Archivi tag: Enrico Campofreda

Jenin e la rimozione della realtà

– di Enrico Campofreda –
Jenin e la rimozione della realtà

Mohammad Bakri è un regista e attore palestinese con cittadinanza israeliana. E’ nato nel villaggio di Bi’ina, nella valle di Beit Hakarem, in piena Galilea, una zona a stragrande maggioranza musulmana, con una minoranza cristiana. In quel luogo, nell’aprile 1948, ha operato l’organizzazione terroristica ebraica denominata ‘Banda Stern’ facendo stragi di civili, distruggendo parte del villaggio. Nelle successive operazioni militari l’esercito di Israele ha sconfitto la resistenza arabo-palestinese e la gente di quel villaggio si è dispersa fra la fuga in Libano e l’impiego presso la comunità agricola ebraica di Nahalal. Bakri è nato nel 1953, quando lo Stato d’Israele insediato nella terra di Palestina aveva cinque anni. Poco più che ventenne s’è avviato alla carriera teatrale in Cisgiordania e Israele. Il suo sguardo s’è rivolto anche al cinema, spaziando sui terreni della sceneggiatura e documentaristica. Impegnate. Da qui sono cresciute la fama e gli ostacoli incontrati sul percorso artistico.

Nel 2002, quando la seconda Intifada era nel pieno delle sue giornate drammatiche e insanguinate, presentò un documentario che fece epoca “Jenin Jenin” dal nome d’un campo profughi palestinese situato Cisgiordania, a meno di trenta km da Nablus. Nel mese di aprile l’esercito israeliano aveva invaso quel campo ponendolo sotto stato d’assedio per una dozzina di giorni. Non fu permesso a nessuno, né a giornalisti né a organismi di controllo internazionale di seguire quelle operazioni definite antiterroristiche. Bakri, che assieme ad altri artisti aveva compiuto proteste non violente, penetrò con una camera il 26 aprile 2002, appena l’esercito di Tel Aviv si ritirò. Riprese e parlò con la gente scioccata. Ci furono testimonianze di violenza e massacri fra la popolazione. Il lungometraggio, montato a Roma e comunque diffuso nonostante gli ostacoli opposti dagli stessi Paesi arabi, subì attacchi da Israele che lo bollò insieme al regista di propaganda antisemita. Alle denunce per calunnia, presentate da militari israeliani contro Bakri, seguì nel 2006 un’assoluzione.

Ma tuttora quel film scottante, proibitissimo nelle comunità ebraiche di tutto il mondo, costituisce un fantasma. Recente è una nuova denuncia contro il regista lanciata da un altro soldato di Tsahal che si ritiene diffamato. Il regista israelo-palestinese continua a difendere più che se stesso il suo intento di sensibilizzare quella parte dei suoi concittadini che sulla spinta di quanto deciso dal Parlamento di Tel Aviv puntano alla discriminazione del milione di arabi tuttora presenti in Israele. Una nazione passata dall’apartheid alla esaltazione razziale col passo legislativo di considerare il Paese Stato ebraico. A quei concittadini ignari della storia di Jenin, come di quella della nascita di Israele, Bakri – in questi giorni in Italia per rilanciare fra gli altri quello stesso documentario – rivolge il suo appello ai cittadini d’Israele che non vogliono farsi manipolare da una politica non solo omologante, ma assolutista e razzista. Quando essi chiederanno una vita diversa, cadranno anche odio e oppressione.

Pubblicato 19 ottobre 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo

 

 

