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Mediterraneo: Egemonia dell’Egeo

In questo momento la Turchia di Erdogan è in piena politica di espansione geopolitica nel Mediterraneo e l’Italia sta a guardare, rimproverando all’attuale ministro degli Esteri l’abbronzatura piuttosto che la sua inconsistenza. Eppure c’è stato un periodo in cui l’Italia non solo ha combattuto una prima volta  l’Impero Ottomano con la guerra di Libia e l’occupazione del Dodecaneso (1911-12), ma nel 1919 ne ha addirittura occupato una parte in Asia minore, ritirandosene solo nel 1922. Una proiezione di potenza impensabile oggi, dovuta a circostanze eccezionali, ma tutto sommato una pagina di storia italiana poco nota, che vale invece la pena di riesumare per la sua attualità. La storia ci riporta alla fine della Grande Guerra, con la disgregazione di tre imperi: germanico, austro-ungarico e ottomano. Quest’ultimo, pur difendendosi bene sui Dardanelli, alla fine della guerra perse le sue componenti arabe e africane, più l’Armenia cristiana ed era quasi sul punto di veder nascere alle frontiere uno stato curdo. In sostanza gli equilibri post-bellici seguivano il patto segreto Sykes-Picot (dal nome dei due negoziatori, uno inglese e francese l’altro), che assegnava il mandato sulla Siria alla Francia e la Palestina più la Mesopotamia agli Inglesi, tradendo di fatto il nazionalismo panarabo pur appoggiato dagli inglesi stessi (ricordate Lawrence d’Arabia?). Segreto e discutibile, era un patto che comunque avrebbe regolato per un secolo l’equilibrio del Medio Oriente, assente in questo caso il presidente americano Wilson, che ben altri guai avrebbe causato con le sue confuse idee in materia di nazione e autodeterminazione dei popoli. Le pretese italiane nell’Adriatico e in Asia minore risalivano comunque al Patto di Londra (1915); davano per scontata lo smembramento degli imperi centrali, ma non potevano prevedere l’intervento del presidente Wilson, l’ostilità franco-inglese verso un Mediterraneo “italiano”, e soprattutto nessuno metteva in conto il peso dei futuri nazionalismi: slavo, albanese e turco. La politica estera italiana alla fine riuscì solo a ottenere il Brennero, giustificato da reali motivi strategici (ancora nel 1943 i tedeschi occuparono l’Italia passando da quel valico), mentre poco o nulla ottenne in Adriatico. Il controllo sul Dodecaneso garantiva invece una buona base per la costa turca, e infatti da lì partì il corpo di spedizione che occupò la zona di Adalia, dove era registrato un interessante bacino carbonifero. Anche se prevista dal Patto di Londra del 1915, l’iniziativa italiana apparve come un colpo di mano per compensare la “vittoria mutilata” in Dalmazia; irritò Francesi e Inglesi e soprattutto il governo greco, estraneo a quel patto e che aspirava ad occupare parte dell’Anatolia. In assenza della delegazione italiana capeggiata dal presidente del consiglio Orlando, alla conferenza di pace di Parigi, la Grecia riuscì ad ottenere dal Consiglio Supremo il permesso di intervenire sulla costa egea dell’Anatolia. Il 15 maggio 1919, pertanto, l’esercito greco operò uno sbarco a Smirne. L’attrito con l’Italia fu risolto con un accordo segreto (ancora un altro!) sottoscritto il 29 luglio 1919 dal nostro Tittoni e dal greco  Venizelos, in cui l’Italia rinunciava a Adalia e alle isole del Dodecaneso salvo Rodi, in cambio dell’appoggio greco a un mandato italiano sull’Albania. Tale accordo, peraltro, fu denunciato dal successivo Ministro degli esteri italiano Carlo Sforza (giugno 1920), né gli Albanesi (mai chiamati in causa) lo volevano. La Conferenza di Pace di Parigi per queste zone si risolse nel Trattato di Sèvres (10 agosto 1920), che riconosceva all’Italia una zona di penetrazione economica su Adalia e dintorni, oltre al possesso del Dodecaneso, e l’occupazione greca di Smirne e i suoi dintorni. Era un altro trattato di carta: i nazionalisti turchi guidati da Kemal Atatürk dichiararono defunto l’Impero Ottomano, nulle le sue firme e passarono alla riscossa, costringendo entro il 1922 i Greci a ritirarsi da Smirne. Il governo italiano dal canto suo utilizzò la base di Adalia per armare e addestrare le truppe di Atatürk contro i Greci, intuendo da che parte stava la vittoria e sperando in futuri vantaggi non ben definiti. Il contingente italiano fu ritirato entro il 1922 e il Trattato di Losanna (1923) sottoscritto con la nuova Repubblica Turca confermava all’Italia il possesso del Dodecaneso e riconosceva per la prima volta la sovranità italiana sulla Libia, ma non le accordava nessuna zona di influenza economica né di occupazione militare in Anatolia. Come si vede, le potenze vincitrici della Grande Guerra avevano fatto i conti senza l’oste, in una proiezione di potenza imperialista che sottostimava l’ascesa dei nazionalismi che il dopoguerra stesso aveva esasperato dalla disgregazione degli Imperi centrali. La stessa Italia irredentista alla fine si comportava esattamente come i suoi alleati imperialisti, senza che all’epoca nessuno notasse la contraddizione. Forse anche per questo, di questa italica avventura nella memoria resta poco o niente. Gli unici che la ricordano con orgoglio sono i Carabinieri: inviati sia ad Adalia che a Costantinopoli in collaborazione con la gendarmeria turca, esercitarono in modo imparziale le loro funzioni e contribuirono a evitare scontri etnici e vendette private. Responsabile dei Reali Carabinieri in organico alla spedizione italiana era un nobile fiorentino, il colonnello Balduino Caprini. Un nome da ricordare.

