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La Turchia si libera dell’emergenza, non dell’ingerenza

  • – di Enrico Campofreda –

Il presidenzialismo assolutista studiato, cercato, ottenuto da Recep Erdoğan con l’ostinazione e il trasformismo con cui ha scioccato il mondo, mette ai suoi piedi tutti i settori del Paese. In questi giorni in cui si prepara un decreto di uscita dall’emergenza post golpe (rinnovata per sette volte nel corso di due anni), ne giungono altri riguardanti gangli economico-finanziari, istituzioni militari e culturali, tutti posti sotto strettissima ‘osservazione’. Vengono addirittura sciolti veri pilastri del laicismo culturale kemalista come l’Opera e i Balletti di Stato, il Teatro di Stato; veranno sostituiti da nuove entità le cui nomine di vertice spettano alla presidenza, non di particolari enti, ovviamente della Repubblica turca. Lo stesso Consiglio Superiore per la vigilanza, che aveva competenze ispettive su istituzioni pubbliche e private, eccezion fatta che per gli ambiti militari e giudiziari, subirà trasformazioni. I controlli s’allargheranno alle stesse istituzioni militari, al di là del rango fino alle alte gerarchie.

Scuole delle Forze armate, la Fondazione dell’apparato della sicurezza, le industrie che si occupano della difesa saranno oggetto delle verifiche del nuovo Consiglio. Il ministero delle Finanze avrà occhio e mani su Banca Centrale, Ziraat Bank e Halkbank, così come una serie di strutture (Agenzia di Supervisione e Regolamento Bancario e simili) verranno gestite dal ministro competente. Un tempo i ministeri coinvolti erano più d’uno. Un controllo ferreo più che dello Stato, del governo e soprattutto del sistema presidenzialista che può collocare uomini di propria totale fiducia nei ruoli chiave. Il settore dell’educazione, terreno in cui il gülenismo del movimento Hizmet aveva creato una rete fittissima di presenze e relazioni fra i suoi adepti, dopo lo stravolgimento operato con migliaia di arresti e decine di migliaia di rimozioni e dimissioni forzate, è in piena ristrutturazione. Le università vedranno collocati ai vertici rettori selezionatissimi, non tanto sul fronte delle competenze, quanto su quello delle obbedienze. Sarà l’occhio del presidente a scegliere i dirigenti degli atenei, per una certezza di omologazione al libero pensiero della nazione turca di modello erdoğaniano.

 

Un sistema al momento assolutamente vincente, e non solo elettoralmente. La forza del leader islamico che si fa nazione sta nella rete di alleanze interne e internazionali. Quelle globali lo hanno riposizionato, dopo la crisi di tre anni fa, nell’aggrovigliato scacchiere mediorientale. Il rapporto cordiale con l’omologo, anche in capo populistico-autocratico, Vladimir Putin, attualmente lo pone in una posizione di forza davanti a Trump medesimo. Che deve sciogliere il nodo delle forniture militari difensive previste dalla Nato (missili Patriot), aggirato dall’accordo per l’acquisizione del sistema russo S-400. Da gran giocatore d’azzardo qual è, per un ripensamento pare che Erdoğan chieda in cambio al presidente Usa la testa (nel senso di estradizione) di Fethullah Gülen. Se il baratto dovesse riuscire – sarà difficile, ma la folle idea vellica la vanità geopolitica del sultano – lui porterebbe al cospetto del popolo turco l’attentore all’unità patria. Un colpo di teatro opposto al colpo di stato. In questo il presidentissimo si supera, quasi giustificando l’ingerenza in materia teatrale.

Pubblicato il 17 luglio 2018
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dal blog di Enrico Campofreda