Lo stallo Regeni e i balletti di Stato

  • Ha parlato direttamente col presidente Al Sisi, Roberto Fico, presidente a sua volta, del Parlamento italiano, dopo aver incontrato in precedenza l’omologo egiziano. Differentemente dal collega Di Maio, ha parlato esclusivamente del caso Regeni affermando che “le indagini sono a un punto di stallo”, cosa che Sisi sa benissimo semplicemente perché è il regista della palude in cui si dibatte l’Egitto dal 2013. Data della sua presa del potere, operata con un golpe, prima bianco e dopo quarantacinque giorni rosso sangue, colato dai corpi di centinaia di concittadini che il presidente dal sorriso gentile faceva massacrare dai suoi militari e poliziotti. L’Italia con gli esecutivi Renzi e Gentiloni ha fatto inizialmente la voce grossa, ha ritirato l’ambasciatore dal Cairo per poi rintrodurlo con l’alibi che avrebbe controllato da vicino (sic) i passi istituzionali della nazione sull’omicidio del ricercatore. Tutto questo dopo che gli stretti collaboratori di Sisi, finanche il ministro dell’Interno Ghaffar e quello degli Esteri Shoukry, coprivano i sottoposti esecutori di sequestro, torture e omicidio di Regeni. Sicuri dell’impunità che il nuovo raìs garantisce loro, visto che di arresti, sequestri, torture, galera, assassini e sparizioni l’Egitto dei militari di Sisi fa un uso sistematico. Come le peggiori dittature mondiali.

    Con questi sanguinari, pur dal rassicurante aspetto, i politici italiani pensano di dialogare. Se non sono proprio fuori di senno, possiamo pensare che inscenino anch’essi una sceneggiata. Fanno quel che i vertici d’una nazione devono fare, ma senza prendere contromisure nei confronti della chiarissima tattica della Sfinge in divisa che promette, ma tergiversa e soprattutto ostacola indagini e processo. Come abbiamo visto, in Egitto a processo vanno gli scampati dal massacro della moschea di Rabaa, l’Epifania di quel che Al Sisi avrebbe riservato al suo popolo, iniziando dagli odiati Fratelli musulmani, per passare a oppositori della sinistra giovanile, e socialisti, e giornalisti, e blogger e attivisti dei diritti. Tutti costoro hanno riempito le galere egiziane, mentre gli attuali presidenti e vicepresidenti cinquestelle e leghisti guardavano probabilmente ad altro, intenti a quell’avanzata elettorale volta a gabbare i claudicanti governi del Pd. Nel febbraio 2016 apparve in tutta la sua drammaticità la vicenda Regeni, uno scempio che confermava ciò che da anni era messo in cantiere dalla macelleria egiziana. La cui dirigenza, non a caso militare, rievocava i ‘garage Olimpo’ dell’Argentina di Videla. Come allora, la comunità internazionale ha taciuto e continua a farlo.

    L’Italia, parte offesa, si barcamena in goffe iniziative con l’Egitto, i cui vertici si beffano delle inchieste della procura di Roma, che ha esplicitamente denunciato le falsità e l’omertà del governo cairota. Altro che collaborazione! Altro che promesse di far luce! Sisi governa su una popolazione soggiogata o adescata col terrore, governa nel buio pesto delle prigioni dove in questi anni sono sparite attorno alle cinquemila anime. Questo denunciano talune Ong umanitarie che hanno dovuto abbandonare quel Paese per non finire esse stesse risucchiate nel gorgo della repressione. Si può dialogare con dei criminali travestiti da statisti? E’ la domanda che gli attuali esponenti delle Istituzioni italiane, dai Di Maio ai Fico, viaggiatori e interlocutori di Al Sisi, si sarebbero dovuti porre. Se sì, al di là di diplomatici balletti, che differenti misure prende il governo ‘gialloverde’ rispetto a quelli rosapallido del Pd? All’orizzonte non si vede nulla, se non moti autoreferenziali, attenti a non disturbare rapporti commerciali col partner egiziano, per gli affari dell’Eni che sono solo in parte affari nazionali. Essi potrebbero cedere il passo a una sana morale di quello stato di diritto che sosteniamo di difendere e che ‘l’amico Sisi’ ha  calpestato, facendo trucidare un nostro cittadino. Diventato uno di loro, una vittima di quel regime cui non dovremmo riservare colloqui e strette di mano, ma esplicite accuse.

