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I punti di vista su Hirst

Una delle più inarrestabili macchine da soldi, nel campo dell’arte contemporanea, è sicuramente Damien Hirst, l’ex promettente rappresentante della Young British Art, con il solo dividere l’opinione degli addetti e non ai “lavori”, sull’essere un genio o un bluff, ha fatto lievitare le sue quotazioni.

Mentre sono sempre più numerose le persone che si domandano se Damien Hirst sia un astuto Madoff dell’arte o un Duchamp dei nostri giorni, altri fanno soldi con le opere che firma. Una interminabile produzione di puntini colorati che si succedono su superfici bianche per offendere la vista da si tanta luminosità.

Già nel 2008 si sentiva così in sintonia con l’umanità che esclamava: «Come artista cerco di fare cose in cui la gente può credere, con le quali possa relazionarsi, che possa sperimentare. Occorre dunque esporle nel miglior modo possibile».

E Hirst ha saputo dare al pubblico quello che voleva, o quello che il pubblico credeva di volere, grazie ad indulgente mercato dell’arte, sino a proteggerlo dalla crisi, salvaguardando gli investimenti, per esaltare l’isteria del popolo che si nutre del business dell’arte.

Hirst, come Koons o anche il nostro Cattelan, non conosce crisi e tutto può essere trasformato in icona, sia la banalità del quotidiano che quello del male, senza alcuna attinenza alla sensibilità di Hannah Arendt, ma come catarsi personale resa pubblica, svuotata da qualsiasi comprensione, senza alcuna presenza di umanità. Qualcosa di simile al gioco perpetrato della agenzie di rating con il diffondere voci per far salire o scendere le quotazioni a loro favorevoli.

damien_hirst_2 Dell’arte contemporanea e su di essa si può dire di tutto e il suo contrario, ma la realtà è nel suo spudorato utilizzo finanziario, in Occidente come in Oriente, dagli arricchiti russi e cinesi, dopo gli arabi e i giapponesi, spiazzando i cultori dell’opera come ingegno e manualità, limitandone la sua comunicabilità nella ripetitività. Una ripetitività che spesso viene confusa con la riproducibilità ben diversa dalla concezione di Walter Benjamin dell’opera d’arte.

Grande clamore per un teschio che Hirst ha tempestato di diamanti e portato in tour, per ribadire la superiorità dell’arte sopra ogni altro pensiero e attività, al quale nessuno può resistere, tanto che il povero Cartrain, alias di un’artista inglese impegnato nella realizzazione collage e stencil ispirati ad icone popolari come Mickey Mouse o Clint Eastwood, è rimasto impigliato negli ingranaggi con il suo utilizzare illegittimamente l’immagine dell’opera hirstiana. Una superficialità che gli è costato un’accusa di plagio, vincolando la creatività alle regole del mercato. Cosa potrebbe essere accaduto all’arte contemporanea se Dalì o Dupham, Picasso o Warhol, fossero incappati nell’accusa di plagio per l’utilizzo della Mona Lisa o dell’arte africana, ma forse a rischiare di più poteva essere Warhol con le sue zuppe in barattolo e numerosi simboli del consumismo.

Ora l’illusionista delle immagini come arte è presente contemporaneamente in tre luoghi di Roma (Fondazione Pastificio Cerere, nella hall del MACRO e nella Gallerie Gagosian), alle sedi della Gagosian gallery sparse nel mondo (Londra, New York, Parigi, Ginevra, Atene, Hong Kong e a Beverly Hills), oltre 300 dipinti a pallini colorati, da quelli di 1 mm di diametro sino a 60 cm ognuno, dei quasi 1.500, per un excursus di venticinque anni che proseguirà ad aprile con l’antologica alla Tate Modern.

Una moltitudine di esposizioni per una sovraesposizione mediatica stimolata da Hirst esaminando la dislocazione planetaria delle gallerie Gagosian, una vera e propria industria, che ha offerto il fianco ai suoi mille detrattori che lo incolpano di utilizzare centinaia di assistenti e lui non fa mistero, anzi a lui interessa solo il risultato identico al suo pensiero, non gli strumenti utilizzati per raggiungere tale risultato, allontanandosi dalla pittura come la intende David Hockney, suo connazionale e critico del suo comportamento, fatta di gesto e materia, non ridurre l’opera d’arte a prodotto industriale, ad oggetto di arredamento.

