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Innamorarsi della Lineare A. Il mistero all’origine delle scritture

Lineare A. Rilievo di Arthur Evans (1851-1941). Archives of Knossos-wikimedia

Ci si può innamorare della scrittura? A Silvia Ferrara proprio questo è accaduto. Un colpo di fulmine, quando nei corridoi dell’Università di Oxford incontrò echi della cretese Lineare A. Aveva il fascino del mistero. Non se ne sapeva niente. «Ma ora col mio team per la prima volta abbiamo decifrato un suo sistema di frazioni» rivela raggiante: servivano per computare scambi e stabilire le tassazioni dovute al palazzo minoico, la sede del potere cretese. È un grande risultato: sono 120 anni che si cercava inutilmente di capire qualcosa della Lineare A. Ora, mosso il primo passo, altri ne seguiranno, indagando su somiglianze e parentele con le scritture note, sul senso dell’ubicazione dei reperti: in una casa, in un tempio, in un mercato o in una necropoli…

L’avventura della nascita dei segni e della loro decifrazione è raccontata dalla Ferrara in “La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose” (Feltrinelli pagine 272, euro 19,00). Dopo alcuni anni di insegnamento in Inghilterra e dopo essere rientrata in Italia nel 2011 grazie al programma Rita Levi Montalcini per il “ritorno dei cervelli” la Ferrara ha ottenuto dallo European Research Council (ERC) un grant quinquennale intitolato Inscribe (Invention of scripts and their beginnings) per studiare l’origine delle scritture, al quale lavora con una dozzina di altri specialisti in afflato interdisciplinare (filologi, antropologi, archeologi, informatici). Sfidano il mistero delle origini di quest’arte sorta in modo indipendente in diverse parti del mondo. In Egitto e Mesopotamia circa 5200 anni fa, in Cina

Geroglilfici, tempio di Hathor, Dendera. Foto Jeremy Zero-Unsplash

più o meno 3200 anni fa, in Mesoamerica approssimatamente 2800 anni fa. Pur così distanti tra loro, le scritture ovunque generano segni che richiamano profili di oggetti e esseri animati. Non sono verbi, non descrivono azioni, ma raffigurano cose: poi la figura ricollega a un’azione, il piede esprime il camminare o la testa di un bue rimanda a qualcosa che, come in un rebus, la lingua esprime con suoni simili a quelli attribuiti all’immagine dell’animale. Così nell’interscambio tra lingua parlata e segno scritto nascono le ambiguità: quel caos in cui la Ferrara riconosce fertilità creativa. E se sembra difficile attribuire bellezza al caos, in realtà «ancor più difficile è resistere, con calma rassegnazione, all’ossessione compulsiva di sistemarlo» individuandovi le strutture di significato capaci di comunicare concetti: in tal modo riconducendolo a un ordine, seppure metastabile.

Che ne sarebbe dello scibile umano se non fosse trasmesso nel tempo grazie al supporto materiale della scrittura, con il suo disordinato ordine, con la molteplice ambiguità dei suoi riferimenti che sollecitano il pensiero e generano comunità di intenti? Eppure un’inchiesta compiuta anni addietro e registrata in teche nel Museo della Scienza e della Tecnologia di Stoccolma mostra che altra è la percezione diffusa: al primo posto, tra le invenzioni ritenute più importanti dell’umanità, sta la ruota, seguita da elettricità, telefono e computer. Questo secondo gli adulti, invece la stessa inchiesta su un campione di ragazzi ha dato risultati alquanto diversi: primo il computer, poi l’automobile, la televisione e il telefono portatile: si guarda a quel che si ha sotto il naso e a quel che l’ha generato non si fa caso. La scrittura è posta dagli adulti al trentesimo posto e dai ragazzi al tentottesimo.