    Pubblicato 17 settembre 2018
    Articolo originale
    dal blog di Enrico Campofreda

Ira saudita sull’Iran

E’ stato il principe saudita al-Jubeir, l’uomo imposto da Washington al cerchio magico di Mbs nel delicatissimo ruolo di ministro degli Esteri, a esternare pesantemente al Palazzo di vetro una litanìa risultata musica alle orecchie di Trump e della sua ambasciatrice all’Onu Haley. Tanto per ribadire la già nota fedeltà Jubeir ha parlato fra due angeli custodi che si chiamano Bolton e Pompeo e curano la sicurezza statunitense e la segreteria di Stato. Il ministra Saud senza voli pindarici ha esplicitato la necessità di far cadere la presidenza iraniana di Rohani, applaudendo al rinnovato embargo americano che ristabilisce muri in luogo delle aperture decretate dall’accordo sul nucleare firmato da Obama prima della chiusura del mandato. A sostenere il braccio di ferro trumpiano ci sono anche Emirati Arabi e Israele, tutti concordi nel propugnare uno scossone agli attuali vertici iraniani prima che lo Yemen si trasformi in quel Libano conosciuto dagli anni Ottanta in poi con la crescita politica e militare di Hezbollah. Dunque via i vertici di Teheran, con ogni mezzo.

Fra i mezzucci messi in atto non è certo, ma è plausibile, annoverare anche gli attentati che hanno di recente insanguinato la località di Ahvaz. Ovviamente nessun diplomatico presente all’Assemblea Onu fa riferimento a essi, ma il media ufficiale saudita (Al Arabiya) per mano d’un suo opinionista, fa diretto riferimento ad altre spine nel fianco del sistema, manifestazioni e scioperi che dalla fine dello scorso anno si susseguono in molte aree del Paese. Il malcontento sociale iraniano è diffuso, alimentato dalla caduta esponenziale del ryal, dalla sua perdita di valore e conseguente potere d’acquisto monetario che riduce sul lastrico i ceti medi sostenitori di Rohani. A politicizzare le proteste sarebbe la mai estirpata componente dei Mujaheddin del Popolo, la cui rappresentante Maryam Rajavi vive a Parigi in un esilio autoimposto. Il gruppo, che nella guerra civile del triennio 1980-82 assunse pratiche terroriste e stragiste, è da tempo chiacchierato per i molteplici sostegni offerti dalla Cia. E può benissimo prestarsi a organizzare turbolenze.

I sauditi, che tifano per loro senza nasconderlo, spererebbero che questa fosse l’opposizione iraniana in grado di stanare il regime degli ayatollah. Al di là della reale consistenza in Iran di tale gruppo, la lotta intestina fra i poteri forti di Teheran: da una parte gli orientamenti tradizionalisti di certo clero conservatore che ha trovato in Raisi l’esponente di punta e continua ad avere in Khamenei il garante della linea khomeinista, dall’altra il laicismo dei Pasdaran, negli ultimi anni in un totale compromesso coi chierici che s’è trasformato in diarchia. Non perfetta, poiché i riformisti fanno da terzo incomodo, vivo e attivo, e soprattutto non rinuncia a una presenza attiva la popolazione. Fra la gente, i fedeli al regime non mancano, come non mancano gli oppositori, sicuramente crescono i dubbiosi, quei ceti sociali sempre presenti sullo scenario nazionale e in molte fasi determinanti: studenti, commercianti, giovani donne sempre meno rurali. Bisognerà vedere quanti di costoro son disposti a seguire i proclami ideologici dei mujaheddin e quanti le promesse del clero, che militante e non, attualmente ha scarsa presa su una gioventù di certo meno combattente, non è detto meno combattiva.