Elezioni turche, il peso dell’economia

di Enrico Campofreda –

Fra gli avversari che Erdoğan annovera per le doppie consultazioni del 24 giugno, non a caso ampiamente anticipate per evitare scenari più sgradevoli, ce n’è uno difficile da battere: la crisi. Uno spettro che da dieci anni s’aggira con alti e bassi in giro per il mondo, ma che fa più paura in un Paese che tempo addietro pareva immune dalle strettoie che soffocavano economie vicine e lontane. Crescita del Pil a doppia cifra, un po’ come la Cina, la Turchia attirava capitali stranieri e ampliava investimenti interni rivolti a trasporti, con strade e ferrovie e le grandiose opere di cui Istanbul è stata proscenio (linea metro sotto in Bosforo, raddoppio dello stesso canale, ulteriori ponti di collegamento fra sponda occidentale e orientale). Quindi strutture per istruzione e assistenza sanitaria, misure ben accolte da ogni ceto sociale che hanno rafforzato la centralità politica e il seguito elettorale dell’Akp. Ma alcuni segnali già apparsi nel programma economico del partito di governo durante il 2006 si riaffacciarono nel 2013: deficit permanente sulla bilancia dei pagamenti con un bilancio nazionale fortemente dipendente dagli investimenti esteri. Le bolle speculative sul fronte immobiliare che avevano lasciato il segno in tanti Paesi, hanno colpito anche l’orizzonte finanziario turco, la vendita, e svendita, a privati di tanti tesori statali, ben oltre il piano già attuato da liberisti della prim’ora, Demirel e soprattutto Özal.

E il mantenimento, nonostante il balzo in avanti, di talune tare rappresentate da: un tasso di disoccupazione interna (10% fisso) con picchi verso le giovani generazioni e le donne, e dai deficit della bilancia commerciale (importazioni maggiori delle esportazioni, sebbene quest’ultime fossero in gran crescita) e di quella dei pagamenti. Gli economisti sottolineavano come la crescita fosse sostenuta dalla quantità dei consumi, saliti vertiginosamente per nuovi modelli di vita, ma un nazione che spende più di quanto incassa finisce per dover fare i conti con una svalutazione monetaria e la conseguente inflazione. Gli investimenti stranieri hanno per anni tenuto in piedi questo processo, perché scommettevano su una popolazione giovane e desiderosa di competere. Si fidavano d’un modello politico non conflittuale all’interno e all’estero. Era la fase in cui Erdoğan e Gülen andavano a braccetto, demolivano dall’interno l’impianto statale kemalista; il ministro degli Esteri e poi premier Davutoğlu applicava le teorie egemoniche senza creare problemi coi vicini; Erdoğan in persona aveva compiuto il passo della ricerca di pacificazione coi kurdi, combattenti e non. Con la crisi globale del 2008 la lira turca perse il 15% del valore, però governo e Banca centrale operarono misure di salvaguardia rispettivamente diminuendo le imposte e abbassando i tassi d’interesse del 10%. La moneta continuò a circolare, ripresero gli investimenti, sebbene prevalentemente edilizi, dove società come la Toki, che presiedeva gli alloggi pubblici, oppure promotori immobiliari quali Ağaoğlu, lanciavano investimenti a tuttotondo. Il deficit nella bilancia dei pagamenti salì esponenzialmente.

E’ da lì che la svalutazione della lira, che ha angosciato i sonni di tanti turchi nei mesi  scorsi, prendeva un abbrivio lungo (20% nel 2011, 60% fra il 2013 e 2015). Eventi politici hanno ampiamente condizionato il processo in atto: il conflitto sociale di Gezi Park, lo scontro con la Confraternita Hizmet, il ritorno della conflittualità con la comunità kurda, l’azzeramento della sicurezza con la presenza degli attentati terroristici e il tentato golpe. A cui l’uomo-regime ha risposto con la ricetta di repressione e polarizzazione: o con me o contro di me. Una linea molto più che decisionista con cui s’è sbarazzato di antichi sodali e consiglieri (Gülen, Gül, Davutoğlu), s’è spinto in avventure di guerra e competizione globale fra Siria, scontro e confronto con Putin, musi duri (peraltro ricambiati) con l’Unione Europea e gli Usa. Sul piano politico ne è uscito finora vincente, ha incassato un sistema presidenzialista che lo rende più potente di quanto fu Atatürk, ha stretto un patto di convenienza coi nazionalisti che gli garantisce la metà dell’elettorato. Ma la gente, sostenitori compresi, non vivono di simpatie. Erano con Erdoğan perché ne ricevevano migliorie di vita, ma perdere il lavoro o il benessere acquisiti può diventare motivo di rottura del consenso. Ora una zavorra di salvataggio alla nazione, ai cittadini e al presidente stesso è giunta dalla Banca centrale che ha risollevato i tassi d’interesse per contrastare lo sfavorevolissimo rapporto fra dollaro e lira locale. Una boccata d’ossigeno che gli esperti giudicano parziale e limitata nel tempo. Questo non giocherebbe a favore della finanza interna, un voto più lontano sarebbe stato certamente più incerto.