Ambiguo è il terreno del documento scritto. Osserva Ferrara: è proprio vero che scrittura è civiltà? Vi sono tante civiltà aliene alla scrittura, si pensi a quella degli amerindi. Come del resto nella storia si trovano personalità quali Socrate e Gesù, che non han vergato un rigo. In certo modo lo scritto imprigiona il pensiero, che invece anela alla libertà. Perché dunque nascono le scritture? Se a qualcuno sorge il dubbio che il redigere documenti sia da collegarsi alla burocrazia statale per misurare terreni e stabilire tasse, a dispetto di quanto reperito come prima conquista decifrata della Lineare A, la Ferarri è recisa: «L’errore piu grande è imputare alla burocrazia lo scopo, il principio e il senso ultimo della scrittura. Questa è un’imprudente faciloneria che per troppo tempo ha oscurato la più grande invenzione del mondo». All’origine c’è il bisogno di bellezza che accomuna ogni essere umano e lo distingue dalla bestia. «Il cuore della scrittura batte nell’immaginazione, nel bisogno di ancorarci alla terra, nella necessità ultima di dare un nome a noi stessi e alle cose del mondo». Un nome bello, e per questo significativo. C’è bellezza nei geroglifici che catturano le prime parole: sono disegni, prima che segni. Dopo, solo dopo viene il nostro alfabeto, quello che ha “vinto” sull’altro sistema grafico detto sud-semitico, o halaham, che non ebbe la fortuna di associarsi ai mercanti fenici che lo portarono a spasso per il Mediterraneo e poi a trionfare nel mondo (per ora).

Ma c’è bellezza anche nel sistema di nodi su corde multicolori che costituisce lo strumento con cui gli Inca hanno tramandato i loro racconti, così come sulle figurazioni di Harappa che mostrano segni in cui si riconoscono elementi animali e umani, ma non si sa che vogliano dire. Dunque qual è il più bel logogramma? La Ferrara ci pensa un poco e poi dice: «Il cane con la lingua di fuori», geroglifico cretese. È indecifrato, ma è bello, e per ora basta, perché «a Rapa Nui come a Creta l’arte fa da trampolino di lancio alla scrittura, la catalizza, le dà fuoco vitale». E se la bellezza è alla base della scrittura, non sarà per questo che proprio da questa il mondo si aspetta di essere salvato?

(fonte: Studi Cattolici n. 719, gennaio 2021)


La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose
Silvia Ferrara
Editore: Feltrinelli, 2019, pp. 272
Prezzo: € 19,00

EAN: 9788807492624

Verità e Giustizia per Giulio Regeni, una battaglia europea!

  • di EuropaNow!

Sono passati quattro anni da quando il giovane ricercatore Giulio Regeni è stato rapito al Cairo, atrocemente torturato e ammazzato, il corpo lasciato in un fossato lungo un’autostrada. Da allora, malgrado il loro impegno costante, i magistrati italiani che indagano sull’accaduto si sono scontrati con un muro di gomma politico, eretto dal regime egiziano di al-Sissi, che ha cercato in mille modi di depistare le inchieste (compresa l’uccisione di cinque innocenti, falsamente accusati di essere gli autori dell’omicidio) per impedire l’accertamento della verità e l’affermarsi della giustizia.

Con intensità alterna, le autorità italiane hanno chiesto conto al Cairo della vicenda, ma fino a oggi senza esito. Ogni mese che passa allontana la speranza di identificare e condannare i responsabili. La magistratura italiana alla fine dello scorso anno ha presentato al parlamento le conclusioni dell’inchiesta, in cui afferma in sostanza che quello di Regeni fu un omicidio di Stato. In questa vicenda, l’Italia è stata gravemente e ciecamente lasciata sola. Nel maggio 2016, Il governo britannico aveva chiesto “un’inchiesta trasparente per rispondere alle preoccupazioni della comunità internazionale sulla sicurezza degli stranieri in Egitto”. Ma niente di più. Poche settimane prima il presidente francese François Hollande, durante un viaggio ufficiale al Cairo, aveva evocato la questione dei diritti umani in Egitto, il caso Regeni e quello di Eric Lang, un insegnante francese picchiato a morte in un commissariato di polizia. Ma il numero uno francese dell’epoca aveva anche subito rassicurato che la “relazione speciale”, economica e militare, con il presidente Abdel Fattah al-Sisi non era in discussione. Da allora, la questione è scomparsa delle agende politiche e diplomatiche dei dirigenti europei, sacrificata sull’altare dei rapporti commerciali e della “stabilità” dell’Egitto, proclamata dal regime.

