci o dei barconi pronti a partire dalle coste nordafricane;
forse aspettano che finisca l’epidemia per riprendere le consuete attività.
Oppure, i nostri giornalisti hanno sviluppato una sorta di monocultura che
esclude tutto il resto.
Qualcuno si è scagliato con violenza
contro le metafore di guerra che stanno saturando il vissuto quotidiano e il
suo immaginario. Non abbiamo il diritto di paragonare tre settimane sbracati
sul divano con quello che patiscono in questo momento i siriani assediati o con
gli anni di guerra vera vissuti dai nostri genitori e dai nostri nonni. Per
salvare l’Italia nessuno ci ha ancora mandato al fronte e i soldati ora
impegnati nell’emergenza sono tutti professionisti. Anche se c’è fila, i generi
alimentari non sono razionati e ognuno compra quello che può. Non siamo esposti
a bombardamenti e in ogni momento possiamo comunicare liberamente con tutti e
ascoltare informazione senza apparente censura. Abbiamo tecnologie che ci
permettono di lavorare da casa e restare in contatto con tutto e tutti. Le
limitazioni alla nostra libertà individuale sono temporanee e almeno per ora
non c’è pericolo immediato di un’involuzione autoritaria delle istituzioni.
Strana guerra poi: identificato il nemico, sgombriamo il terreno invece di
occuparlo. Eppure le metafore belliche saturano il nostro immaginario e
informano il linguaggio dei politici, degli esperti, dei giornalisti, più
quello dei presenzialisti da strapazzo che la tv invita ogni momento in studio
o in video chat. Il motivo è semplice: esse hanno facile presa su una società
che non conosce più privazioni e ha quindi perso il senso della realtà.
Sicuramente la doccia fredda nessuno se l’aspettava e le conseguenze le
pagheremo per anni, e non solo economiche. In più già si registra una fioritura
di testi apocalittici e moralistici, con il supporto dei presunti complotti
diffusi via social.
Ma parliamo di noi. La cosa più
importante: organizzare la giornata. Uno deve darsi un programma, una
disciplina. Come insegna il servizio militare, se la struttura è improduttiva
bisogna imporle precisi rituali quotidiani. In famiglia non sempre funziona,
nel senso che, convivendo h24 da venti giorni, non sempre tutto procede secondo
tabella e se c’è un periodo in cui viene messa alla prova la tenuta della
coppia, è proprio questo. Fra qualche mese è scontato che aumenteranno le separazioni
e/o i neonati. Molti negozi e alberghi falliranno, ma non gli avvocati e le
ostetriche.
Regola due: curare l’igiene personale e
il proprio corpo, radersi, mettersi sempre in camicia e cravatta. Questo non
solo per mostrare un’immagine decente di se stessi quando ti chiamano via Skype
o in videochiamata WhatSapp, ma per mantenere un tono. Ricordo l’immagine di
copertina di un romanzo di Evelyn Waugh (mi pare Unconditional Surrender):
anche nel campo di prigionia l’uffiziale inglese mantiene la sua dignità, anche
se la sua divisa è ridotta a stracci. Niente di peggio che rimanere tutta la
giornata in pigiama: di sicuro quello è il sistema migliore per non combinare
niente.
Altra regola, guardare la televisione il
meno possibile: è ansiogena e invece di comunicare sicurezza riesce a scatenare
l’effetto contrario. Un solo argomento occupa tutti i canali a tutte le ore,
con la continua presenza di presenzialisti ed esperti che spesso tali non sono.
E’ una comunicazione sbagliata. Un mio amico invece mi manda ogni giorno il
numero dei bambini nati: almeno è un segnale di vita. Meglio a questo punto la
radio: più variata, priva di censura. La radio poi riempie il silenzio della
casa nei momenti più noiosi. Personalmente sono da sempre un affezionato radioascoltatore
e anche un po’ radioamatore, visto che ogni tanto una radio me la sono anche
fabbricata da solo con materiali di fortuna, come nei campi di prigionia.
Lavorare alla radio è il mio sogno e presto inizierò a collaborare con una web
radio (1).