Pubblicato martedì 29 maggio 2018
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Il pianista di Yarmouk in un libro

di Enrico Campofreda –

Il pianista di Yarmouk in un libro

Cosa serve Mozart a noi palestinesi?” chiedeva Aeham al padre mentre questi lo spronava a ripetere qualche cavatina. Erano i primi passi da pianista, il bambino era curioso, il padre un violinista appassionato, il luogo dove si svolgevano le lezioni aveva acquisito solide pareti in muratura. Quando il padre era anche lui un bambino le pareti erano fragili o di lamiera. Ai tempi del nonno non esistevano, si dormiva sotto le tende. Yarmouk è l’immenso campo palestinese a otto chilometri dalla periferia meridionale di Damasco. Lì il padre del padre di Aeham ebbe l’autorizzazione di piantare la tenda nel 1957, assieme a migliaia di palestinesi diventati profughi nove anni prima, a seguito della Nakba. Le autorità siriane acconsentirono alla creazione d’un accampamento non ufficiale che nel tempo è stato gestito dalle Nazioni Unite. In quel posto sono nate almeno due generazioni, palestinesi di Siria che non hanno mai visto la Palestina. Dopo le rivolte della primavera 2011 Aeham ha visto scenari che mai avrebbe voluto conoscere: la scomparsa di amici e familiari, la guerra civile, quella per procura, il fanatismo dei jihadisti, il cinismo dei lealisti di Asad. Un’altra catastrofe. E loro profughi, in mezzo, come tanti altri civili. Non solo Yarmouk è stata sbriciolata dai missili, assediata dalla fame, ma quel che Aeham Ahmad, diventato il celebre “Pianista di Yarmouk”, narra nell’omonimo libro pubblicato in Italia da “La nave di Teseo” è la storia dei mesi d’assedio e della sua visionaria follìa di suonare fra bombe e macerie.

Il rischio di morte si ripeteva in ogni ora di giornate rese drammaticamente uguali dal fanatismo di chi combatteva per la propria supremazia: i fondamentalisti islamici che avevano occupato il campo e le truppe governative che cannoneggiavano per farli sgomberare. Fra i due fuochi una popolazione prigioniera, disperatamente aggrappata alla speranza che l’incubo terminasse. Ai più piccini ossessionati dalle bombe, una mattina in cui il cielo era intensamente azzurro e lindo dal pulviscolo della calce frantumata dalle esplosioni, Aeham regalò la soavità di note classiche. Eseguì brani di Beethoven, e ripensava a quanto utile ai profughi palestinesi potesse diventare Mozart. Dopo la domanda rivolta al papà, il bambino aveva compreso l’importanza di musica e cultura per chi è privato di tutto, e negli attimi in cui la morte s’aggirava per i vicoli di Yarmouk le melodie dolci o frenetiche avrebbero aiutato quella sfortunata grande famiglia di assediati. Quando un amico muscoloso trascinò per via il pianoforte che Aeham aveva in casa, potendo ancora conservare l’uno e l’altra, la gente rimase ipnotizzata dalle note. Dopo vari “concerti” i jihadisti vollero punire il gesto e bruciarono lo strumento. Ma indomiti ragazzi avevano immortalato le esibizioni di Aeham con un video finito sul web, così il mondo conobbe il ragazzo che sfidava bombe con le melodie. Poi, con l’esodo di massa dal campo, anch’egli scappò. Dal 2015 è rifugiato in Germania, vive a Wiesbaden, suona in diversi Paesi sebbene non possegga un passaporto. Glielo consentono la notorietà e l’arte che lo aiuta a vivere. Altri profughi, anche fra i familiari, non hanno questo privilegio e devono sperare che la politica di accoglienza del mondo fortunato non chiuda i battenti.

Pubblicato 11 maggio 2018
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Il pianista di Yarmouk
di Ahmad Aeham
Traduttori:Lucia Ferrantini
Editore: La nave di Teseo, 2018, pp. 348

Prezzo: € 20,00

EAN:9788893444903

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Giro d’Italia, il buco nero dell’informazione

