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Psichiatria e politica

Franco Basaglia ce lo aveva insegnato: la psichiatria afferisce non solo alla medicina, ma anche alla politica. Quello che non poteva immaginare è che si realizzasse anche l’opposto: che fosse la psichiatria a occupare il vuoto lasciato dall’analisi politica. A capo del neonato partito anti-islamizzazione (PAI) c’è infatti uno psichiatra criminologo, Alessandro Meluzzi. La fondazione del suo partito è curiosamente simmetrica e contemporanea a quella del suo omologo, il futuro Partito islamico, che è perlomeno promosso da una persona accreditata: Roberto Hamza Piccardo, l’ex esponente dell’Unione delle comunità islamiche italiane (Ucoii). Il 2 luglio, in via Maderna a Milano, si è riunita la Costituente islamica di cui Piccardo è segretario. Un’assemblea che, secondo l’ex esponente Ucoii, “vuole dare una rappresentanza democratica ai circa 2,6 milioni di musulmani italiani”. Chi pensava di guadagnar voti con l’approvazione dello Jus soli ha fatto male i calcoli: i gruppi etnici o religiosi si organizzano da soli, come del resto proprio in Italia insegna l’esempio della Sudtiroler Volkspartei.

L’iniziativa di Meluzzi ha in realtà un inquietante precedente: anche Radovan Karadzic’ era uno psichiatra. Vi rinfresco la memoria: presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal 1992 al 1996, politico e criminale di guerra condannato nel marzo 2016 a 40 anni di reclusione in primo grado dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia per genocidio (a Srebrenica), crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante l’assedio di Sarajevo e le altre campagne di pulizia etnica contro i civili non serbi durante la guerra in Bosnia. Sia chiaro: Meluzzi e Karadzic’ sono due persone diverse (per fortuna!), ma la loro coincidenza professionale è più di una curiosità.

Intanto, il dissenso politico verso l’islamismo è etichettato con una parola che non afferisce alle categorie della politica ma della psichiatria: islamofobia, esattamente come l’ostilità verso i gay è bollata come omofobia. Se io sono contrario all’islam politico perché difendo lo Stato laico, i diritti delle donne e la democrazia parlamentare sono forse un malato di mente? L’unica che affrontò il problema solo apparentemente semantico fu qualche anno fa l’antropologa Ida Magli, oggi ingiustamente dimenticata. In sostanza disse che nelle democrazie post-moderne il dissenso politico non ha un reale diritto di cittadinanza nel conformismo generale. Da qui etichette di comodo, come populismo, che scredita l’avversario ma non ne analizza le reali, profonde motivazioni.

Ma torniamo alla psichiatria. Proprio alla luce delle etichette di cui sopra, la spiegazione del paradosso è definibile come un rovesciamento: se tu non accetti o non capisci la mia opposizione politica e mi screditi come instabile mentale, allora io ti dimostro il contrario: sono uno psichiatra, quindi i pazzi veri li curo io. Le Brigate Rosse, l’OLP e l’ISIS, pur praticando il terrorismo, hanno sempre accusato lo Stato di terrorismo, ribaltando così l’accusa. E Karadzic’ trasformò la sua Bosnia-Erzegovina in un enorme manicomio a cielo aperto, dove l’opposizione al “paradiso” serbo era per l’appunto una malattia mentale.

 

Balcani: La dissoluzione di una federazione

Sono bastati una decina d’anni per dissolvere la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia che per una trentina d’anni Tito, con pugno di ferro e una politica sociale, era riuscito a tenere unità nella sua differenza culturale e religiosa, ma con la sua morte, nel 1980, hanno prevalso le diffidenze che si sono trasformate presto in acredine e poi con l’astio che raggiunge l’odio.

Tanti figli adottivi che vedono, con la morte del loro “padre” Tito, finire uno stato che garantiva a tutti un’istruzione e uno stato sociale. La paura di perdere delle garanzie che vennero poi amplificate dalla guerra intestina per la successione, trasformandosi in affermazioni personali con l’inneggiare alla separazione da Belgrado.

Fù un paternalistico ferreo pugno del socialismo “reale” ad aver tenuto coesi differenti popoli per la religione e la cultura di riferimento che componevano il mosaico jugoslavo di allora ed ora, a più di vent’anni dalle Guerre Balcaniche, potrebbe essere il Capitalismo ha mettere in secondo piano i privati convincimenti per poter ampliare le prospettive lavorative.

L’astio per un’identità persa con la scomparsa della Jugoslavia ha portato a confondere la religione professata con un’etnia di appartenenza essendo in gran parte legati al ceppo slavo.

Niente più istruzione garantita, lo stato sociale dissolto, la pensione inconsistente, il lavoro di prestigio sempre pertinenza del gruppo sociale dominante nell’area.

È difficile pensare che il Maresciallo Tito potesse immaginare che la sua scomparsa innescasse una reazione a catena, popolazioni invogliate lasciare le loro case per rendere “culturalmente” omogenee le città e le campagne, per evitare una presenza a macchia di leopardo in zone croate, bosniache e kosovare.

La Slovenia si è tenuta lontana dai conflitti, la Serbia ha subito i bombardamenti della Nato, la Macedonia è in cerca di un futuro e il Montenegro cerca di uscire una reputazione di stato malavitoso al pari del Kosovo per il contrabbando e il traffico di stupefacenti, armi e quant’altro.

Un conflitto di stragi e distruzioni culturali, di eccidi e fosse comuni, di monasteri ortodossi, chiese cattoliche e mosche fatte saltare come il ponte di Mostar o l’annientamento della Biblioteca nazionale di Sarajevo che solo nel 2014 si potrà scoprire, con il completamento del recupero, a cosa sarà destinato l’edificio austro moresco che ha perso milioni di libri.

È la nostalgia di quell’epoca dove lo Stato pensava a tutto, anche alla Libertà, e l’invenzione della Jugoslavia  come uno stato federale che appariva come una unica comunità, che a Lubiana si propone una mostra, visitabile sino al 28 febbraio 2014, Tito: il volto della Jugoslavia , con oggetti provenienti dal Museo della Storia della Jugoslavia di Belgrado. Una storia che nel Terzo millennio si mostra in equilibrio tra marchio commerciale o icona politica nel rileggere la figura di Tito.

Una memoria che non resta affidata solo alle testimonianze esposte nella mostra o custodite al Museo della Storia della Jugoslavia di Belgrado, ma anche per le strade di Sarajevo con il Bar Mi smo Titovi Tito je nas (Noi siamo Tito, Tito è noi). Il bar, vicino al Museo storico di Sarajevo, rappresenta un Memoriale e un monito con le numerose immagini e busti dedicati a Tito che arredano l’interno, mentre all’esterno armamentari bellici fanno scenografia ai tavolini degli avventori e su tutto regnano le varie tonalità di rosso.

Sarajevo è sicuramente il simbolo della città martire, con l’assedio subito per 43 mesi e il viale dei cecchini, come Sebrenica lo è per uno degli eccidi dei Balcani.

Dalle macerie di una Bosnia, governata da una forma di triunvirato, la speranza di una ritrovata unità d’intenti, superando momentaneamente ogni divisione religiosa germoglia dalla favola dell’ottenuta la qualificazione ai Mondiale di Calcio 2014 in Brasile.

Un’unità d’intenti che la squadra ha dimostrato di poter perseguire, superamento le diffidenze religiose, sperando nell’archiviazione dei treni come quello che collega Sarajevo a Belgrado, con i suoi tre comparti per la separazione confessionale, nonostante sia fondamentalmente lo stesso Dio.

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