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Syria Crisis- Giochi pericolosi

Talune forze, negli Stati Uniti, proprio non accettano le sconfitte e come dei bambini, in preda al peggiore dei capricci, iniziano a scalciare per ripicca ora a destra ora a sinistra. Se non fosse un film già visto ci si dovrebbe veramente preoccupare e vivere queste ultime ore che mancano all’ecatombe planetaria come se fossero gli ultimi istanti della nostra esistenza e quindi facendo tutto ciò che non ci è stato possibile fare fin’ora, ma fortunatamente non siamo ancora all’Armageddon.

Infatti, esattamente un anno fa, Trump, come oggi, era fortemente assediato per il cosiddetto Russiagate e per smorzare i toni in madre patria, verso la sua presunta russofilia, non trovò niente di meglio da fare che attaccare, nella provincia di Homs, alle 03:45 (ora di Damasco) del 07 aprile 2017, con 59 missili “Tomahawks”, la base aerea di Shayrat da cui sarebbe partito, il 04 aprile dello stesso anno, il presunto raid chimico del regime di Assad verso gli inermi civili di Khan Shaykhun. Raid che, è bene ricordarlo, allora come oggi, sarebbe avvenuto in una fase in cui l’Esercito Arabo Siriano era nettamente in vantaggio, perciò, cui prodest? Ai siriani lealisti di sicuro no!

Comunque sia, a fine operazione, gli americani avevano distrutto solo 6 vecchi Mig-23 e causato poco più di dieci vittime. Un attacco, insomma, a bassissima intensità, infatti solo 23 missili, dei 59 “Tomahawks” lanciati, raggiunsero il bersaglio, ma ciò fu sufficiente al Tycoon per avere un po’ d’ossigeno.

Nell’immediato i rapporti tra le due superpotenze sembrarono essere peggiorati di molto tuttavia – dopo che in un sol colpo il Presidente Putin è riuscito a costruire un asse tra la Turchia di Erdogan e l’Iran, chiudendo così positivamente anche la partita in Siria – gli Stati Uniti avevano annunciato, in data 07 aprile 2018, che si sarebbero ritirati dalla Siria a meno che l’Arabia Saudita  (Paese che mal vede più di chiunque altro il proseguo del regime di Assad in quell’area) non si fosse sobbarcata totalmente il costo del mantenimento delle truppe americane in Medio Oriente. In altri termini Washington sembrava aver riconosciuto ed accettato, la vittoria di Mosca e dei suoi alleati, in quella porzione di mondo, ma mentre accadeva ciò altre tegole stavano per cadere sulla testa di Trump:

  • In primis con il cosiddetto “datagate” che vede coinvolti: Steve Bannon, ex Capo stratega della Casa Bianca nonché ex VicePresidente della società Cambridge Analytica; la Cambridge Analytica, società che combina il data mining, l’intermediazione dei dati e l’analisi dei dati con la comunicazione strategica per la campagna elettorale; e Facebook, uno dei maggiori social network mondiali, in quanto responsabili dell’aver influenzato e falsato il risultato delle ultime elezioni presidenziali americane;
  • Secondariamente con il “Sexgate” che vede coinvolti, in un giro di relazioni di fuoco: la pornostar Stormy Daniels; l’ex modella di Playboy Karen McDougal; e l’avvocato Michael Cohen. Quest’ultimo avrebbe provveduto a comprare il silenzio delle due signore pocanzi nominate per conto di Donald Trump.

Ora, questi due eventi, in un America così puritana e russofobica, alle soglie delle elezioni di medio termine, potrebbero seriamente mettere nei guai il Presidente Trump ed allora cosa mai potrebbe fare il Tycoon per distrarre l’opinione pubblica, assecondare le lobby militari ed i nemici interni al Partito Repubblicano, se non organizzare un attacco in grande stile verso i “cattivoni” siriani rei nuovamente di aver usato delle armi di distruzione di massa contro la popolazione inerme?

Detta così potrebbe sembrare anche un’idea geniale, degna di Niccolò Machiavelli, ma, si sa, non è cosa saggia giocare con il fuoco perché, pur non volendo, l’incendio potrebbe pur sempre divampare e, in quel caso, chi potrà mai fermarlo?In fondo, Putin, per quanto sia un uomo dai nervi d’acciaio, è pur sempre un essere umano e, in quanto tale, anche la sua pazienza ha un limite. Pazienza che è già stata fortemente messa alla prova a seguito delle false accuse mosse dal Governo britannico, nei confronti del Cremlino, riguardo l’avvelenamento di Serghej Skripall e di sua figlia Yulia, a Londra, per mano di alcuni agenti russi. 