Ma torniamo alla nostra vita chiusi in
casa. Mettiamola in ordine. Io e Cri abbiamo “scoperto” che, uscendo la mattina
e tornando solo la sera, casa è incasinata. Morale: è da tre settimane che
spostiamo roba, buttiamo borse e buste di plastica, mettiamo altra roba in
lavatrice e inscatoliamo soprammobili, ritroviamo collane, cravatte, foto,
distintivi, ricette mediche. Ogni giorno si lavano bagno e cucina, si
innaffiano piante e si levano foglie secche. La metà di quello che sta nelle
case è ripetitivo o non serve a niente. Purtroppo le case sono strutturate in
modo irrazionale, almeno in alcune parti: angoli morti e mobili con zampe basse
son solo trappole per la polvere; sotto i cuscini il divano cela telecomandi
per televisore, telefoni viva voce, penne biro e libri tascabili. In compenso
dentro armadi e cassetti ritrovo cavi di prolunga, chiodi e viti, barattoli di
vetro vuoti e quant’altro “potrebbe servire”: in tempi normali è l’anticamera
del barbonismo, ma non potendo uscire tutto è utile; in più realizziamo la
quantità e varietà di detersivi e detergenti che la parossistica colf ci ha
fatto ricomprare ogni settimana. Tocca poi ai flaconi di shampoo, ai medicinali
scaduti, ai dopobarba svaniti, agli alimenti dimenticati nel frigorifero, ai
verbali del condominio di due anni fa… e così via. Per poi passare a borse,
scarpe e vestiti. Un capitolo a parte meritano i capi di vestiario militari o
compatibili: prima o poi sparirebbero se non riuscissi a convincere mia moglie
che gli ho trovato posto, il che naturalmente non è vero.
Da ragazzino – intendo fino a dieci anni
– stavo spesso a casa, come tanti altri. La mattina a scuola, ma il pomeriggio
a casa. Di giocare a pallone per strada non se ne parlava, eravamo borghesi.
Quindi, fatti i compiti, molto modellismo Airfix e letture di ogni tipo, più i
giochi insieme ai miei fratelli: Meccano, Lego, soldatini e giochi da tavolo,
forse oggi rivalutati. In più il teatrino dei burattini – ma mia sorella aveva
il Pollock’s Toy Theatre, un teatrino inglese con figure in cartoncino che
ancora è in commercio (2). E sentivo molto la radio, visto che il televisore è
entrato a casa nostra quando ormai avevo quindici anni. Mia madre fu chiamata
dalla maestra che le disse “suo figlio è un bugiardo”. Nel tema sui programmi preferiti
avevo infatti scritto che nulla avevo da dire perché a casa nostra il
televisore non lo avevamo proprio, e questo negli anni del boom era
impossibile. In compenso, a casa nostra siamo cresciuti in piena autonomia di
pensiero.
Uscire per fare la spesa sembra un film
di Tarkovskij: strade deserte, macchine ferme, pochi sopravvissuti al disastro
di Chernobyl, tutti attrezzati con mascherine, sciarpe e occhiali scuri. Come
gli asiatici, ormai ci si saluta solo con un inchino e abbiamo capito perché. Nei
negozi c’è la fila come nella Jugoslavia di Tito; si entra uno per uno, mentre
passa qualcuno che porta il cane a pisciare per la dodicesima volta. Si
ricontrolla il modulo di autocertificazione, giunto già alla quarta edizione in
due settimane. Passa un autobus che trasporta aria e nel frattempo vediamo
uscire un cliente con cinquanta rotoli di carta igienica e litri d’acqua,
mentre la lista della spesa noi l’abbiamo dimenticata a casa. Una volta
entrati, fa un certo effetto vedere alcuni scaffali vuoti. Penuria? In realtà
la logistica della filiera alimentare è regolare, ma la gente compra tutto a
carrello pieno. I supermercati e negozi di quartiere sono forse le uniche
imprese che guadagnano più di prima. Per gli altri saranno mesi molto duri:
niente clienti ma l’affitto corre e i lavoranti saranno mandati a casa. Dopo la
pandemia la carestia. Alla faccia dell’estetica: le città italiane – stupende ma vuote – ricorderanno pure le
foto di Alinari e hanno sicuramente il loro fascino, ma con negozi, uffici,
ristoranti e alberghi chiusi sono città morte. Perlomeno un mio amico cineasta
ne ha subito approfittato per girare un incisivo cortometraggio, che consiglio
a tutti:
In mancanza di un pianoforte (mentre mia
suocera ne ha due), altra attività quotidiana è la lettura. In molte case è impossibile
concentrarsi, e anche per questo esistono le biblioteche pubbliche. Casa nostra
è invece adatta per leggere, scrivere e studiare: abbastanza grande e
silenziosa, piena di libri ma senza bambini, con vicini educati e cantieri
fermi. E’ anche il momento di ricomporre le collezioni e dedicarsi a un hobby
arretrato. Un bel tavolo napoletano d’antiquariato è diventato lo smart office,
ma nel tempo libero (!) anche le affollate foto scattate a inizio marzo
sembrano appartenere a un’altra epoca. Si riprendono i contatti con amici,
parenti, compagni di scuola e di naja e persone che non chiamavamo da mesi. Si
cerca di interpretare i comunicati del Governo, lunghi e prolissi, che
rimandano ad almeno altri dieci tra leggi e comunicati precedenti, come se a
casa avessimo uno studio legale. Ricordo invece le poche, scarne regole che
Churchill fissò nel 1940 per la stesura dei documenti e che anche oggi
dovrebbero esser rese obbligatorie: la materia va divisa in scarni paragrafi
puntati; analisi dettagliate e statistiche vadano in allegato; si presenti solo
un promemoria con intestazioni, da
espandere a parte o verbalmente; evitare giri di frase inutili e dire le cose
con poche parole, prese anche dalla comune lingua parlata. Questo intervento
s’intitolava molto opportunamente
“Brevity” (3).
