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Esercitare l’arte della scrittura

Confesso di non aver letto niente di Murakami Haruki prima di questo suo libro, per cui mi attengo a quanto lui scrive, senza far finta di aver letto 1Q84 (sic), L’incolore Tazaki Tsukuru e i suoi anni di pellegrinaggio o L’uccello che girava le viti del mondo (ma che hanno tradotto?). Schivo e riservato come tanti giapponesi, con umiltà descrive qui il suo mestiere di scrittore. Perché per lui di mestiere si tratta: è riuscito a diventare un romanziere affermato e autosufficiente, ma per anni ha fatto altro per vivere e ha trasferito nel mestiere di scrittore l’impegno quotidiano di un lavoro comune. Si meraviglia che la gente non comprenda perché la mattina lui faccia un’ora di sport prima di lavorare per sei ore a tavolino come un impiegato. La gente gli scrittori se l’immagina sregolati e geniali, mentre il nostro, pur avendo avuto trascorsi bohèmien – nato nel 1949, si è formato negli anni ’60 – è un tipo regolato, pur critico verso la nipponica cultura efficientista. Eppure, proprio da bravo giapponese ha messo nel suo mestiere di scrittore una costanza e una determinazione che vanno ben oltre la disciplina: senza prendere appunti, organizza la sua mente come un gesuita e inizialmente lavora per sottrazione, selezionando dalla massa dei dati gli elementi di base, e in questo è figlio del buddismo zen. Ma deve far i conti anche con quanto esce dalla profondità, e in questo invece sembra ignorare Freud, almeno da come descrive in modo scarno il processo inconscio. Sorprende però la sua modestia: afferma che chi ha una cultura o un’intelligenza superiori è meglio si dedichi alla saggistica: è più logico ed economico concentrare un concetto in un saggio che disvelarlo nella complessa trama di un romanzo, e a favore della sua tesi nota quanta poca continuità nel romanzo abbiano avuto gli studiosi o gli specialisti di altri campi (ma lo conosce Umberto Eco?). Curiosa tesi la sua: il romanzo ha impiegato due secoli per sdoganarsi e lui lo riporta alla sua iniziale volgarità, come se Stockhausen ribadisse la dignità di un musicista di corte salariato. In realtà la sua idea di romanzo è – come dire – minimalista, e non per niente Murakami Haruki è anche il traduttore di Carver per il Giappone. Questo non toglie che da pochi, scarnificati elementi si costruisca lentamente una trama spessa, in un procedimento inverso a quello iniziale di sottrazione. Si tratta ora di aggregare al nucleo iniziale una serie di dati esterni e interiori altrimenti slegati. L’autore raccomanda di essere curiosi osservatori del mondo esterno, e in questo è facile il paragone con il pittore Hokusai. Questo processo richiede il tempo pieno: l’autore è arrivato tardi al romanzo lungo e scriverne uno significa per lui fare solo quello, senza distrazioni. E’ l’unico modo per crescere. Riesce a creare personaggi di ogni età e le adolescenti gli chiedono come fa ad entrare nel loro mondo. Pare che i suoi libri in famiglia li leggono tutti, dal nonno al nipote, dunque hanno un ampio respiro sinfonico. Ma lui scrive quello che vuole, non segue i gusti del pubblico. Questo è il segreto di ogni scrittore che accetti per i primi anni di passare quasi inosservato. Lui è stato scoperto grazie a un premio letterario – proliferano anche in Giappone – ma non farebbe mai parte di una giuria. Essere così individualisti per noi occidentali può anche essere normale, ma non lo è in Giappone. Un interessante capitolo descrive poi il tentativo – riuscito – di farsi conoscere all’estero, iniziando dal mercato americano. Asceta ma non sprovveduto, il nostro si trasferisce a New York e si appoggia a una squadra di professionisti dell’editoria. Lui da giovane leggeva i romanzi in inglese e ha tradotto molto, Carver, Chandler, in più accetta di parlare in pubblico e di essere intervistato, cosa che non fa mai in patria. Insomma, è uno stratega e i risultati non si faranno attendere. In Europa è arrivato dopo e i primi a leggerlo sono stati i Russi. In Italia direi che è un autore di nicchia. Ma è lo stesso Murakami a spiegare il successo dei suoi romanzi: sono letti soprattutto quando e dove sta avvenendo un cambiamento politico e sociale. Evidentemente sanno cogliere non tanto il movimento grande – stavo per dire la macroeconomia – ma quegli impercettibili movimenti che solo un osservatore attento e curioso sa notare, per poi orchestrarli in una partitura complessa. Tirando le somme, questo libro va letto per la sua semplicità. L’arte del romanzo di Henry James o di Gyorgy Lukàcs sono ormai quasi illeggibili, mentre il libro di Murakami è scarno e sincero. Forse chi lo legge non diventerà mai uno scrittore, ma almeno avrà risparmiato la quota di un costoso corso di scrittura creativa.

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Il mestiere dello scrittore
Murakami Haruki
traduzione di Antonietta Pastore
Editore: Einaudi, Torino, 2017 (ma ora anche Mondadori), pp. 186
Prezzo: 18,00 euro

EAN: 9788806232146

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Il disagio della Democrazia di Carlo Galli

Il disagio della democrazia, come chiaramente descrive Carlo Galli nel suo omonimo saggio, è un disagio oggettivo per l’inadeguatezza dell’attuale democrazia (e dei suoi istituti) a mantenere le proprie promesse, ma è anche il disagio soggettivo dei cittadini che sembrano accettare passivamente “una morte che non si può annunciare”. Siamo spettatori di un paradosso: l’occidente dalla grande tradizione democratica, ritiene la democrazia l’unica forma di organizzazione politica legittima e tuttavia ne sperimenta il disagio; i paesi caratterizzati da regimi autoritari (es Africa) invece lottano per averla. Carlo Galli, accademico e politico, auspica che ciascuno faccia il primo passo verso una “deliberata volontà di democrazia” e ci conduce quindi attraverso la storia della democrazia: in fondo la democrazia è un termine polisemico, nel quale si sono stratificate diversi significati in funzione dell’evoluzione storica e umanistica. E’ dai suoi fondamenti e dalle sue trasformazioni che possiamo porre un parziale rimedio a quel disagio, poiché ci può aiutare a realizzare la riattivazione selettiva della complessità dentro la quale stanno diverse e molteplici possibilità della democrazia a “venire”. E’ necessario però abbandonare l’insoddisfazione per l’attuale democrazia unita alla sensazione che non ci siano a questa, alternative, perché crea “spaesamento che rischia di essere costante e insuperabile, ma non produttivo”. Lasciare troppo spazio al “disincanto tecnico”, al rifugio nell’individualismo, alla sensazione di tradimento dell’ideale moderno di autenticità della democrazia, dovuta alla perdita della libertà e della piena espressività del singolo, rischia di renderci complici della sua morte.
La parola Democrazia coniata nel mondo greco si riferiva a δῆμος (démos) e κράτος (cràtos) cioè al governo del popolo (che era comunque una minoranza – non partecipavano donne, schiavi, meteci – gli stranieri residenti- ed i troppo poveri). In genere nella prassi politica greca la democrazia si riferiva ad una parte (démos) ritenuta peraltro violenta e rancorosa in contrapposizione all’altra, l’aristocrazia. Sinteticamente il pensiero greco, troviamo, solo Aristotele a interpretare la democrazia (la politeia) in termini positivi o meglio come il governo perfetto per gli imperfetti (il ceto medio ritenuto per il pensiero dell’epoca non in grado, per cultura e per necessità, di pensare a visioni di più ampio respiro relative all’intera città e al bene comune). Galli pone infine l’accento sull’ideale della democrazia espresso da Tucidide, dove “la parte” non è faziosa ma in grado di promuovere i valori multiformi di un umanesimo attivo da tenere sempre presenti per l’analisi critica della situazione attuale: “l’uguaglianza davanti alla legge, la trasparenza della politica, l’autogoverno, la tolleranza di ogni diversità dei singoli purché ciascuno riconosca il proprio obbligo verso la città nella quale lavoro e politica, pubblico e privato, parola e prassi camminano di pari passo”.
Dagli ideali degli antichi alla declinazione democratica nell’età moderna, nella quale il nodo centrale si sposta dal governo (chi governa chi: saggio, aristocratico, filosofo, guerriero) alla legislazione: è il potere generale ed universale che rappresenta tutti (sovranità) e che garantisce unità e pace tramite l’ordine artificiale delle leggi.