Pubblicato 27 settembre 2018
Articolo originale
dal blog di Enrico Campofreda

Afghanistan, conservare una guerra infinita

La vicenda narrata da alcuni ricercatori afghani sul caso dell’unico gruppo del Daesh afghano collocato nell’area centro-settentrionale del Paese, e formato come in altri casi da talebani dissidenti, è sintomatica di quello scontro indiretto e ormai anche diretto, fra miliziani che fino al 2015 erano un tutt’uno. Una sorte di competizione per il titolo di “resistente” all’Occidente che da mesi fa strage di civili. Nel distretto Darzab, 150 km sud-ovest da Mazar-e Sharif, un tal comandante Hekmat aveva distaccato i suoi guerriglieri dalle indicazioni della centrale talebana. I suoi uomini (e ragazzi, vista la giovane età di molti reclutati) usavano la sigla dello Stato Islamico della provincia del Khorasan, sebbene si trattasse di un’auto dichiarazione, probabilmente non concordata con la componente più corposa dell’ISKP, collocata nella provincia di Nangarhar. Dicono gli osservatori che i miliziani di Hekmat fossero prevalentemente d’etnìa uzbeka e tajika, con un numero ristretto di pashtun. Il gruppo, restando nella zona, si distingueva soprattutto per scorribande e rapimenti a scopo d’estorsione, fino a quando il leader è stato ucciso da un attacco coi droni statunitensi. Sostituito da Mawlawi Habib Rahman, proveniente dalla zona di Balkh, l’operatività dei jihadisti non veniva contrastata da nessuna struttura governativa. Il capo della polizia risultava rifugiato in una base dell’esercito di per sé, comunque, inattiva.

Nel busillis di “chi controlla cosa”, che comunque esclude a priori reparti e amministratori del presidente Ghani ben rintanati altrove, un governatore-ombra della confinante provincia di Faryab, quasi omonimo del neo leader jihadista: Mawlawi Abdul Rahman, avvertiva il nucleo dissidente che se non avesse deposto le armi ci sarebbero state pesanti conseguenze. Dopo uno scambio d’insulti, con funzione anche da propaganda verso gli abitanti dell’area, e tanto di reciproche accuse d’essere fantocci dell’occupazione straniera, le due componenti passavano alle vie di fatto. Ovviamente armate. Ne è seguito il disegno talebano di sradicare con la forza la presenza dei dissidenti nel Jawzjan con due offensive negli scorsi mesi di dicembre e gennaio. Alle battaglie partecipava, anche perché direttamente interessato il governatore-ombra del Jawzjan, tanto per chiarire che il controllo del territorio continua a rappresentare uno dei fini irrinunciabili della strategia talebana, fedele all’orientamento nazionale del proprio Jihad (mentre i dissidenti parlano di Califfato, secondo le direttive del Daesh). Nell’indagine svolta in loco dagli indomiti ricercatori afghani, fonti governative hanno confermato che i talebani ortodossi hanno impiegato truppe provenienti da altri distretti, come Sar-e Pul e Ghor, usando armi pesanti, proprio per piegare definitivamente la concorrenza. Con l’uccisione, avvenuta a fine luglio, di due comandanti dell’ISPK il morale dei seguaci è parso crollare.

L’impegno nello scontro pur locale è risultato intensissimo, ed è stato monitorato da reparti dell’Afghan National Forces, rimasti a guardare in alcuni avamposti confinanti con le zone del conflitto, cui s’aggiungevano osservazioni aeree statunitensi accompagnate a uccisioni mirate. Gli stessi Taliban hanno registrato numerose perdite, causate da azioni talune ardite, altre subdole operate dagli avversari, che, ad esempio, li hanno colpiti durante i funerali riservati ai capi caduti nei conflitti a fuoco. Dai primi di agosto la morsa talebana s’è stretta sui nemici superstiti. Non facendo, comunque, mancare esplicite trattative: essi avrebbero dovuto scegliere se rientrare fra gli ex compagni oppure esser trattati come le truppe governative. La proposta ha spaccato i miliziani dell’ISPK, alcuni si sono dichiarati disponibili ad avvicinarsi all’esercito di Kabul. E ci sono testimonianze di capi tribali di alcuni villaggi del Darzab che sostengono d’aver visto elicotteri governativi trasferire gruppi ristretti di combattenti e tre capi dell’ISPK in luoghi riparati dall’offensiva talib. Più tardi è giunta una dichiarazione di Mawlawi Habib in persona che s’è detto stanco di guerra e disposto ad accettare i colloqui di pace, sebbene il tavolo maggiore sia rivolto ai talebani, non ai dissidenti come lui. A conferma d’un giro a 360° fra le parti c’è un servizio di Tolo Tv che intervista alcuni jihadisti in questione e sullo sfondo passano tranquillamente militari dell’esercito afghano, i loro probabili liberatori.