Potrebbe essere utile, per comprendere come l’arte si possa essere instradata nella strada del prodotto industriale, riflettere su cinque secoli di arte, messa in mostra a Londra presso la Tate Britain, sino al 14 agosto 2012, con Migrations, ma è tra il 1890 e la Young British Art che si può risalire frustrazione dell’arte britannica nell’avere generato, escludendo William Blake e i preraffaelliti, solo ritrattisti e paesaggisti, mentre il resto dell’Europa contribuiva alla storia dell’arte con ben altri artisti, esuli e perseguitati per la religione, dall’Olanda e il Belgio, artisti come Van Dyck, alla ricerca di un’affermazione economica, che hanno stimolato il ritratto e hanno introdotto il genere paesaggistico. Una mostra che solleva profondi interrogativi sulla rilevanza dell’arte britannica, escludendo un Hogarth o un Turner, nel panorama internazionale, in fin dei conti anche Hirst ha fatto tesoro degli stimoli che aleggiano nell’aria, trasformandoli in un lavoro meno faticoso possibile. L’arte britannica si è formata grazie all’evento migratorio, non solo dell’umanità in cerca di migliorare la propria vita, ma anche sulla circolazione di idee e concetti.

Altro detrattore di una certa arte contemporanea è Jean Clair, accademico di Francia e storico dell’arte, che con il suo recente libro L’inverno della cultura (Skira), si sofferma sull’uso disinibito dell’immagine. Un libro a capitoli, ognuno dei quali viene introdotto da una citazione come per il primo capitolo con “Quando il sole della cultura è basso sull’orizzonte, anche i nani proiettano grandi ombre.” di Karl Kraus, utilizzati come sintesi del pensiero di Jean Clair, sviluppato nelle pagine successive.

Sono lontani gli anni dove i politici si accompagnavano agli artisti per darsi importanza e apparire competenti. Erano gli anni craxiani dell’acquisto dell’opera d’arte senza troppe domande, ora c’è la crisi e alcuni artisti amerebbero tanto un posto fisso da permutare con la variegata incertezza della creatività del mercato. Gran parte dell’odierna arte è un’illusione creata da capaci persone, ben più capaci dell’artista che intendono promuovere, impegnate a plasmare il desiderio di quel prodotto, come dimostra il grande impegno dalla famiglia reale del Qatar, con i numerosi acquisti di opere d’arte di varie epoche, più che del contemporaneo, e innalzando musei.

Migrazione: I profughi non sono pinguini

da una illustrazione di Sergio Capparucci

Agli inizi di quest’anno Liliana Segre veniva applaudita, con il suo discorso sulla solidarietà e la convivenza, al parlamento Europeo. Un discorso della senatrice novantenne, che ha vissuto tanti tragici momenti, proteso alla comprensione e messo in discussione dagli scontri sul confine greco turco e dal respingimento dei profughi.

A Malta, nel 2019, si era aperto uno spiraglio sulla revisione del Regolamento Dublino, coniugando solidarietà con una equa ripartizione della responsabilità tra i membri dell’Unione europea, cercando di superare il concetto dei pesi mediterranei come “campo profughi d’Europa”. Tanti buoni propositi che si sono infranti contro il muro innalzato dai problemi pandemici del Covid-19 e la riluttanza dei paesi del nord-est a partecipare alla redistribuzione dell’umanità in fuga ed offrire un luogo per vivere.

L’Europa si è nuovamente eclissata, mentre la pandemia non ha frenato i flussi migratori, dimenticando la disperazione sui volti di un’infanzia che ha solo conosciuto la fuga e la reclusione in campi stipati e con una carenza di servizi, sperando di non avere degli aguzzini come tenutari.

Migrazioni che non si sono interrotte e alle quali una destra continua a gridare di chiudere i porti, di non far attraccare  navi che hanno raccolto in mare degli sventurati o addirittura di organizzare dei blocchi navali costosi e inefficaci per fermare dei gommoni o barchette ed anche se venissero intercettate le “minacciose” imbarcazioni quali azioni dissuasive potrebbero intraprendere verso delle carette che a malapena rimangono a galla?