di Enrico Campofreda –

Tutti a parlar di buche, che in una Roma addomesticata dai peggiori politicanti millantatori di cambiamento e propositori di affarismo, ha visto il chiacchierato Froome primeggiare; i corridori frenare e trasformarsi in cicloturisti per non rischiare, uno squarcio via l’altro, l’osso del collo; il pubblico far finta di godersi uno spettacolo che non è stato tale perché una tappa ciclistica non è la scampagnata che ha in mente l’attuale sindaco dell’ignavia seduto in Campidoglio. Dicono, a ragione, gli organizzatori che il fondo degli 11 spettacolari chilometri, su cui la carovana a due ruota avrebbe dovuto girare dieci volte, doveva essere asfaltato da mesi. Virginia Raggi e il suo personalissimo staff hanno applicato il programma che i romani conoscono ormai da un biennio: il nulla condito, nel caso delle strade, da qualche sputo di cemento e pezzatura di catrame seminati qua e là. Oggi i lettori trovano tanti noti colleghi di testate mainstream, sportive e non, a parlar giustamente delle buche delle vie romane che hanno rallentato i pedalatori professionisti e dei buchi nei piani di politici inadeguati non solo per una buona amministrazione, ma semplicemente per un’ordinaria lista delle urgenze che sui sette colli sono diventate alture insormontabili. Però i media e i loro operatori in questo Giro che doppia il centenario, ed è stato portato nelle prime battute a Gerusalemme, hanno evidenziato il proprio stratosferico buco al compito che gli compete. Un buco nero nel quale s’è persa o viene omessa la finalità primaria del ruolo: informare raccontando quel che accade.

Così nel rievocare le gloriose storie delle due ruote in rosa, visto che si partiva dalla Città Santa non c’è stata alcuna contestualizzazione su chi (Israele) con l’occupazione militare nel 1967 ha violato tale santità, anche della propria religione. Qualcuno obietterà che non c’entra nulla, invece c’entra eccome. Dipende dal senso che si vuol dare alla cronaca. Nell’inquadrare soldati coi mitra spianati s’è detto delle ragioni di sicurezza, tralasciando l’insicurezza e la morte che negli stessi giorni i commilitoni di quei militari spargevano in un altro angolo della Palestina lacerata e umiliata con la creazione dello Stato di Israele. A Gaza morivano più di cento cittadini che manifestavano ricordando il diritto al ritorno sulle proprie terre, mentre i finanziatori del Giro sbarcato nella Palestina storica più i suiveurs che lo stavano narrando, ricordavano il giusto Bartali, salvatore di ebrei perseguitati, ma non spendevano una parola per rammentare ciò che accadeva attorno alle strade riempite dal ticchettìo armonico di cambi e catene. Nel mondo disarmonico di un’informazione non dedita ai fatti, ma schiacciata sugli interessi di editori più politici che imprenditori e di direttori e cronisti asserviti alle due tipologie citate, non c’è spazio neppure per brandelli di racconto per offrire un servizio al lettore, figurarsi per un percorso di verità. Il settorialismo sotterra la cronaca, così chi doveva descrivere le tappe nei Territori occupati parlava esclusivamente di scatti e tempi, senza soffermarsi neppure un attimo sui luoghi e il contorno.

Del resto se già in partenza mancava, e non pensiamo involontariamente, la riflessione del motivo per cui il Giro dovesse sostenere il piano d’Israele di condire con un simile evento internazionale  la celebrazione del 70° anniversario della sua nascita come entità statale, non ci meravigliamo, ma lo denunciamo, che tanti colleghi abbiano taciuto la presenza lungo il percorso della Corsa Rosa rientrata nella penisola, di dimostranti pro palestinesi. Rumorosi con slogan, visibili con bandiere coloratissime, seppure compressi da manipoli di poliziotti in borghese e tenuti lontani dai traguardi dove si concentrano telecamere e obiettivi. Spiace che troppe camere e flash e taccuini si siano disinteressati d’una presenza, ovviamente politica, che parlava di Palestina e dei diritti calpestati di questo popolo. La contestazione della linea criminale spacciata da Israele come autodifesa diventa una conseguenza dei discorsi di tali attivisti. E costoro, possono piacere o no, erano presenti a bordo strada. In gruppi talvolta sparuti, tal altra più numerosi, dicevano la loro, ma sono stati ignorati da un’informazione che non vuole informare e punta a presentare una realtà di comodo, secondo princìpi ben lontani dalla deontologia. Nel termine, rivendicato da chi svolge questo mestiere, il discorso è unito al dovere cui si è tenuti a rispondere. Per coscienza, per morale o semplicemente per coerenza col ruolo prescelto. Un ruolo principalmente di servizio, ancor più se pubblico. Poi, nella neutralità assoluta che non esiste, ogni operatore dell’informazione ha opinioni proprie e magari può esprimerle a commento. Quel che diventa insostenibile è celare la realtà. Tutto ciò nel giornalismo diventato propaganda è un comportamento purtroppo diffuso. E’ quel cancro che trascina in un abissale buco nero non solo l’informazione, ma la stessa esistenza professionale.