* Abbiamo anche tempo per meditare, per pregare. In fondo si viveva così d’inverno in un villaggio in montagna. Non si poteva uscire né fare i lavori agricoli, a parte la cura del bestiame. I social erano le osterie, le birrerie e i pub, oppure la parrocchia. In val Gardena tutta la famiglia d’inverno si dava alla lavorazione creativa del legno, in campagna la sera si raccontavano storie, e sicuramente Omero aveva più da spartire con loro che con noi. La mia famiglia non ha comunque origini contadine, quindi sull’argomento non ho nulla da dire. Ricordo invece quando mia madre mi parlava del coprifuoco nella Roma occupata dai Tedeschi, del razionamento e della fila davanti ai negozi. Papà ogni tanto citava “er beciainigung” (= Bescheinigung, il lasciapassare rilasciato dalle autorità militari tedesche) che aveva indosso come Guardia Palatina di Sua Santità e che ho pure ritrovato tra le sue carte. Ma sono ricordi scarsi, visto che della guerra a casa mia si parlava poco: piuttosto ero io, per i miei interessi storici, a sollecitare la loro memoria. E fu così che nonno mi affidò in vita le foto e i diari di guerra, che a suo tempo ho fatto anche pubblicare (4). E se continua così, di libri ne scriverò altri.
NOTE:
(1) https://www.bibliolorenzolodi.it/radio-giano/
(2) https://www.pollocks-coventgarden.co.uk/categories/toy-theatres/
(3) http://executivesummary.it/siate-brevi-please/
(4) Soldati e cannoni : diario e fotografie di un ufficiale di artiglieria / a cura di Enrico Acerbi e Marco Pasquali . 1996
In
questo momento le sale cinematografiche sono vuote per paura del Coronavirus,
ma di film con epidemie è piena la storia del cinema. Scarto però in anticipo
le trasposizioni da grandi opere letterarie: spesso illustrano, non
interpretano; trovano già tutto pronto per esser messo in scena, sfruttando le
enormi potenzialità del mezzo cinematografico nel ricostruire ambienti e
scatenare emozioni. Non parlerò quindi delle varie edizioni dei Promessi Sposi o della pur stupenda Morte a Venezia di Luchino Visconti
(1971) o ancora de L’amore ai tempi del
colera (2007). Detto questo, quali sono i soggetti originali per una
rassegna di cinema “epidemico” ? Sono per la maggior parte film di
fantascienza, il vero, esplicito aggregatore della paranoia, dove virus e batteri
sono varianti di marziani e ultracorpi invasori. La gente andava a vedere L’ultimo uomo sulla Terra – The Omega Man, che ha visto ben tre
adattamenti per lo schermo (1964, 1975, 2007). Scritto nel 1954 da Richard
Matheson col titolo Io sono leggenda
(1954), narra di un’epidemia causata da un batterio che trasforma tutti gli
umani in vampiri. Il solito meccanismo degli Zombie. Unico non infettato è
Robert Neville, che si barrica e si difende a modo suo. Una curiosità: la prima
versione fu girata all’EUR. Ma parlavamo di Zombie, quindi abbiamo evocato
George Romero: La città verrà distrutta
all’alba (1973) è un suo classico. Evan’s City, la città in questione, è
stata contaminata da un’arma batteriologica chiamata Trixie e gli abitanti
diventano pazzi omicidi, per cui si crea un cordone sanitario in attesa che lo
sterminio abbia fine. Nel 1995 invece, sulla scia del virus Ebola, ecco a noi Virus letale del regista Wolfgang
Petersen. Il virus nasce in Africa e si trasforma, ma solo quando aggredisce
gli Stati Uniti si reagisce con energia (più chiaro di così..) e parte la
