Nel momento in cui scrivo si è svolta la conferenza di Berlino senza che nessuno dei due contendenti abbia firmato il protocollo finale. La tregua regge, grazie anche alla mediazione russa, ma Haftar blocca la metà dell’export di petrolio libico “perché lo chiede il popolo” (già sentita altrove), dimostrando di marcare stretto il suo avversario e di avere una strategia alternativa alle armi. Ma comunque vadano le cose, noi italiani siamo fuori o almeno al margine del Grande Gioco, gestito da ben altri attori e condotto da eserciti più o meno organizzati. E se cerchiamo di andare oltre le dichiarazioni alla stampa, non ci vuol molto a capire che dietro alle dichiarazioni dei nostri politici c’è poco: dopo aver per settimane detto che era auspicabile una soluzione negoziata (banale) e che si doveva fare ogni sforzo per la pace (id.), siamo disposti a mandare i nostri militari solo ad acque ferme, ma in genere i soldati si mandano per placare le onde. Sempre meglio dei quattordici mesi durante i quali agli Esteri c’era Moavero Milanesi: della Libia vedevamo solo l’incubo degli immigrati trascurando il resto. Sicuramente paghiamo gli errori del 2011, quando pressati da Francesi e Americani la guerra ce la siamo dichiarata da soli e il debole governo Berlusconi scaricava l’amico Gheddafi da un giorno all’altro. Lo stesso Berlusconi che ora lamenta la mancanza di un nuovo Gheddafi e irride i nostri attuali ministri fu in realtà corresponsabile del caos successivo: nessuno infatti aveva un progetto per il dopoguerra in un paese dove convivono 140 clan e dove non c’era un parlamento. Ma stare alla finestra, auspicare la pace o il negoziato o pensare a un embargo delle armi quando nel frattempo tutti hanno fatto quello che volevano resta poco più che una tardiva esercitazione retorica. Anche a Berlino si è parlato di interrompere il flusso delle armi, ma chi si doveva rifornire l’ha già fatto da tempo. Chi passa alle armi la guerra vuole vincerla e poco si cura del resto. In più, imporre un embargo significa far uscire le navi da guerra per farlo rispettare. La verità è che il governo italiano ha perso un anno di tempo e partiva male, visto che il rappresentante politico riconosciuto dalle Nazioni Unite e da noi patrocinato si è rivelato troppo debole. Non è tutta colpa nostra: Obama ce lo aveva raccomandato, ma Trump, il nuovo presidente, decideva che la Libia non era strategica per la politica americana e noi ci siamo trovati soli non solo contro Haftar, mediocre militare di carriera, ma anche contro i suoi protettori, attori come Russia, Egitto, Arabia Saudita e Francia. Sicuramente i nostri interessi sono in Tripolitania, mentre in Cirenaica avevamo problemi già all’epoca delle colonie. Ma, ossessionati dal problema dell’immigrazione, abbiamo visto corto e del resto neanche Al Serraj ci ha aiutato molto. Messo alle strette da Haftar, alla fine ci ha chiesto armi e soldati che non potevamo comunque dare se non all’interno di un mandato ONU e senza violare l’art. 11 della Costituzione; quindi si è rivolto ai Turchi – musulmani ma non arabi – i quali possono mandare anche una brigata di fanteria senza troppi problemi politici (la logistica è un altro discorso). Dopo un secolo dunque i Turchi si riprendono Tripoli, da cui li avevamo sloggiati nel 1911-12. Al Serraj forse non sa che chiamare in aiuto un esercito straniero significa la perdita di indipendenza e noi italiani ne sappiamo qualcosa, visto che ci abbiamo messo secoli prima di levarci di torno chi voleva governare al posto nostro, né è detto che ci siamo ancora riusciti. Ma questo è un altro discorso. Il paradosso è che siamo in questo momento alleati di una media potenza – la Turchia – che manda in giro mercenari siriani e nel frattempo ha firmato con la Libia un trattato che di fatto spezza in due il Mediterraneo orientale e ipoteca la nostra presenza nella gestione del petrolio libico (le concessioni dell’ENI) e nello sfruttamento della piattaforma naturale fra Cipro e le isole greche. Ma quando una nostra nave ENI è stata cacciata dalle acque attorno a Cipro più di un mese fa non abbiamo battuto ciglio, salvo mandare in crociera da quelle parti una nave della nostra Marina un mese dopo. La prassi diplomatica suggeriva almeno di convocare l’ambasciatore turco per consultazioni. Tenendo presente che quel trattato è illegale pesta i piedi anche a Grecia, Egitto e Israele, forse qualcosa si poteva anche fare. Quanto all’Europa come entità politica, si doveva muovere prima e in modo coordinato, anche se nessuno si fa illusioni sulla sua coesione politica. Ora la Germania ha preso l’iniziativa diplomatica, anche perché dipende molto dal gas e petrolio russi e la partita di gioca su più tavoli, ma l’Italia è stata l’ultima a capire che non si può far niente da soli. Sicuramente l’Europa si è mossa tardi e in modo poco coordinato, ma sappiamo bene che alcuni singoli paesi – penso alla Francia – perseguono da sempre interessi nazionali, che peraltro sanno individuare meglio di noi. D’altro canto i governi Turchi, Russi e Statunitensi sono coscienti che in Europa la guerra non vuole più farla nessuno e si regolano di conseguenza, anche se la diplomazia suggerisce di avvertire almeno gli alleati delle proprie intenzioni: la Turchia è pur sempre un paese della NATO. Purtroppo, la situazione internazionale ricorda l’inerzia del 1938, quando a chi voleva espandersi a spese degli altri fu concesso tutto in cambio di niente, col risultato di scatenare la guerra mondiale che alla fine tutti hanno dovuto combattere. Sicuramente l’attuale sistema delle relazioni internazionali e del bilanciamento delle potenze limita il rischio di una guerra su larga scala, ma i conflitti locali o per procura mostrano da tempo i limiti delle Nazioni Unite nel saperli evitare e gestire. Si direbbe che il trend attuale è la distruzione degli stati deboli e non allineati e la successiva spartizione in zone d’influenza, com’è avvenuto in Iraq e in Siria. Sono conflitti misti, dove si vedono sul campo sia eserciti regolari che bande irregolari, più formazioni di duri mercenari legate ai governi in campo(rispettivamente siriani al servizio dei Turchi e il neanche tanto misterioso Gruppo Wagner gestito dai Russi, più sudanesi e forse chadiani . A Berlino si è detto di disarmare le milizie (600 circa, divise fra 140 clan, ndr.) ma nessuno ha parlato di mercenari, segno che per ora è un problema di difficile soluzione. Comunque vadano le cose, la Libia potrebbe essere di fatto spartita tra Russia e Turchia, vista la sua divisione storica fra Tripolitania e Cirenaica, più a sud l’enorme Fezzan. Fu infatti proprio l’Italia coloniale a unificare il paese, percorso proseguito da Gheddafi nei suoi 42anni di potere, durante i quali comunque egli fece anche gli interessi del suo popolo. Dal canto nostro potevamo offrire tecnologia e infrastrutture in cambio di petrolio, quindi possiamo dire benissimo che Italia e Libia avevano economie complementari. Come andrà ora ancora non lo sa nessuno, ma è intuitivo pensare che ditte turche e russe si guadagneranno le concessioni petrolifere scalzando l’ENI e forse anche i Francesi, la cui condotta politica ha sfiorato la diplomazia parallela ma poco può fare con attori del calibro dei Russi. Tutto il resto a noi in fondo interessa poco, ma proprio per questo la nostra politica estera avrebbe dovuto essere meno passiva. E qui una nota personale: quando parlo con amici stranieri di un certo livello culturale, non è facile spiegar loro perché un paese messo da Madre Natura in mezzo al Mediterraneo non riesca mai ad avere un ruolo di protagonista, e questo non solo dal secondo dopoguerra. Le ragioni le spiegava l’ambasciatore Sergio Romano: perché non sappiamo identificare gli interessi nazionali. A questo aggiungo l’opinione di Edward Luttwak: perché non abbiamo una forte coesione nazionale. Di mio aggiungerei: perché attualmente abbiamo una classe politica ma non una vera classe dirigente. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Archivi tag: Gheddafi
Migrazione: L’Europa e i suoi flussi condivisi
La cancelliera tedesca Angela Merkel, anche in occasione del mini vertice parigino sui flussi migratori condivisi, si pone come nume tutelare e apri pista a nuovi equilibri per una regolamentazione dell’accoglienza, come il “momentaneo” blocco dei ricongiungimenti in Germania, ed ecco che oltre a lodare l’operato italiano in Libia e per il codice di comportamento dedicato alle Ong, toglie ogni veto al superamento del trattato di Dublino, per non vincolare il profugo alla spiaggia d’arrivo e rendere partecipi tutti i paesi dell’Unione.
Nell’incontro di Parigi, oltre alla Francia e alla Germania, hanno partecipato i rappresenti di Italia e Spagna, oltre a quelli del Ciad, Niger e il premier libico al Serraji, ma non l’uomo forte dell’atra Libia generale Khalifa Haftar, per rafforzare i confini, e per dare un senso di ufficialità anche all’Alto rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini.
Un vertice per venire incontro non solo allo sforzo sostenuto dall’Italia, ma anche a quello sopportato dalla Grecia, stato che nessuno però ha ritenuto d’invitare, con la differenza che l’impegno italiano si addentra nelle zone grigie, intrattenendo rapporti con le varie milizie presenti in Libia.
Una situazione complessa quella nella quale l’Italia si è calata, superando ogni amletico dubbio, come viene posto all’odierna Mostra del Cinema di Venezia 2017 nel film L’ordine delle cose di Andrea Segre, tra etica e ragion di stato. Funzionari dello Stato italiano vigilano da tempo sulle interazioni tribali di una Libia post Gheddafi e ora osserva da vicino una Ue che nega se stessa e ogni diritto a quell’umanità “ospitata” nei discussi centri di raccolta.
L’Italia va oltre ai problemi esistenziali di un funzionario di polizia catapultato in Libia, toccando con mano la disperazione di un’umanità che non è formata, come sostengono in molti, da delinquenti. Donne e bambini non possono essere dei farabutti e molti uomini fuggono non solo dalla carestia, ma anche dalle persecuzioni religiose o tribali.
Venezia è anche dove l’artista cinese Ai Weiwei ha presentato il documentario Human flow, dedicato alla migrazione come un epico inarrestabile flusso umano. Un biblico mosaico di vite impegnate, visto il contesto nel quale si muovono, in una transumanza.
Nel film di Segre è espresso un travaglio esistenziale, con Ai Weiwei si ha un documentario stile National Geographic, dove tutta la tragicità della vita e i momenti gioiosi vengono proposti con gusto estetico.
Sulla migrazione vengono proposte visioni di spostamenti collettivi, ma esiste un esodo “privilegiato”, senza dover intraprendere perigliosi viaggi, fatto di un biglietto aereo o navale per chi è in possesso di documenti
Quello che potrebbe essere imbarazzante per la Ue che ha istituito il Premio Sacharov, ed è tacitamente permesso ai singoli stati dell’Unione, è come aprire agli accordi con il turco Erdogan o ipotizzarne altri con l’egiziano al-Sisi, ed ora ci si appresta a trattare con i governanti del Ciad e del Niger, dove la democrazia non è un consuetudine, e dove la Francia pensa di rafforzare la presenza militare con la scusante degli hotspot.
L’Unione europea si dimostra sempre più composta da singoli Stati più che da un corpo unico necessario per concertare un’unica posizione verso una Turchia che periodicamente è tentata a rendere permeabile, come fece Gheddafi, il suo confine verso l’Europa, per alzare la posta sugli aiuti.
****************************
Qualcosa di più:
Migrazione: Un monopolio libico
Migrazione: non bastano le pacche sulle spalle
Migrazione: umanità sofferente tra due fuochi
Migrazione: Orban ha una ricetta per l’accoglienza
Aleppo peggio di Sarajevo
Migrazione: La sentinella turca
Migrazione: Punto e a capo
Migrazione: Il rincaro turco e la vergognosa resa della Eu
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
Migrazione: Quando l’Europa è latitante
Un Mondo iniquo
Rifugiati: Pochi Euro per una Tenda come Casa
Siria: Vittime Minori
Europa: Fortezza d’argilla senza diplomazia
La barca è piena
Il bastone e la carota, la questione migratoria
****************************