In realtà è dal 2016 che i Partners europei avrebbero dovuto accompagnare gli sforzi italiani, come anche i genitori di Giulio Regeni avevano chiesto davanti al parlamento europeo. Avrebbero dovuto richiamare anche loro gli ambasciatori in Egitto, per lanciare il messaggio che il caso Regeni riguarda tutta l’Unione europea, e non solo l’Italia, perché Giulio Regeni era prima di tutto un cittadino europeo. Non è difficile immaginare che in un simile scenario le autorità egiziane avrebbero avuto un atteggiamento diverso e, incalzate dalla richiesta di verità congiunta e determinata dei 28 paesi europei, senz’altro più collaborativo. Invece sappiamo che è andata diversamente. Non avendo ricevuto il sostegno delle altre capitali dell’Unione, il governo Gentiloni nell’agosto 2017 ha rimandato il proprio ambasciatore, insieme all’implicito e inevitabile messaggio al Cairo che il rapporto bilaterale non poteva più essere condizionato dal caso Regeni.

L’Europa ha cosi perso un’occasione di mostrare solidarietà verso l’Italia, ma ha anche intaccato la sua stessa ragione d’essere. Perché chiedere giustizia per il giovane ricercatore friulano avrebbe significato affermare che l’Unione europea non si fonda solo sulla convenienza di stare insieme per affrontare le sfide del XXIesimo secolo e le nuove grandi potenze mondiali, ma che si basa prima di tutto su principi comuni di libertà e di rispetto dei diritti umani. L’Ue non è un patto di azionisti. È un unione politica che fonda le sue radici nel ricordo delle tragedie del Novecento (le due guerre mondiali e la lotta contro tutti i totalitarismi) e la volontà di superarle. Per questo, oggi, tocca a tutti i cittadini e tutte le cittadine europei mobilitarsi per esigere che i loro rappresentanti nazionali e europei facciano sentire un voce coesa, costante e determinata in direzione dal Cairo. Ogni capo di Stato o di governo, ministro o delegato dell’Ue, andando in Egitto o ricevendo un esponente egiziano, dovrebbe essere spronato dall’opinione pubblica e dai media europei a chiedere instancabilmente e con fermezza, verità per Giulio Regeni. La mobilitazione sarà lunga e difficile ma è l’impegno che i cittadini europei sono chiamati a prendersi per Giulio Regeni e per loro stessi.

Accanto a Amnesty, è un compito che anche l’associazione EuropaNow! cerca di assumersi. Nella consapevolezza che voler fare luce sulla scomparsa di Giulio Regeni significa anche riaffermare il nostro sostegno di cittadini europei a tutti cittadini egiziani che lavorano con coraggio per la verità e che sono regolarmente minacciati dalle autorità. E più in generale, lanciare un messaggio di attenzione, solidarietà e fratellanza con i democratici egiziani che credono fermamente che il rispetto dei diritti umani sia un diritto universale, che non ci sono regioni del mondo dove le libertà fondamentali possano essere messe in secondo piano e dove il rapimento, la tortura e l’uccisione di un ricercatore, perché avvenuti in Egitto, possano rimanere impuniti.

Il 25 gennaio, giorno del rapimento di Giulio Regeni, invitiamo quindi le cittadine e i cittadini europei ad appendere alla finestra striscioni, cartelli, qualsiasi supporto in qualsiasi lingua per chiedere “Verità e Giustizia per Giulio Regeni”.

Pubblicato 2020
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dal blog EuropaNow!

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Egitto, il ‘piano della speranza’ finisce in galera

Giungono notizie, ne scrive la stampa internazionale come Le Monde, di recenti arresti che il ministero degli Interni egiziano ha confermato. Si tratta di esponenti liberali e della sinistra riformista: l’ex deputato socialdemocratico El-Eleaimy, l’esponente del gruppo Hizb al Tahrir Hossam Mo’anes, e altri attivisti d’area neo nasseriana che aveva sostenuto nei suoi tentativi presidenziali Hamdin Sabbahi. Il regime di Al Sisi li accusa di preparare un “piano di speranza”, l’avrebbero definito così essi stessi. Per provare a rilanciare quei diritti di parola, manifestazione, per non dire d’opposizione che sono stati azzerati nel Paese che fa di prigione, tortura e assassinio una sistema di controllo e di potere. Che esista un processo d’idee simile, ma non un partito e neppure un movimento, non viene negato da taluni intellettuali impegnati a rivendicare diritti civili, col sostegno di strutture come Amnesty International, pronti comunque al distinguo con la Fratellanza Musulmana. Quest’ultimi sono totalmente estranei al piano della speranza e secondo i promotori devono restare tali, perché strade e obiettivi delle due componenti restano diversi, anche al cospetto della comune repressione in atto ormai da sei anni.