Minacce incomprensibili se non si ha una soluzione, perché fare muro non serve a niente se non si indica quale comportamento avere. Forse si circonda il natante e si aspetta che le persone muoiano di fame o si possono spingere le barchette verso le coste di provenienza, senza entrare con i mezzi militari nelle acque territoriali, chiedendo magari l’intervento dei libici in divisa.

Non è necessario essere una persona religiosa per aiutare il prossimo, ma sicuramente è bizzarra la propaganda xenofoba di chi si dichiara un credente.

La sinistra, mentre cerca di accogliere i fuggiaschi, confida nella condivisione europea, sperando in una dura presa di posizione dell’Unione europea verso quei paesi che si rifiutano all’accoglienza, approvando sanzioni e tagli ai contributi.

In questo marasma di grida, le cui vittime continuano ad essere donne, bambini e uomini che fuggono dai soprusi e dalle stragi, viene varata una iniziativa a garantire la presenza nel Mediterraneo centrale di una nuova nave, tutta italiana, per soccorrere i naufraghi e testimoniare quanto accade a poche miglia dalle nostre coste.

Un’imbarcazione voluta da ResQ – People Saving People https://www.resq.it/, per essere attiva nel giro di pochi mesi, con un equipaggio di circa 10 persone per il funzionamento e 9 tra medici e infermieri, soccorritori, mediatori giornalisti e fotografi. Due gommoni veloci che  assicureranno gli avvicinamenti alle imbarcazioni in difficoltà e il salvataggio dei passeggeri.

Attendendo la nave di ResQ – People Saving People è Banksy che vara la Louise Michel, una nave per il salvataggio dei migranti in difficoltà, finanziata con il ricavato delle opere che lo street artist ha dedicato al dramma della migrazione.

La Louise Michel battente bandiera tedesca ed è un atto d’accusa all’immobilismo dell’Unione europea che Banksy spiega su Instagram https://www.instagram.com/p/CEehZUzJVds/

I migranti commuovono meno dei pinguini relegati in spazzi ghiacciati sempre più ridotti, sono entrambi il termometro del cambiamento non solo climatico, ma anche sociale che spesso trovano nel mare la loro ultima dimora.

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Il bastone e la carota, la questione migratoria

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Turchia: Erdogan gioca con il passato e il futuro

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La Turchia continua a percorrere la sua strada verso una sua modernizzazione che da laica si trasforma in osservante di un islam miscelato da una religiosità e da un nazionalismo espansionista.

Dopo il trattato di Sèvres (Francia, 1920) inizia una nuova Turchia, privata di tutti i territori arabi, senza l’impero, sotto la guida di Mustafa Kemal Atatürk e dopo l’epurazione armena, con le università che si aprono agli insegnanti occidentali, ebrei e cristiani, ridimensionando l’influenza del clero islamico nella vita politica.

L’impero ottomano era finito, i paesi occidentali si erano spartiti le sue spoglie, gli attriti con la Grecia non avevano termine, ma fu riconquistata nel 1936 la sovranità sugli stretti del Bosforo e dei Dardanelli; il massacro degli armeni  non è mai stato un crimine di uno stato laico o religioso.

Il presidente sultano Recep Tayyip Erdogan guarda al futuro con un terzo ponte sul Bosforo, realizzato in poco meno di tre anni, con 8 corsie e 2 linee ferroviarie; poi il tunnel, sotto per collegare la sponda asiatica con quella europea della città, per l’autostrada Eurasia, il progetto di un canale di 43 km a Istanbul, contestato dalle “opposizioni” e ambientalisti perché mette a rischio le riserve idriche della città, solo per evitare il Bosforo il nuovo avveniristico aeroporto di Istanbul.

Nei progetti della grande Turchia è compresa la realizzazione di una serie di dighe per la razionalizzazione dell’acqua a fini idroelettrici e agricoli, che coinvolge il bacino del Tigri ed dell’Eufrate, nell’area dell’antica Mesopotamia, attuando uno sradicamento delle popolazioni che si vedono sommergere i loro villaggio e parte delle loro storia, mentre i monumenti ritenuti di interesse storico vengono decontestualizzati e portati in siti adiacenti.

Un intervento già effettuato, ai fini degli anni ’70, in Egitto per realizzare la diga di Assuan, spostando la Valle dei Re in collina, per uno sviluppo interno, ma nel caso turco vi è anche un’affermazione di prepotenza, comandando il flusso delle acque del Tigri, erogando parsimoniosamente l’acqua all’Iraq e alla Mesopotamia.

Una diga che sommergerà l’80% di Hasankeyf, con la sua storia millenaria di epoca neolitica, romana, bizantina e ottomana, lasciando ai turisti una selezione delle vestigia come una moschea e il mausoleo di Zeynel Bey.

Da una parte i sacrifici subiti dalle popolazioni per una modernizzazione senza scrupoli, dall’altra le scelte senza esitazioni per un salto a ritroso, cancellando 86 anni di stato laico, per portare Santa Sofia a status di moschea.

Atatürk aveva preferito trasformare la basilica bizantina in museo, evitando che un luogo continuasse ad essere causa di discordia tra la comunità cristiana e quella islamica, ma il nuovo sultano è di diversa opinione, come lo è riguardo ai rapporti donna uomo, mostrando “sensibilità” alle pressioni di alcuni gruppi islamisti per il ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul del 2011 sulla prevenzione e la lotta alla violenza di genere, mentre si consuma un altro assassinio di una studentessa universitaria di 27 anni dove il principale sospetto è l’ex fidanzato di 32 anni.

Mentre il governo turco ci pensa quello polacco sta iniziando il processo per disdire la Convenzione di Istanbul, adducendo come giustificazione la presenza nel testo di «concetti ideologici» estranei alla Polonia, tra i quali il concetto di sesso socio-culturale contrapposto al sesso biologico, perché l’attuale legge polacca tutela i diritti delle donne.

Due differenti governi che condividono la stessa visione di subordinazione della donna e del progresso come un enorme restyling delle città, per essere limitato agli aspetti esteriori, come le ruspe sui simboli laici e l’abbattimento degli alberi a Gezi Park, stravolgendo la piazza delle grandi proteste di massa, e la demolizione del centro culturale Ataturk, essendo un edificio “fatiscente”, ma soprattutto perché luogo della protesta silenziosa del coreografo Erdem Gunduz, con il ritratto di Mustafa Kemal, Ataturk, il fondatore della Turchia moderna, come elemento scenografico, piazzandosi davanti guardandolo negli occhi, in silenzio, per poi essere imitato da migliaia di persone.

Il sultano ha fatto edificare la Grand Mosque Camlica, la più imponente moschea della Turchia, nel quartiere asiatico di Istanbul, per testimoniare una grandezza economica del paese e per rafforzare il suo potere, inducendo ogni voce critica al silenzio, dopo aver imprigionato migliaia di persone sospettate di aver complottato contro il governo, e fatto chiudere decine di organi d’informazione, ora ha fatto approvare una legge per un maggior controllo sui social media, obbligando Facebook, Twitter e Youtube di avere un referente locale, responsabile sui contenuti e l’eventuale rimozione.

Il progresso della Turchia verso l’oscurantismo censorio, non limita i sogni e le ambizioni del sultano a trovare qualche ettaro di terra in Siria da annettersi, ma impone la sua influenza in Albania e Libia, a trovare dei porti sicuri in Africa, per un’ambizione nazionalistica espansionistica, per stravolgere la Storia.

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Qualcosa di più:

Egitto e Turchia: i Presidenti si ripetono
Egitto: Una Primavera che non è fiorita
Egitto, ingabbia i Diritti
Egitto e caso Regeni: la polveriera egiziana
Omicidio Regeni. Diritti civili intesi dagli alleati ingombranti
Una pericolosa eredità in Egitto. Polvere di diamante di Ahmed Mourad

Egitto: un bacio eversivo. Tutti in piazza il 30 agosto
Islam: dove la politica è sotto confisca
L’Egitto sull’orlo dell’irreparabile
L’Egitto si è rotto
L’infelicità araba
Egitto: laicità islamica
Nuovi equilibri per tutelare la democrazia in Egitto
Egitto, democrazia sotto tutela
Primavere Arabe: il fantasma della libertà
Mediterraneo megafono dello scontento

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Turchia: un regime che vuol governare facile
Turchia: il Sultano senza freni
Turchia: la diplomazia levantina
Turchia: Il sogno del Sultano diventa realtà
Migrazione: il rincaro turco e la vergognosa resa dell’Ue
Migrazione: La sentinella turca
Erdogan, il pascià autocrate

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La Gentilezza di aiutare gli altri rende felici

Guardando il programma “Solidali d’Italia – Cooperare per lo sviluppohttps://www.raiplay.it/programmi/solidaliditalia, in onda su Rai Tre alle ore 10.15 della domenica, appare confortante vedere donne e uomini impegnati nell’aiutare il prossimo, con i volti, magari stanchi ma sereni.

Una serenità propugnata dal libro “Biologia della gentilezza”, di Daniel Lumera e Immaculata De Vivo (Mondadori)  nel quale si trova conferma dell’assioma che l’aiutare gli altri rende felici.

Aiutare gli altri ci distoglie dai nostri pensieri, offrendo un altro scopo nella vita, un’azione che influenza la vita altrui e rimane un indelebile esempio.

Andare incontro agli altri può essere nell’ambito del volontariato, ma poi si può trasformare in lavoro, come viene illustrato dall’AICS (Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, organismo governativo sotto la direzione strategica del Ministero degli Affari Esteri) nel ciclo di 6 docu-film su Rai 3, a firma di Andrea Salvadore, con gli interventi di cooperazione.

Non ci sono solo gli espatriati per studio o lavoro nelle storie raccontate su Rai Radio 3 in Expat https://www.raiplayradio.it/programmi/expat/ ogni sabato alle 10.15, ma anche  italiani che hanno deciso di mettere il proprio sapere professionale a disposizione dello sviluppo di aree critiche del mondo.

È su di loro che Rai Italia racconta la vita quotidiana in zone difficili come il Mozambico, Myanmar, Tunisia, Senegal e Giordania.

Per vedere volti sereni, soddisfatti del loro vivere, non è necessario intraprendere un viaggio tra i cooperanti italiani sparsi per il Mondo, ma anche tra noi, nel bailamme italiano, possiamo trovare chi è felice di aiutare.

Un aiutare per aiutare è anche ciò che fanno i volontari dell’Operazione Mato Grosso http://www.omgroma.com, ad esempio a Roma,  ma ci sono anche vari gruppi sparsi per l’Italia, che non chiedono delle donazioni per i loro progetti di aiuti alle popolazioni del sudamericane, per essere precisi non chiedono solo delle donazioni, ma offrono dei servizi.

Non ci sono solo le antisonanti Ong, ma anche gruppi di ragazzi che svolgendo lavori come giardinaggio, imbiancature, sgomberi ed altro, riescono a raccogliere fondi per destinarli al sostentamento delle missioni in Brasile, Perù, Bolivia ed Ecuador. Parallelamente ai gruppi dei giovani, sono sorti in Italia vari gruppi di adulti che seguono svariate attività, dalla costruzione e gestione di rifugi e case alpine ai mercatini dell’usato ad altre mille attività spontanee che si caratterizzano nella raccolta di fondi ed offerte da destinare per il sostegno delle missioni.

In Italia sono presenti oltre 150 gruppi dell’Operazione Mato Grosso http://operazionematogrosso/ che formano insieme un numero di circa 2000 volontari tra giovani e famiglie.

In America Latina sono presenti 100 missioni aperte ad oggi con più di 400 volontari che realizzano vari progetti educativi-sociali e caritativi: internati, scuole, asili, cooperative agricole, cooperative di falegnameria, guide andine, orfanotrofi e vari oratori.

Un aiutare per aiutare rende felici, come viene provato scientificamente nel libro“Biologia della gentilezza”, dove gli autori ribaltano la teoria darwiniana nella quale: a sopravvivere non sarà il più forte e competitivo, ma il più empatico e vicino al prossimo.