A partire dalla Riforma protestante, propulsiva del capitalismo industriale, cominciano a liberarsi energie soggettive individuali e si reinventa un nuovo spazio politico, che si modellerà lungo lo scorrere dell’età moderna fino collassare nell’Era della Globalizzazione. La democrazia degli antichi cede il passo ad un nuovo pensiero che dà forma alla democrazia moderna: l’uguaglianza di tutti gli uomini in natura, che quindi hanno diritto di essere uguali anche davanti alla legge. Il popolo governa e viene rappresentato tramite un intero ordinamento, che in regime di uguaglianza lo coglie non nelle sue specificità ma nella forma astratta e universale delle leggi. In questo momento trovano espressione i concetti di Stato e cittadinanza, come dimensione universale del popolo all’interno dello Stato. L’orizzonte politico inventato ex-novo dalla borghesia mantiene tuttavia le disuguaglianze materiali derivanti dalla legittimazione del nascente capitalismo industriale. Nel secondo dopoguerra la democrazia evolve nella sua figura tardomoderna, cioè il “compromesso socialdemocratico”: accanto ai diritti politici, prendono forza i diritti sociali che tendono a garantire l’uguaglianza delle condizioni. L’epoca moderna, diversamente da quella antica, funziona per separazioni e astrazioni: “è l’insieme delle condizioni formali a dare alla politica una finalità umanistica di espressività delle soggettività, che attraverso i diritti dovrebbero ricomporre la scissione tra universalità della legge e particolarità concrete”; proprio per questo è segnata dalla rivendicazione dei diritti non solo politici ma anche sociali. “Che le lotte siano state necessarie significa che la democrazia non è automatica, ma deve essere voluta nella prassi”. Se il popolo è il grande assente della democrazia moderna nel senso che vi compare come “istanza originaria costituente legittimante le istituzioni”, i partiti politici nello spazio politico dovrebbero essere portatori della pluralità. E’ proprio la partecipazione dei singoli con un’attiva “volizione” costante e continuativa che mantiene in una dialettica sana di un pluralismo sociale e nella trasparenza politica; è proprio questa partecipazione il ponte tra l’individuo e l’interesse generale, non c’è democrazia con un pensiero unico o assenza di pensiero.
Con l’avvento della Globalizzazione la grande sfida della democrazia moderna di fare unità mediando fra le parti è svanita: l’unico protagonista, il capitale (la finanziarizzazione) è fuori controllo e domina indiscusso lo scenario globale. Lo stato democratico moderno s’indebolisce e la politica sprofonda in maneggi di “oligarchie economiche affaristiche”. I partiti sono potenti ma meno collegati con la società è quindi più deboli nel senso democratico del termine, l’omogeneità culturale della nazione si fa precaria ed il dilagare dei conflitti scuote l’apparato democratico costituendo un vero e proprio detonatore per forme meno democratiche, come la democrazia autoritaria o amministrata (“dove il consenso che si attiva non è spontaneo ma passivo”) o come forme di populismo democratico che, esaltando retoricamente la centralità del popolo determinano un movimento anti-establishment. Forme di esemplificazione della realtà e di fuga non sono mai risolutive: “il popolo del populismo è tanto meno reale quanto quello della democrazia istituzionalizzata: un fantasma comunitario che vuole opporsi alla finzione della cittadinanza, un Tutti anonimo che pretende di opporsi all’anonimato della globalizzazione”. Questo “Noi inventato” del populismo “si fa strumento di una politica, che in realtà è ancora più distante dal popolo di quanto lo fosse la tradizionale” e anche se si crede d’opposizione è sempre più spesso utilizzato dai governi. “Una passività di massa mascherata da attività che esprime il pieno disagio della democrazia”.
Galli chiude l’articolata trattazione con un monito: “se è giusto riconoscere la non democraticità del tempo presente”, non ci si può ingenuamente abbandonare a soluzioni immediate o semplicistiche. Partendo dalla consapevolezza della complessità del fenomeno democratico e “in funzione della storia si può selettivamente reinterpretare la complessità e avere il coraggio di indicare ciò che di nuovo va colto e ciò che di vecchio non è più vitale”. Volontà e mediazione ma nello spazio sociale dove gli ingredienti della politica reale e dell’energia formante la democrazia sono vivi e non già nelle istituzioni della politica dove si trovano “sublimazione, stilizzazione e a volte mistificazione”.

04 DemosKratia Il disagio della democrazia******************************

Titolo: Il disagio della democrazia
Autore: Carlo Galli
Editore : Einaudi (collana Vele), 2011
Prezzo: € 10,00

Disponibile anche usato a € 5,00 su Libraccio.it
Disponibile in eBook a € 6,99

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