In questo viscido quadro, che ha comunque logiche scritte in decenni di presenza di Signori della guerra nelle vicende interne, coi legami etnici, le alleanze di comodo non durature, gli interessi di parte, può rientrare il filo d’unione uzbeko che spiega la mano tesa governativa a questi jihadisti. Ricordiamo che il vecchio boss Dostum, pur provato da qualche problema di salute, è tuttora vicepresidente di Ghani. Quest’ultimo, mentre cerca di giungere alle elezioni di ottobre in un clima diventato roventissimo, farebbe carte false con qualsiasi miliziano pur di provare ai suoi protettori di Washington e agli amici della Banca Mondiale, che il suo esperimento governativo è flessibile e non è fallito affatto. Ora con la sedicente ‘riconciliazione nazionale’ per assegnare un’amnistia, il presidente lancia un discrimine fra coloro che hanno commesso crimini e quelli che non li hanno commessi. Cos’è un crimine nella terra di criminali inveterati promossi capi di Stato da quegli interventi criminosi definiti negli anni: Enduring Freedom, Isaf Mission, Resolute Support è facilmente spiegabile nelle inascoltate parole di chi cerca un Afghanistan libero da ingerenze d’ogni tipo. Voci tuttora ai margini, odiate dai jihadisti d’ogni sponda e dagli altri poteri forti (eserciti d’occupazione, governi fantoccio, potenze regionali) che si spartiscono affari privati in una terra obbligata alla guerra.

Enrico Campofreda

17 agosto 2018
Articolo originale

dal blog di Enrico Campofreda

Arabia Saudita, l’altra faccia di Bin Salman

L’intensissima propaganda attorno alla modernizzazione del suo progetto ‘Vision 2030’, le ripetute visite internazionali, la disponibilità, i sorrisi, l’aspetto gentile accanto alle aperture su permesso di guida, pratica sportiva, accesso al cinema per le donne sono abili meccanismi diplomatico-distrattivi del principe saudita Bin Salman. Già da tempo il delfino di sovrano Saud ha mostrato l’essenza d’un realismo politico bene in linea con la tradizione della petromonarchia: assolutismo e interessi classisti, mire d’egemonia regionale in sintonìa con la geopolitica del Pentagono in fatto di armamenti, repressione para imperialista. Resta solo l’incognita d’una prosecuzione del sostegno al fondamentalismo wahhabita.  Quanto alla Shari’a usata a  strumento di coercizione politica, giunge la notizia della possibile condanna a morte da infliggere a cinque attivisti dei diritti accusati di terrorismo. Fra loro una donna, Israa al Ghomgham, una sciita già nota per azioni di protesta e arrestata col marito nel 2015, che potrebbe diventare la prima condannata di genere in materia.

Il presunto terrorismo su cui si pronuncerà la Corte Criminale altro non è che: incitamento alla protesta, esecuzione di canti e cori ostili al governo, pubblicazione sui social media di immagini e video relativi alle manifestazioni organizzate nel governatorato di Qatif. Eppure tanto basta al magistrato per applicare il ta’zir della Legge Islamica che, sebbene sia rivolto ai reati minori, può a discrezione trasformarsi in pena capitale. Sentenza da emettere entro il prossimo 28 ottobre. Nonostante i ripetuti pronunciamenti di apertura il clima repressivo sembra tornato indietro ai momenti bui della monarchia, quando infiammava la guerra Iraq-Iran e venivano comminate condanne a morte per gli attivisti della minoranza sciita presenti nei Paesi del Golfo. L’Ong Human Rights Watch interessata al caso, chiede a Riyadh e alla comunità internazionale il rispetto della ‘Carta araba dei diritti umani’ che il locale governo ha sottoscritto. Ciò che viene contestato agli attivisti non ha nulla a che vedere col terrorismo, riguarda la libertà di pensiero e d’informazione, perciò anche le Nazioni Unite muovono interrogazioni sul comportamento della corona saudita. Finora senza esito.

Pubblicato 23 agosto 2018
Articolo originale

dal blog di Enrico Campofreda

Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti