Un’operazione che alcune società moderne sembrano incapaci di fare è la ristrutturazione e il riutilizzo delle aree e degli edifici dismessi. Non è un fenomeno solo italiano: ho visto a Pola (attualmente in Croazia) le enormi istallazioni del porto militare oggi totalmente abbandonate e pericolanti . Ma in Italia penso che deteniamo il record: decine di colonie estive in rovina lungo l’Adriatico, decine di caserme chiuse da anni, fabbriche dismesse, enti assistenziali pericolanti, enormi, vecchi magazzini portuali o ferroviari vuoti. È il risultato delle successive ristrutturazioni degli ultimi trent’anni, si dirà: dell’esercito, dell’industria, dell’assistenza sociale, del trasporto merci. Mentre però all’estero (penso ad Austria e Germania) le caserme dismesse, tanto per fare un esempio, sono state subito vendute e riadattate ad alberghi o alloggi demaniali, in Italia stanno sempre lì, quasi un insulto ai soldati di leva che le hanno mantenute a specchio per mezzo secolo, nonostante alcune siano situate in luoghi ormai centrali e urbanisticamente preziosi. Le procedure di alienazione e di ristrutturazione sono così complicate e arcaiche da ritardare o scoraggiare persino l’italica borghesia compradora, sempre che lo Stato decida davvero di disfarsene. È impressionante vedere in che stato sono ridotte le colonie estive, decadute dagli anni ’80 in poi, quando l’individualismo esasperato e il nuovo benessere non prevedeva che i bambini fossero più affidati per l’estate a strutture pubbliche. Quello che è peggio, molti archivi di colonie, ospedali ed enti, pieni di dati sensibili e schede personali, sono ormai allo sbando. E se nelle città a bassa pressione demografica (come Trieste) caserme e magazzini portuali restano spettralmente abbandonati, a Milano, Roma o Torino questi spazi vuoti vengono quasi subito occupati da diseredati, immigrati, centri sociali, senzacasa e altri emarginati. Nel migliore dei casi, quando c’è un minimo di controllo pubblico, lo spazio viene assegnato per quote, contro ogni progetto unitario. A Roma di situazioni simili ve n’è a decine, dall’ex-ospedale psichiatrico di Santa Maria della Pietà all’ex-GIL, dalle fabbriche chiuse sulla Tiburtina o sulla Prenestina ai casali della campagna romana.
Una terza via la suggerisce qualche volta la gente stessa, proponendo attività ludiche e artistiche o legate al tempo libero e utilizzando temporaneamente questi vuoti. Penso ai concerti a Forte Prenestino o Ardeatino, alle varie performance di artisti negli spazi ex-industriali, che ben si adattano al gigantismo delle opere di arte contemporanea o alla valorizzazione e riappropriazione del non-luogo. E’ un fenomeno diffuso, che parte dal basso e mantiene un uso comunque pubblico dello spazio demaniale, laddove la svendita ai privati favorisce esclusivamente attività commerciali o legate al turismo e in più creano una serie di barriere interne che frantumano lo spazio e fanno rimpiangere il latifondo.
La vera soluzione? L’urbanistica e la capacità di pensare sui tempi lunghi. Lo dimostra l’esempio dell’Arsenale di Venezia, tuttora di proprietà pubblica ma aperto all’arte. Potrebbero dimostrarlo una serie di spazi dismessi se solo potessero diventare università e luoghi di ricerca. Inizialmente le spese di investimento saranno alte, ma tali strutture possono attirare una serie di forze giovani e di ricercatori internazionali che possono creare nel tempo il valore aggiunto. Mi rendo conto di essere forse un sognatore, ma per ora in mancanza di un’iniziativa pubblica e di un concorso di idee, si rischia solo l’implosione.
e, si rischia solo l’implosione.