In questo frangente la risposta di Putin a tanta infamia ed alle espulsioni dei propri diplomatici, fu perfettamente simmetrica e 150 diplomatici occidentali furono costretti ad abbandonare il territorio della Federazione Russa. Se in tal modo a volare furono solo le “Feluche” ora rischiamo concretamente che a librarsi nell’aria siano oggetti ben più pericolosi. E tutto questo potrebbe avvenire solo ed esclusivamente perché il Presidente degli Stati Uniti, chiunque esso sia, è prigioniero:

  • del proprio ruolo;
  • di fortissimi gruppi d’interesse;
  • delle lobby degli armamenti. 

Tutte questioni che, a noi italiani poco interessano o meglio, dalle quali, per la nostra posizione geografica e per la nostra storia, non possiamo che avere solo influssi negativi. Di conseguenza ci conviene continuare ad essere alleati degli Stati Uniti? La risposta, a questo punto, è chiaramente no! E, a tal riguardo, venuto a sapere della domanda del reggente del PD, Maurizio Martina, rivolta al leader del Carroccio in merito al fatto se: << Salvini vuole cambiare le alleanze internazionali del nostro Paese? Se è così, lo dica chiaramente >> mi sento in dovere – pur non essendo il leader della Lega, ne legato a quest’ultimo in nessun modo e ne conoscendo il suo pensiero più recondito – di rispondergli in qualità di puro sovranista con un’altra semplice domanda: << Caro Martina, ma se non ora, quando? … Cosa e quanto, dovremo ancora aspettare per comprendere che continuando a seguire l’Europa, l’Euro e la Nato ben presto ci ritroveremo nel baratro più profondo? >> 

Persino un euro/atlantista convinto come il Senatore forzista Paolo Romani si è reso conto dell’inconsistenza delle accuse americane tanto da dichiarare che: “nel momento in cui i ribelli jihadisti di Duma si stanno per arrendere, immaginare che Assad abbia utilizzato armi chimiche, che avrebbero scatenato di sicuro la reazione internazionale, oltre a essere inutile sarebbe un’idea stupida >> e c’è chi, come Lei, crede ancora a queste fandonie? In tal caso le questioni sono due: o chi sostiene posizioni filoatlantiste è in mala fede o non è in grado di leggere la realtà che lo circonda, e, in entrambi i casi, ciò può denotare solo una cosa: una grave incompatibilità con il ruolo che riveste, ergo non è degno di sedere in Parlamento. 

Pertanto il mio appello – come semplice cittadino, rivolto a tutto l’arco costituzionale – è quello che si uniscano tutte le forze di buona volontà affinché, nell’immediatezza della crisi, l’Italia non partecipi in alcun modo a nessuna azione militare in Siria, ne inviando truppe o mezzi, ne mettendo a disposizione le proprie basi. 

Anzi il nostro Paese, anche attraverso l’ausilio della diplomazia vaticana, dovrebbe farsi carico di una Conferenza di Pace per tentare di risolvere la Guerra Civile Siriana.

12 aprile 2018
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Flat Tax aumenta le disparità: lo dimostra la Russia di Putin

 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

La flat tax, di cui tanto si parla in questa campagna elettorale, non è la parola magica per la giustizia fiscale del nostro paese. Anche se non è la cattiva parola da demonizzare tout court. I limiti e gli obblighi costituzionali non si possono ignorare. Nel caso, quindi, di una sua eventuale e deprecabile introduzione, sarà necessario individuare meccanismi di deducibilità che rendano effettivo il principio della progressività.

È doveroso prima di ogni decisione valutare quanto è accaduto e accade nei paesi in cui la flat tax è stata introdotta. Il caso emblematico ci sembra quello russo, dove le famiglie povere e quelle indigenti sono fortemente aumentate tanto da spingere le masse delle periferie urbane e i residenti nei territori rurali a chiedere di rivedere il sistema fiscale, introducendo forme di progressività nella tassazione.

In Russia, com’è noto, nel 2001 Putin, al suo primo mandato, introdusse la tassa fissa del 13% per tutti, ricchi e poveri, singoli e imprese, aziende produttive e società dubbie. Egli aveva raccolto un paese in ginocchio, devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporation e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998.

E quel che era più grave, c’era una generale sfiducia. Nessuno aveva fiducia nel rublo, nessuno pagava le tasse, o per corruzione o per indigenza. I cosiddetti oligarchi «spostavano» centinaia di miliardi di dollari a Londra o nei paradisi fiscali. Perciò la tassa del 13% servì anzitutto a riportare un certo ordine e un po’ di razionalità nel sistema economico. Fu il modo per garantire un minimo di stabilità politica e un minimo di entrate fiscali.