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Qualcosa di più:

Solidarietà anche come lavoro
Africa: le Donne del quotidiano
Le loro Afriche: un progetto contro la mortalità materno-infantile
Africa Solidarietà: il lato nascosto delle banche
Africa: i sensi di colpa del nostro consumismo
Cause Umanitarie
Cibo per molti, ma non per tutti
Le scelte africane
Solidarietà: il lato nascosto delle banche
Un promemoria sul mondo in conflitto
Cellulari per delle cucine solari

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Razzismo: Formare tra Statue e Storia

I monumenti elogiano un personaggio o un evento e possono diventare le vittime dell’esaltazione per la giustizia, ma l’abbattimento delle statue porta ad una rimozione della Storia, senza spiegarne le azioni e le conseguenze. Targhe esplicative che illustrano il personaggio o gli eventi legati a quel luogo e descriverne il contesto.

Non si può modificare la Storia o formare alla convivenza le nuove generazioni abbattendo statue di personaggi dalla scelte riprovevoli o dalle imprese che hanno causato la disgrazia di intere popolazioni, ma occorre  far conoscere i buoni dai cattivi nelle loro scelte e  che ogni azione ha una conseguenza.

Non si possono esorcizzare le tragedie cancellando i nomi degli istigatori, ma è necessario fare i conti con il passato. Un processo modello Norimberga non sarebbe solo un occasione per punire, ma anche per capire gli imputati, per questo esistono la Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite e la Corte penale internazionale, entrambe con sede all’Aia, per indagare su ogni crimine contro l’umanità.

La morte di George Floyd, per l’azione di soffocamento esercitata della polizia di  Minneapolis, ha scatenato la furia iconoclasta e gli abbattimenti di statue, al grido black lives matter (le vite nere contano), dimenticando che siamo un’unica umanità ed ogni vita è preziosa, aprendo una riflessione su secoli di prevaricazioni di una parte di persone verso l’altra solo perchè ritenuta inferiore per colore o cultura, descrivendola diversa solo per avidità e solo differente per essere nata nel luogo sbagliato del Mondo.

Manodopera gratis, ricchezze da saccheggiare, materie prime da rubare, fondamenti del colonialismo e quando non è sufficiente il bastone si passa al cannone e così, dopo 60anni dall’indipendenza del Congo, il re del Belgio chiede scusa. L’Africa, in questi anni di riconquistata libertà, non è cambiata molto per numerose popolazioni sfruttate non più dalle nazioni europee, ma da multinazionali e dagli stessi connazionali, dove i minori vengono utilizzati per estrarre in zone difficili materie preziose per l’Occidente o per imbracciare un’arma nei numerosi conflitti tribali.

La questione coloniale coinvolge anche l’Italia ed i vari monumenti e targhe stradali che glorificano sanguinose battaglie come quella di Amba Aradam, un altopiano montuoso a nord di Addis Abeba in Etiopia, dove l’uso del gas iprite, nonostante fosse stato messo al bando dalla Convenzione di Ginevra del 1928, venne riversato sugli etiopi dall’aviazione italiana nel 1936.

Amba Aradam non può rimanere solo una via romana o locuzione (ambaaradam) per indicare una situazione di grande confusione, grazie al continuo cambio di alleanza di alcune tribù, ma un’occasione per definire il ruolo, non certo di “brava gente”, delle truppe italiane e magari dedicare l’omonima stazione della metropolitana a Giorgio Marincola, somalo figlio di maresciallo maggiore dell’esercito italiano, partigiano “mulatto” come era uso chiamare gli italo-africani.

La Germania ha fatto i “conti” con la Storia, non solo sviscerando il nazismo, ma anche con il suo passato coloniale, con il permutare il nome di tre strade berlinesi dedicate a personaggi del colonialismo in Africa con quello di altrettanti combattenti della resistenza anti-coloniale tedesca.

Roma è stata testimone, nel 2019, di un cambiamento di titolazione di alcune vie dai firmatari del Manifesto della razza a scienziati che si opposero alle leggi razziali. Permutare la titolazione di un luogo con un’altra dedica è rendere giustizia a chi ha fatto la cosa giusta, ma sarebbe utile dare una spiegazione perché opporsi a delle discriminazioni è legittimo, mentre propagandare la superiorità di alcuni contro altri è un crimine.