Non è chiaro segli esponenti di quest’area liberal abbiano elaborato le tappe da loro stessi percorse nel fatidico 2013. Quando facendosi se non promotori, sostenitori della sedicente “seconda rivoluzione” con la raccolta di firme che chiedeva le dimissioni del presidente in carica Morsi, favorirono il golpe bianco dei militari che il 3 luglio pose agli arresti il Capo di Stato. Negli anni seguenti, a repressione diffusa e generalizzata, anche i più noti attivisti di strada che avevano agitato i cartellini rossi con su scritto Irhal , cioè vattene, rivolto al presidente islamista che non amavano, hanno conosciuto i trattamenti delle carceri. La propaganda anti Fratellanza di quei giorni affermava d’aver raccolto oltre venti milioni di firme contro il presidente, sebbene l’Alta Corte Costituzionale, che venne interpellata, sostenne come la massima autorità nazionale non poteva essere deposta con una simile iniziativa. Poi, nonostante una metà degli egiziani sostenesse quell’uomo, l’azione passò all’esercito che iniziava a far pesare le maniere di sempre, quelle forti, divenute sempre più forti e sanguinarie. Un’opposizione laica cavallo di Troia dell’esercito reazionario?

Se è per questo i laici, laicissimi ragazzi del “6 Ottobre” anche in quei turbolenti giorni dichiaravano come elementi alla El Baradei e Moussa non fossero altro che rottami mubarakiani, mentre Sabbahi appariva il classico inutile idiota di certa politica di finta opposizione. Certo, tanto s’è detto sulla lotta di potere fra la lobby militare, i tycoon e i fantocci filo occidentali, la Confraternita islamica. Eppure per l’intero biennio compreso fra la rivolta di Tahrir e l’avvio della repressione inaugurata da Sisi col massacro di Rabaa, giovani laici e islamisti si ritrovavano nelle strade cairote a inseguire il sogno d’un cambiamento di rotta governativo. Che questo non ci sia stato è una realtà, ma chi ha lavorato e per cosa è egualmente evidente, seppure oggetto d’interpretazioni differenti. L’Egitto uscito da quell’intricato periodo, mostra travagli e angosce ben maggiori per i suoi cittadini come per chi ne osserva il cupo clima che continua a schiacciarne libertà, democrazia e la stessa voglia di vivere. Una prigione a cielo aperto che è stata denunciata da Ong e avvocati dei diritti che rischiano come e più degli stessi liberal fautori di speranze cui il regime soffoca sul nascere qualsiasi vagito. Ovviamente bollando tutto come terrorismo. E facendo di tutto tabula rasa, perché cancellare il passato, anche quello prossimo, paga.

Enrico Campofreda
Pubblicato il 24 giugno 2019
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Giulio Regeni: Affari e depistaggi

In Cina, in occasione del secondo forum per la Belt and Road Initiative (la Nuova via della seta), il Presidente del consiglio italiano ha incontrato il Presidente egiziano al-Sisi per saggiare la volontà delle autorità egiziane nel giungere alla verità sull’assassinio di Giulio Regeni nel 2016.

L’incontro è stato ritenuto incongruente dal Presidente del consiglio italiano e non si è ritenuto opportuno porre alla discussione delle iniziative di pressione verso il governo egiziano. È difficile per l’Itala porre delle condizioni ad uno stato con il quale si fanno degli affari. Minacciare di sospendere l’estrazione di gas dal più ricco giacimento del Mediterraneo denominato Noor, specialmente se la Francia è pronta a subentrare all’Eni con la Total, o interrompere le forniture di armi non è pensabile, non solo perché la Francia sopperirebbe, ma perché per l’Egitto è meglio tenere al-Sisi, con le sue visioni di grandezza, che rischiare il caos e la destabilizzazione dell’area, come dimostra l’interminabile mediazione che si svolge tra la componente palestinese di Hamas a Gaza e il governo israeliano. Armare al-Sisi non è solo un business, ma anche un rischio che le armi possano arrivare al generale Haftar impegnato a spodestare da Tripoli il governo di Sarraj riconosciuto dall’Onu e ufficialmente anche dall’Unione europea.

La situazione egiziana e libica evidenzia le manchevolezze dell’Unione europea nell’ambito di una politica estera comune, come anche l’incapacità di chiedere spiegazioni sulla morte, al Cairo, di un cittadino italiano quale era Giulio Regeni.

Quella egiziana è una di quelle aree dove convergono numerosi interessi e dove le diplomazie di varie nazioni possono ufficiosamente dialogare anche su altre crisi. Una situazione che non permette all’Europa di fare pressione sul governo egiziano per chiedere giustizia, evitando anche di sostenere l’Italia nel chiedere la verità sulla fine di Regeni.

Gli interessi economici e geopolitici si scontrano con la giustizia, ma il parlamento non è il governo e sotto la sollecitazione del Presidente della Camera Fico ecco l’istituzione della Commissione d’inchiesta Regeni.

Una fievole speranza per dipanare il groviglio di depistaggi egiziani viene anche da un testimone occasionale che coglie il dialogo in arabo tra un funzionario della National security egiziana che ha partecipato al “prelevamento” di Giulio Regeni, perché sospettato di essere “una spia inglese”, ed un’altra persona.

Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco, considerando la testimonianza attendibile, hanno inoltrato una nuova rogatoria al Cairo.

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Qualcosa di più:

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Omicidio Regeni. Diritti civili intesi dagli alleati ingombranti
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Egitto, Sisi continua a fare il boia

Mentre la corda si stringeva definitivamente attorno al collo degli Ahmed e Abdel, questi figli d’Egitto avranno maledetto, prima del generale loro boia, il Paese che sta permettendo la mattanza. Li hanno impiccati in nove, con l’accusa d’essere terroristi bombaroli, di aver assassinato il procuratore Hisham Barakat, fatto saltare in aria con un’auto imbottita d’esplosivo il 29 giugno 2015. All’inizio di questo mese c’erano state altre esecuzioni capitali, un crescendo che rende il regime di Sisi molto più dispensatore di morte diretta, indiretta e legalizzata d’ogni altro raìs che abbia governato la grande nazione araba dall’epoca della sua decolonizzazione. La pratica del terrore mascherato da giustizia non è nuova nel meccanismo repressivo adottato dal generale-golpista. Il regime la profonde a piene mani nelle situazioni più varie. Si ricorderà la fine fatta fare a un manipolo di ladruncoli accusati d’essere i “sequestratori” di Giulio Regeni. Un inseguimento in auto finito a raffiche di mitra che hanno silenziato per sempre quegli sbandati fatti passare per rapitori. Fu uno dei depistaggi attuati dal ministro dell’Interno Ghaffar, fedele collaboratore di Sisi nelle trame nere che offuscano la vita di milioni di cittadini. Cui viene richiesta la collaborazione decretata per paura, disinteresse, omertà, sottomissione alla legge del più forte, disperazione, mancanza di alternative. E’ la regola non scritta delle dittature populiste che parlano e seviziano il popolo in nome del popolo mentre quest’ultimo plaude al proprio carnefice o guarda altrove perché si sente impotente.

I nove giovani impiccati erano considerati da fonti poliziesche vicini alla Fratellanza Musulmana, e questo diventava già motivo di detenzione e condanna carceraria, attribuirgli l’attentato al magistrato ne ha preparato la strada al patibolo. Certo, i vertici della Confraternita non amavano Barakat. Fu lui, diventato dai primi giorni del golpe bianco rigido repressore legale della Fratellanza, a ordinare il congelamento dei beni del Gotha politico islamista, colpendo Badie, al Shater, Ezzat, al Katatny, e ministri del deposto presidente Morsi. Quest’ultimo venne accusato di spionaggio, alto tradimento e condannato a morte, sebbene nei suoi confronti l’esecuzione è stata più volte rinviata. Non così per i molti attivisti e quadri intermedi della Brotherhood. A fronte di oltre 1.400 sentenze capitali ne sono state eseguite un’ottantina. Per i nove impiccati di ieri sono rimasti ancora una volta inascoltati gli appelli di Amnesty International e di altre Ong dei diritti, anche perché la linea ferrea dovrebbe incutere quella paura diffusa con cui i militari hanno deciso di paralizzare l’opposizione e bloccare iniziative politiche d’ogni genere. Le uniche neppure sfiorate da timori e tentennamenti sono le reali azioni jihadiste che continuano ad avere nel Sinai gruppi attivi e pure iniziative simulate dall’Intelligence interna che, grazie a esse, può incrementare l’escalation repressiva.

Pubblicato giovedì 21 febbraio 2019
Articolo originale
dal blog di Enrico Campofreda