Pertanto il vero motore della ripresa russa, più che la flat tax, è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche, del petrolio e del gas, le cui riserve, insieme alle altre ricchezze naturali, sono enormi.

Per anni, la Russia ha incassato elevate fatture dalla vendita di crescenti quantità di risorse energetiche. Nel frattempo si è frenata in qualche modo sia la corruzione sia la fuga dei capitali. Si ricordi che in questi anni la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita di petrolio e gas ha garantito entrate davvero eccezionali. Tanto che nel 2008 il classico barile di petrolio ha toccato la vetta di 150 dollari!

L’andamento della diseguaglianza. Il 10 percento della popolazione arriva a detenere il 56 percento degli introiti nazionali per anno in India; in Canada, USA e Russia detiene circa il 45 percento degli introiti annui. Nei Paesi dell’Unione Europea la diseguaglianza è relativamente più contenuta.

Oggi, però, la Russia, come altri paesi, sta vivendo una crescente e pericolosa ineguaglianza economica e sociale. Soprattutto dopo le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio. C’è un recente studio del Credit Suisse in cui si dimostra come la Russia sia uno dei più «disuguali» paesi del mondo: il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza della nazione. L’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari.

Anche la situazione della tanto decantata Ungheria merita un’attenta disamina. Il paese, si ricordi, è entrato nell’Unione europea nel 2004 mantenendo però la sua moneta nazionale, il fiorino.

Con una popolazione di 10 milioni di persone, nel 2008 aveva un pil di 157 miliardi di dollari a prezzi correnti. A seguito della crisi globale, nel 2011 il prodotto interno scese a 140 miliardi e nel 2012 a 125.

Nell’ultimo periodo ci sono stati dei miglioramenti nell’economia magiara, trainata dalla piccola ripresa europea e soprattutto dall’attivismo industriale della vicina Germania.

Non sembra che l’introduzione della flat tax del 16%, avvenuta nell’anno 2001, abbia aiutato la ripresa e le crescita in Ungheria. Ciò che ha invece veramente aiutato Budapest a mantenere una certa stabilità sono stati gli aiuti rilevanti da parte dell’Unione europea e la sua partecipazione al mercato unico europeo.

Gli aiuti sono stati riconfermati anche recentemente: dal 2004 al 2020 l’Ungheria riceverà da Bruxelles sovvenzioni per complessivi 22 miliardi di euro, cioè oltre 3,5 miliardi l’anno. Sono soldi che provengono anche dall’Italia, nonostante la forsennata propaganda magiara anti euro e anti Unione europea.

Si ricordi che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Ue con ben 20 miliardi di euro e ne riceve 12. Gli 8 miliardi rappresentano il contributo netto dell’Italia. Se fossimo trattati come l’Ungheria dovremmo ricevere, in proporzione alla popolazione italiana che è 6 volte quella magiara, aiuti da Bruxelles per 22 miliardi di euro ogni anno. Altro che flat tax!

(Questo articolo è pubblicato in Italia Oggi del 16-02-2018)

Pubblicato il 17 febbraio 2018

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Gli studenti sfidano Trump e la Nra: Davide contro Golia?

Di Domenico Maceri

“Non si tratta di armi per legittima difesa. Sono armi di guerra. Non posso immaginare com’è possibile comprarle”. Queste dice Sam Zeif, studente del quarto anno del liceo Douglas di Parkland, Florida, dove 17 persone sono state massacrate il 14 febbraio 2018 da un assassino con un AR-15, un fucile semiautomatico. Zeif parlava  alla Casa Bianca dove era stato invitato dal presidente Donald Trump in una riunione che includeva un gruppo di ragazzi sopravvissuti, genitori e maestri con legami alle vittime delle stragi di Columbine (1999) e Sandy Hook Elementary School (2012). Una delle vittime del liceo in Florida era il miglior amico di Zeif.

L’incontro alla Casa Bianca doveva dare il segnale che  Trump prende seriamente la tragedia di Parkland. Il presidente aveva inizialmente suggerito alcune misure per ridurre i pericoli delle armi da fuoco specialmente quando vanno a finire nelle mani di individui con disturbi mentali. Il 45esimo presidente aveva anche detto che favoriva si eseguissero controlli sui precedenti di voglia acquistare armi da fuoco. Inoltre aveva dichiarato la sua opposizione al “bump-stock”, un meccanismo che converte un fucile semiautomatico in automatico, capace di sparare da 400 a 800 colpi al minuto. Questo tipo di meccanismo era stato usato nella strage di Las Vegas, nell’ottobre del 2017 dove 58 persone hanno perso la vita. L’individuo arrestato per l’attentato in Florida non ha usato questo meccanismo, ma si ritiene che abbia seri problemi mentali.

Dopo pochi giorni però Trump è ritornato sui suoi passi auspicando misure che rientrano nella filosofia della National Rifle Association (Nra), che ha contribuito 30 milioni di dollari alla sua campagna presidenziale. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha dichiarato che i maestri dovrebbero essere addestrati e portare armi da fuoco  a scuola per potere proteggere i loro studenti in caso di situazioni di pericolo. Trump ha spiegato che se l’allenatore di football morto al liceo Douglas di Parkland mentre difendeva i suoi studenti fosse stato armato avrebbe potuto evitare la tragedia. Esattamente come ha detto spesso la Nra che per fermare un uomo cattivo armato ce ne vuole uno buono anche lui armato. Le scuole sono per Trump e la Nra facili bersagli, per la mancanza di personale armato che fermi gli aspiranti assassini.

Si tratta di prese di posizione smentite dai fatti. Nella scuola di Parkland c’era una guardia armata che però è rimasta nscosta per 4 dei 6 minuti della sparatoria. Non si conoscono tutti i dettagli ma potrebbe darsi che la guardia abbia avuto paura di dovere affrontare un individuo armato con fucile mitragliatore. Credere che addestrare maestri armandoli per sparare contro potenziali assalitori armati fino ai denti è illusorio. In situazioni di stress solo il 18 percento delle pallottole sparate dai poliziotti riescono a centrare il bersaglio. Farebbe meglio un maestro?

Dopo ogni strage del genere i politici non vogliono offrire soluzioni, si concentrano invece sulle preghiere e sui sentimenti di cordoglio per le famiglie. Una buona maniera per guadagnare tempo e poi riprendere la vita normale come se nulla fosse accaduto. Questa volta  però gli studenti si sono organizzati. Si sono mobilitati con manifestazioni riprese dai media locali e nazionali. Più di 200 sopravvissuti a Parkland si sono recati alla sede della legislatura di Tallahassee, capitale della Florida, forzando un voto sulle armi da fuoco. La legislatura, dominata dai repubblicani, ha sfortunatamente votato contro (71-36): in cambio ha approvato una risoluzione sui pericoli della pornografia… Gli studenti però non si arrendono. In diverse parti degli Stati Uniti si sono mobilizzati richiedendo incontri con politici per bandire fucili semi-automatici. Si preparano scioperi degli studenti in tutto il Paese il 14 marzo 2018 e una marcia a Washington D.C. dieci giorni dopo.

Tutte queste attività e la concentrazione dei media sulla questione hanno ovviamente attirato la reazione della Nra e dei suoi sostenitori, che ribadiscono l’importanza di difendere il secondo emendamento che sancisce il diritto del possesso armi.

Il problema però è la definizione di armi. Quando il secondo emendamento fu scritto, “armi” voleva dire un moschetto che sparava una pallottola. Adesso le armi sono molto più pericolose e il governo ha tutti i diritti di limitarne l’uso e di stabilire in che luoghi siano legali. Non si viola dunque il secondo emendamento quando si proibiscono le armi negli aeroporti, nel Congresso,nei tribunali e in altri luoghi. Né esiste la completa libertà di ottenere carri armati o mitragliatrici, che sono strettamente di uso militare. Persino Antonin Scalia, giudice conservatore della Corte Suprema, aveva scritto che il diritto del possesso armi ha i suoi limiti.

Trump ha abbracciato la Nra dichiarando i suoi membri “grandi patrioti”, suggerendo che i loro avversari non lo sono. Wayne LaPierre, leader della Nra, ha continuato ad attaccare i suoi detrattori etichettandoli come “socialisti stile europeo” che “odiano la libertà individuale e il secondo emendamento”. In realtà coloro che si oppongono alla facile disponibilità di armi da fuoco vogliono che anche in America si raggiunga il basso livello di sparatorie che si registra in Europa ed ovunque le armi da fuoco sono difficili da ottenere.

Pubblicato il 27 febbraio 2018

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Globalismi e populismi: la crisi della diseguaglianza

Di Leonardo Servadio

Crescono le disparità. Tutti i giornali parlano del rapporto Oxfam, organismo di base a Oxford il cui scopo è contrastare la diseguaglianza nel mondo. L’uno percento dei più ricchi – ha scoperto Oxfam – possiede quanto il restante 99 percento e negli ultimi anni questa disparità è cresciuta. Nei circuiti finanziari i profitti crescono a dismisura per chi ha capitali sufficienti per entrarvici.