Pubblicato lunedì 28 maggio 2018
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Kabul, l’esasperazione della morte

Trappola mortale stamane nella Kabul diventata obiettivo dell’Isis afghano. Un kamikaze s’è fatto esplodere presso l’edificio che ospita la locale Intelligence (Nds) posto nell’area attigua a Shah Rarak Road, una via parallela dell’enorme stradone che conduce all’aeroporto cittadino, peraltro controllatissimi. Si trattava di un’esca. Sul luogo dell’attentato accorrevano, come di consueto, autombulanze e personale sanitario più un manipolo di giornalisti. E naturalmente le forze dell’ordine. Dopo una ventina di minuti nello stesso luogo un secondo kamikaze, mescolato fra le presenze che s’aggiravano fra i rottami, azionava il detonatore della cintura esplosiva nascosta sotto gli abiti provocando una strage peggiore. Fra le vittime, assieme ai passanti colpiti nella prima deflagrazione, si contano soccorritori e nove giornalisti. Un comunicato del ministero della Salute parla di venticinque cadaveri e una cinquantina di feriti, alcuni dei quali in condizioni disperate. I nostri contatti in città riferiscono una situazione scioccante, perché oltre a seminare sangue e lutti, infonde un livello d’insicurezza assoluto, che indurrebbe a restare rinchiusi in casa in una situazione in cui muoversi è indispensabile per la stessa sopravvivenza ordinaria.

L’esasperazione della morte, indirizzata solo parzialmente alla cieca, quando colpisce gli sciagurati che si trovano a transitare nel luogo e nel momento dell’attentato, segue invece un piano che ha una strategia ben congegnata. Seppure le regìe possono essere varie. La prima è attribuibile ai gruppi talebani dissidenti che usano il marchio dello Stato Islamico del Khorasan, che hanno rivendicato la strage. Costoro si rivolgono principalmente contro il governo Ghani e i suoi apparati della sicurezza, e indirettamente contro i talib della Shura di Quetta, e i suoi momentanei alleati del network di Haqqani, sempre passibili quest’ultimi di trasformismi itineranti. I motivi sono: la supremazia sul territorio, con tutti gli interessi economici di contorno, e la palma della resistenza antioccidentale. Nella strategia stragista incidono pure le aperture fra governo afghano, Cia e i talebani disponibili a trattative per entrare nel governo. Un quadro, in ogni caso, instabile e cangiante da mese a mese. Sempre attiva l’altra regìa, attuata da Servizi pakistani, che usano la destabilizzazione afghana, sotto ogni forma, provocata oggi dalla corsa agli attentati, in altre fasi dalla guerra civile, per ottenere una frammentazione del territorio in zone controllate da soggetti diversi (come di fatto sta accadendo negli ultimi anni) per poterne trarre vantaggi geopolitici nel confronto-scontro su quel tratto di Medioriente con Iran e Arabia Saudita.

Non potendo essere costantemente in quei luoghi, come altri colleghi ci serviamo del lavoro coraggiosissimo di corrispondenti locali, raccolti in una rete di collaborazione con testate internazionali come Reuters e Afp. Oggi piangiamo questi cronisti dal fronte, si chiamavano Ghazi Rasooli, Ali Rajabi oppure Shah Marai. Come dicevamo accorsi sul luogo dell’attentato ed esplosi con la seconda bomba. A differenza di sfortunati passanti, loro non erano lì per caso, si trovavano nel luogo dove il reporter va per raccontare eventi spesso tragici dalle logiche perverse. Come perversa sa essere tanta geopolitica. Questi giornalisti non erano propagandisti, raccontavano ciò che vedevano, in molti casi lo facevano da free lance, perché anche grandi agenzie d’informazione come quelle citate, non danno garanzie (non tanto d’una sicurezza fisica che in quelle situazioni non può esistere) ma sulla stessa retribuzione del prodotto di tanto lavoro e rischio, in un mestiere che più gli editori che la tecnologia hanno deregolarizzato. Grazie al certosino impegno di questi reporter il mondo che impazza attorno a progetti di morte viene narrato, filmato, fissato in istantanee. A rischio della vita. A questi comunicatori la terra è lieve già quando ne divulgano i fatti, poiché se le parole e le immagini possono essere pietre, quelle dell’informazione libera da imposizioni editoriali e di regime hanno la speciale virtù dell’impegno finalizzato a una causa.

Pubblicato 30 aprile 2018
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dal blog di Enrico Campofreda