caccia per rintracciare la “scimmia zero” da cui è partita l’infezione e così
produrre il vaccino. E sempre le scimmie le rivediamo ne L’esercito delle 12 scimmie del visionario regista Terry Gilliam
(1995). Ambientato nel 2035, vede l’umanità residua a far vita da talpe dopo la
pandemia. Cosa ci s’inventa? Si rispedisce l’eroe (Bruce Willis) nel 1995, a
pochi mesi dall’inizio dell’epidemia, in modo che prevenga e riferisca. Nel
film si vede anche Brad Pitt nella parte dell’attor giovane. Appena due anni
dopo esce Il Quinto Elemento di Luc
Besson e ricompare proprio il nostro Bruce Willis, stavolta nell’impresa di
salvare il mondo dal Male Supremo, evocato da uno sconsiderato scavo archeologico.
Il film è intricato e mischia anche linguaggi diversi, ma si allinea bene al
genere catastrofico, dove l’elemento di base è che la minaccia letale per gli
umani proviene sempre da fuori. Andiamo avanti con Cabin Fever (2002), del giovane Eli Roth. Qui un gruppo di ragazzi
ubriachi fa fuori un uomo sconvolto e malato, senza pensare che può contagiare
loro e gli abitanti del villaggio. Tipico film horror a basso costo, come 28 giorni dopo (2003), di Danny Boyle,
dove stavolta il virus è stato creato in laboratorio e sperimentato su
scimpanzé che scappano in giro (ancora scimmie, ma che fantasia!). Manco a
farlo apposta, in quell’anno scoppiò l’epidemia di Sars. E finiamo con Contagion (2011) di Steven Soderbergh,
vero uccello del malaugurio: il nuovo virus colpisce neuroni e sistema
respiratorio e si trasmette velocemente con una stretta di mano…
Cosa
resta allora che non sia film di genere? Beh, nel Settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957) siamo in piena epidemia di
peste nera, tant’è che il cavaliere (Max von Sydow) gioca a scacchi proprio con
la Morte. E proprio la Morte mi suggerisce di affrontare l’argomento in modo
meno schematico. In Orfeo negro (1959)
di Marcel Camus, Euridice è inseguita proprio dalla Morte, e il contrasto
dinamico col mondo dionisiaco del Carnevale di Rio ha prodotto uno dei film più
stupendi della storia del cinema. Mi sono poi rimasti impressi nella memoria
due film che ci proiettarono a scuola, alle elementari. Il primo era
avventuroso: Alaska, 1925; staffette di slitte trainate dai cani devono correre
nella tormenta per portare ai bambini dei villaggi il vaccino contro la
difterite. Non ricordo il titolo, ma ho scoperto che Balto, uno dei leggendari
husky della muta, si è meritato un film di animazione nel 1995 e ha persino un monumento
al Central Park di New York. L’altro era un tetro film giapponese del
dopoguerra: Una lettera per Tezuò.
Parlava di un bambino orfano e devastato dalla poliomelite e giuro che ancora
mi viene da piangere. Oggi quella malattia è stata debellata, ma chi è
cresciuto negli anni ’50 viveva nell’incubo, e non c’è no-vax che oggi possa
convincermi a cambiare idea sui vaccini.
Mi
piace però concludere in modo ancor più indiretto: con un film ungherese che di
epidemie non parla affatto, nemmeno in modo simbolico. Alludo a Il tempo sospeso di Péther Gothar (1982,
ma da noi giunto nel 1993). Lo cito perché ricostruisce in modo palpabile cosa
significa il rallentamento della vita sociale urbana dovuto a un traumatico
evento esterno, in questo caso il controllo sovietico successivo alla fine
della rivolta di Budapest (1956). Ma la vita alla fine non si può fermare.
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