Il rapporto propone che si stabiliscano norme per contenere la diseguaglianza e tra l’altro denuncia la disparità di guadagni tra i direttori delle società e i lavoratori (l’esempio eclatante è quello del CEO della più importante azienda di informatica indiana che incassa 416 volte il salario medio degli impiegati di tale società). Il rapporto Oxfam è ampiamente elaborato con dovizia di fonti: va letto e studiato per questo lo rendiamo qui disponibile: 

Download (PDF, 864KB)

Cerchiamo di svolgere alcune considerazioni in relazione a quanto vi è detto.

Come esposto nel rapporto, sono molto chiare le caratteristiche della mastodontica diseguaglianza di cui soffre il mondo. Me nessuno fa nulla al riguardo: perché?

Perché per poter attuare misure atte a contrastare il fenomeno occorrono due condizioni che risultano impossibili per come il mondo è oggi strutturato:

Anzitutto sarebbe necessario che vi fosse una singola autorità capace di imporre regole (ovvero, che formuli tali regole e che abbia la forza di farle rispettare) a livello mondiale: sovranazionale. Se l’ingiustizia è globale, per contrastarla non si può non operare a livello globale. Per il semplice motivo che le grandi società operano sulla scena mondiale, non sono “geolocalizzate”. Non solo, gli strumenti attraverso i quali operano non sono geolocalizzabili: hai voglia a cercare di far pagare a Google le tasse sui profitti che ricava in un qualsiasi paese, se la sua sede legale si trova dove non si applicano imposte plausibili e se non v’è modo di contrastare la sua presenza ovunque diffusa – tra l’alto perché fa comodo a tutti e ovunque sia disponibile: è un motore di ricerca di ottima qualità e gratuito.

Ma il caso di Google in fondo non è tra i più significativi, tra l’altro proprio perché è molto ben visibile. Mentre le investment companies e banche che operano sui mercati mondiali hanno bensì dei terminali visibili, ma perlopiù agiscono tramite le decine di mercati offshore e comunque con transazioni online, oggi in gran parte gestite da programmi automatizzati studiati per massimizzare i profitti sul brevissimo periodo. Sono decisamente invisibili.

L’attività di investimento finanziario è da tempo totalmente estranea alla logica economica (si ricordi, per inciso, che “economia” vuol dire “amministrazione della casa” e si riferisce all’insieme di beni fisici atti a garantire il benessere degli abitanti): non mira a far crescere economie definite secondo territori o popolazioni, ma solo a far aumentare i profitti computabili in denari. E quanto più questi denari sono numeri registrati in memorie volatili di reti di computer, tanto maggiori sono.

Poi ovviamente tali capitali possono a volte calare, con la stessa logica del falco che caccia la propria preda precipitandovisi dall’alto, sulle economie territorialmente definite e in tal modo incidono su quel tipo di economia che ha a che vedere con i livelli di vita delle persone: in meglio o in peggio. Ma si tratta di casi secondari: la logica trainante è l’astratto profitto.

La creazione del Bitcoin e di tutte le altre criptovalute che ne seguono l’esempio – e che aumenteranno di numero sempre di più – è una delle espressioni di questo mondo che predilige l’astrazione del potere monetario alla concretezza del bene utile. È noto che uno dei segreti del successo delle criptovalute è che costituiscono un facile sistema di riciclaggio del denaro derivante da traffici illeciti, quali le droghe. Ma d’altro canto la pura speculazione finanziaria non è altrettanto, se non più pericolosa delle droghe stesse? Essa di per sé droga i circuiti economici attirando gli investimenti nei circuiti dell’astrazione finanziaria, in tal modo distogliendoli da altri usi che si potrebbero definire socialmente utili: per esempio per permettere di ampliare i livelli di istruzione nei paesi più poveri e delle classi più povere, in tal modo permettendo di migliorare le loro condizioni di vita.

Invece nelle condizioni date cresce il consumo del lusso e si deprime il consumo più legato alle forme di vita collegate a quel che era la classe media. Che senso ha che vi siano automobili che costano due milioni di euro o più? Dal punto di vista dell’utente della strada, nessuno. Dal punto di vista dell’investitore, ha lo stesso valore che potrebbe avere un oggetto appetibile in quanto raro e desiderato da molti della sua stessa cerchia, simbolo di ricchezza e potere: un tempo in Olanda erano i bulbi di tulipano, nell’antica Roma lo era il pepe, oggi questa appetibilità collegata alla perfetta inutilità è data da una varietà di oggetti: dalle opere d’arte, il cui valore non deriva dall’arte stessa ma esclusivamente dalle valutazioni di mercato, sino a quella mostruosità che sono le criptovalute: mostruosità per il semplice fatto che esse non sono oggetti, ma algoritmi criptati, flatus vocis ammantato di aura elettronico speculativa.

La ricchezza finanziaria non conosce territorio, ergo per poterne contenere la rapacità non v’è altra soluzione possibile se non stabilire un’unica autorità mondiale volta a tassarla per consentire di ridistribuirne parte per fini utili. Sarebbe inevitabile che nel seno delle Nazioni Unite si costituisse un’Autorità centrale per tassare i redditi finanziari e per ridistribuirne i ricavi secondo le necessità delle popolazioni: ovviamente si tratterebbe anche di stabilire i criteri per l’equa ripartizione di tali somme e per evitare che esse ricadano entro circuiti estranei alla vita delle persone. Questione difficilissima sul piano giuridico e tanto più difficile perché tutta da inventarsi. Per giunta in condizioni in cui sarebbe indispensabile un controllo adeguato sulla correttezza ed efficacia delle sue operazioni, e tale controllo potrebbe avvenire solo attraverso l’assoluta trasparenza e attraverso un’efficace pubblicità delle sue azioni. Ma questa può esser data solo da un adeguato funzionamento dei mass media a livello globale e oggi i mass media sono in gran parte corrotti: o sono di parte e quindi fanno parte del grande gioco del potere finanziario globale, o sono espressione di desideri di singoli (i “social”) proni alle notizie false e tendenziose (fake news) propalate in virtù di quel che i singoli, divenuti massa elettronicizzata, diffondono pappagallescamente mossi da quel che percepiscono come interesse proprio anche se spesso si tratta di interesse altrui.

Qui entra il secondo aspetto della difficoltà: compiere un’operazione simile, anzi soltanto concepirla, implica mettere in discussione tutta l’ideologia del libero mercato, l’idea della “mano invisibile” che lo regola. Quella del libero mercato è l’ideologia superstite del mondo ottocentesco, da cui provengono tutte le ideologie contemporanee. Il problema è che non è riconosciuta come ideologia: è assunto come “dato di fatto”.

Le condizioni sono mature però, perché qualcosa possa cambiare. Anzitutto perché la mano invisibile è sempre meno invisibile. I Panama Papers ne han dato in piccolissima parte contezza. Studi come quello realizzato da Oxfam o il noto lavoro di Thomas Piketty sul Capitale nel XXI secolo hanno spiegato al mondo quali sono le caratteristiche fondamentali della logica dell’ingiustizia che lo governa.

Il problema è strettamente ideologico. L’ideologia del libero mercato è fondata su presupposti assurdi: come può mai immaginarsi che l’egoismo accentuato, cullato, vezzeggiato, favorito sino a spronare i singoli a sentirsi re del mondo, possa portare a un’equa redistribuzione dei profitti grazie alla semplice competizione?

Di solito non si mettono in pista dei paralitici a competere con dei centometristi olimpici: sarebbe ridicolmente patetico. Né si concede a chi dispone di carri armati di circolare liberamente per le strade urbane. Perché invece quando si parla di capitali, si consente a chi dispone di cifre stratosferiche di “competere” con chi non ha il becco di un quattrino?

È tempo che l’ideologia del libero mercato sia smascherata per tale e che si ridefinisca il ruolo della pubblica autorità nel regolare il traffico economico. E poiché questo è globalizzato, l’autorità regolante dev’essere globale.

Vi sono altre due caratteristiche della situazione attuale da considerare.

La prima è che, essendo quella del libero mercato un’ideologia, e precisamente l’ideologia vincente dopo la caduta del Muro, essa viene inconsciamente propalata ovunque.

Per dire, un esempio banale: sui mass media, quegli stessi che a volte denunciano differenze sociali per poi dimenticarsene il giorno dopo, si vedono grandi servizi sulle nozze reali, sulle auto di iperlusso, sulla vita glamour dei potenti: il lettore è invogliato a identificarsi e a desiderare di essere “come loro”. In tal modo dimentica di essere vittima di quel sistema che ha generato quei potenti. Quel che un tempo si vedeva solo sulle rivista di bassa lega, sfogliate da chi aveva poca voglia di leggere e molta di sognare. I giornali non hanno la capacità di compiere opera di denuncia, tutti presi come sono dalle piccolezze che avvengono dietro l’angolo della loro strada, indaffarati a riempire le pagine di quel che pensano faccia gola al fruitore. La moda del fatto di cronaca elevato a proclama cubitale è coeva con l’affossamento della politica, dagli anni ’80 in poi ridotta ad amministrazione di apparenze, a spettacolo privo di contenuto, mentre il potere si raccoglieva sempre più esclusivamente in ambito finanziario speculativo.

A volte compaiono scandali tipo Panama Papers, ma in breve scompaiono e non si a più nulla di chi imbosca i capitali al sicuro dalle tasse.

Forse anche perché sotto sotto non sono pochi coloro i quali vorrebbero fare lo stesso, anzi, nel loro piccolo fanno proprio lo stesso: non con cifre stratosferiche ma coi loro piccoli risparmi. Una percentuale delle fortune dei Bitcoin è molto probabilmente attribuibile a questi benpensanti che vorrebbero unirsi alla schiera dei ricchissimi. (Non è questa la logica per la quale nei momenti di crisi aumenta a dismisura il numero di coloro che giocano alle tante lotterie che gli stati e i privati propongono? E non sono Bitcoin e consimili una delle tante lotterie proposte?). Anche questo è un sintomo di come diffusa sia l’ideologia del libero mercato: il profitto a tutti i costi, e prima di tutto e soprattutto subito e senza pensare alle conseguenze che potrà avere nel tempo. Chiunque deponga i propri averi in fondi speculativi nutre il desiderio di arricchirsi in fretta: è ideologizzato.

Tra le conseguenze di questo pensiero fondato sul profitto a breve c’è lo sfascio delle infrastrutture che non siano in qualche modo collegabili al mondo del glamour: per dire, funzionano le linee ad alta velocità che collegano le città principali, ma le ferrovie per pendolari fanno acqua da tutte le parti…

La seconda è che la Cina comunista, che sino a ora (con tutte le storture del partito unico al potere) bada anzitutto alle infrastrutture e all’economia reale, quella visibile sul territorio, dopo decenni di crescita rutilante continua ancora a crescere e si pone l’obiettivo di eradicare completamente la povertà al proprio interno. Se veramente riuscisse a raggiungere tale obiettivo per il 2020 (come Xi Jinping dichiara di voler fare), avrà compiuto quel che nessun regime capitalista è mai riuscito a fare.

La Cina oggi propone un contrappunto al mondo dell’ideologia del libero mercato. Perché difende la libertà di impresa e di commercio, ma allo stesso tempo la attua in modo almeno in parte controllato. Seguendo principi “dirigistici”, che son poi quelli che han reso grande l’economia statunitense nel corso dell’800 e nel secondo dopoguerra del ‘900, quando gli Stati Unite erano ancora gli Stati Uniti e non un tempio votato all’adorazione del dollaro, guidato da quel che sembra, più che un politico, un grande sacerdote dell’opulenza.

Ecco dunque gli ingredienti della crisi attuale: la crescente disparità sociale ed economica, la circuitazione di notizie che insegue la globalità dell’economia finanziaria, un paese politicamente comunista ma con economia di mercato.

Con questi ingredienti, la domanda è se oggi sia già possibile proporre di attivare qualcosa come la Tobin tax (la tassazione dei profitti finanziari), e studiare nuovi sistemi per ridistribuire il reddito a livello globale, così come al livello globale si “produce” reddito puramente contabile e impropriamente sempre più accentrato.

Certo, ci vorrebbe l’equivalente di una rivoluzione.

Per ora l’unico che sembra volerla è Xi Jinping, che usa quel di cui dispone: il suo Partito Comunista Cinese che sta cercando di diffondere nel mondo, ovunque vi sia qualche compatriota. E siccome di cinesi ormai se ne trovano ovunque, non è detto che non riesca nei suoi intenti.

Di solito il mondo si muove in caso di crisi belliche di grandi dimensioni. Potrà oggi evitare la crisi bellica che potrebbe profilarsi non sulle bombe nordcoreane, ma sulle tensioni crescenti tra Cina e USA, e tra populismi e globalismi?

Per quel che ci riguarda, preferiremmo che si rivalutasse l’umanesimo cristiano, ovvero che si ridesse una base morale alla società, strappandola all’ideologia dell’egoismo a ogni costo e sopra ogni cosa.

su Frontiere

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Africa: senza infrastrutture crescerà l’emigrazione

4 dicembre 2017

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

Cambiamenti climatici, mancanza di acqua, avanzamento dei deserti, impoverimento dell’agricoltura. Non sono soltanto argomenti per dibattiti politici o accademici ma questioni reali che determinano la vita di intere popolazioni. Europa compresa. Per i paesi poveri, soprattutto dell’Africa, sono causa di emigrazione. E in Italia sappiamo bene che c’è un legame stretto tra sottosviluppo ed emigrazione. Oggi lo vivono fortemente i paesi del sud del mondo. Cento anni fa, cinquanta anni fa è stata la piaga che aveva colpito tutte le nostre regioni. E, purtroppo, lo sta diventando anche oggi. Possibile che non abbiamo imparato nulla dalla storia? Eppure alcuni interventi virtuosi potrebbero aiutare ad affrontare alla radice le cause della povertà e delle migrazioni incontrollate. Invece si spende solo per le situazioni di emergenza.

Al riguardo, recentemente si è tenuto a Roma il summit internazionale «Water and Climate: Meeting of the Great Rivers of the World – L’acqua e il clima: incontro sui Grandi Fiumi del Mondo», organizzato dal nostro governo insieme alla Commissione Economica per l’Europa dell’Onu. Con una partecipazione di oltre 100 esperti provenienti da 48 paesi, esso ha offerto una grande opportunità di confronto e di scambio di esperienze. Nel mondo vi è una crescente scarsità d’acqua che sta creando tensioni sulla sua ripartizione e sul suo futuro utilizzo. Ciò accade ancor di più, dove fiumi, laghi e riserve d’acqua interessano dei bacini che coinvolgono vari paesi e differenti confini. Possono diventare anche cause di conflitti e di terrorismo.

A livello internazionale non manca un principio guida, ma un effettivo processo di dialogo. Tali situazioni, invece, potrebbero essere opportunità di nuove e più efficaci politiche di collaborazione. Il summit di Roma è stato un momento importante per confrontare vari progetti tra le organizzazioni che gestiscono i grandi bacini fluviali e lacustri del pianeta. Uno di questi, forse il più importante ed emblematico, è quello della regione del Lago Ciad, in Africa. Sull’argomento è intervenuto il presidente del Consiglio dei ministri, Paolo Gentiloni, che correttamente ha evidenziato «la vicenda del lago Ciad che alimenta un bacino di settanta milioni di persone, in diversi paesi, la cui crisi gravissima negli ultimi decenni ha provocato effetti notevoli. Si calcolano due milioni e mezzo di persone sfollate in quel bacino». Ci sono persino relazioni evidenti tra la crisi idrica del lago Ciad, la destabilizzazione socioeconomica e l’emergere di minacce terroristiche in alcune di quelle regioni.

Abdullahi Sanussi

L’intervento è stato apprezzato da Sanussi Abdullahi, segretario esecutivo della Commissione per il Bacino del Lago Ciad (Lcbc), che, parlando di progetti di trasferimento idrico, ha ricordato che fu l’impresa italiana Bonifica del Gruppo Iri a sviluppare più di quarant’anni fa il progetto «Transaqua – Un’idea per il Sahel» per evitare il prosciugamento del lago e la sua progressiva trasformazione in deserto. Esso prevedeva la costruzione di un canale navigabile di 2.400 km che dal fiume Congo portasse acqua dolce fino al Lago Ciad. Lungo il suo percorso beneficerebbero molti paesi e popolazioni con effetti positivi sullo sviluppo agricolo, sulla produzione di energia pulita ed anche per nuovi insediamenti urbani sostenibili.

Riteniamo interessante il fatto che la succitata Commissione abbia già concluso un accordo con il colosso cinese delle progettazioni e costruzioni infrastrutturali «PowerChina» per un’ulteriore verifica della fattibilità del progetto, a cui partecipa anche la nuova impresa Bonifica che è subentrata alla vecchia società del soppresso Iri. La Commissione sta cercando altri sostegni e partecipazioni per assicurare che il programma sia economicamente fattibile e sostenibile anche a livello finanziario e politico. Il progetto potrebbe fungere da catalizzatore per altri programmi pan-africani, che colleghino l’Africa centrale all’Africa occidentale, e al Sahel, generando occasioni di sviluppo agroindustriale.

Un secondo progetto di rilevanza strategica è quello riguardante il lago salato Chott el Jerid, interno alla Tunisia. È in una zona minacciata dall’avanzamento del deserto. L’idea, vecchia di quasi 150 anni, sarebbe di costruire un canale navigabile che lo colleghi al Mediterraneo, distante circa 25 km. Così le acque, fluendo lungo il canale, andrebbero a riempire il bacino lacustre, realizzando il sogno di un mare nel deserto. Si calcola che il conseguente sviluppo agro-industriale, turistico e abitativo potrebbe creare fino a 50 mila nuovi posti di lavoro.

Finanziare questi due grandi progetti sarebbe il modo più serio, più utile ed efficace di “aiutarli a casa loro”. Altrimenti la crisi migratoria continuerà a mietere vittime innocenti con la gravissima perdita di energie umane e produttive per i paesi di loro provenienza. Sarebbe bello se l’Italia riuscisse a diventare la guida per l’Europa di tali concrete politiche di sviluppo.

In testata: Il lago Ciad oggi. L’acqua si sta ritirando e la forte salinità del suolo rende difficile la vita sulle aree che restano allo scoperto. Foto OUALID KHELIFI/UNHCR

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