Paura di vincere (o di aver vinto)

05 MP AdN Paura di vincere 1A cento anni dalla fine della Grande Guerra, il manifesto ufficiale del Ministero della Difesa che celebrava il 4 novembre mostrava un esercito italiano in versione “Caritas”. Ora, se vuole mantenere la propria identità, un’istituzione non deve mai derogare alla propria funzione esclusiva: per la religione è la trascendenza, per l’esercito il combattimento; tutto il resto è solo un valore aggiunto che non può tuttavia sostituire la funzione primigenia. Ma quello che è più curioso, quel manifesto non conteneva alcun accenno all’avvenimento che doveva commemorare. Celebrare un anniversario senza chiarirne il motivo è assolutamente illogico e può essere spiegato unicamente dalla pervasiva rimozione politica della nostra identità nazionale, di cui la vittoria del 1918 è un simbolo identitario. Vittoria all’epoca “mutilata”, oggi rimossa. Eppure da quella vittoria uscì un’Europa diversa, senza più gli Imperi centrali, anche se la pace fu realmente raggiunta solo nel 1945. Le istituzioni politiche italiane non furono all’altezza della situazione né al momento del trattato di pace né dopo, quando nel giro di quattro anni furono assorbite dal Fascismo. Avevano però completato sia pur a caro prezzo l’unificazione della nazione e forgiato nello sforzo collettivo una nuova società italiana. E anche se non priva di difetti, l’azione militare italiana nella prima G.M. fu sicuramente meno confusa che nella seconda, dove erano invece sbagliate le motivazioni, le scelte strategiche, la condotta delle operazioni e la logistica. Ma la classe militare italiana accettò lo stesso di combattere, col risultato di una disfatta totale. E proprio questo peccato originale peserà per anni sulle nostre forze armate, peraltro ricostruite invece che riformate, come furono invece quelle tedesche. Questo per dire che il rifiuto della forza militare stessa in Italia ha una sua storia e forti basi ideologiche, al punto che l’articolo 11 della nostra Costituzione nel 1948 lo mette nero su bianco:
L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni.05 MP AdN Paura di vincere
La politica però non può negare la realtà di un fatto storico. In questo modo invece i programmi scolastici continueranno ad accennare al Novecento senza studiarlo e i ragazzi resteranno nella loro ignoranza, convinti che l’Italia non ha mai fatto una guerra e che soldati aiutano i migranti e le vecchiette. Questa sistematica castrazione simbolica delle nostre Forze Armate va avanti da anni, ma non è dovuta solo alla sconfitta della seconda G.M. Quando ho fatto il militare, in piena Guerra Fredda, nessuno ci chiedeva realmente di combattere, ma la guerra si chiamava col suo nome e dovevamo essere pronti a farla, anche se difensiva. Le parate militari poi duravano ore e per via dei Fori Imperiali sfilavano decine di mezzi pesanti e migliaia di soldati. Mentre ora il video di propaganda delle nostre Forze armate è stato “riveduto e corretto” perché ritenuto troppo bellicista, all’epoca i filmati analoghi mostravano uomini armati e in addestramento, proiettando all’esterno un’immagine di forza militare sicuramente sovrastimata, ma esplicita. Il cambiamento è avvenuto nella seconda metà degli anni Settanta, quando Sandro Pertini era presidente della Repubblica: si approfittò del terremoto in Friuli per dare una nuova motivazione ai militari (all’epoca non c’era ancora la Protezione civile), col risultato che i manifesti e la pubblicistica militare dell’epoca mostrano i soldati all’opera per aiutare la popolazione colpita da calamità naturali, ma senza fucile. Allo stesso tempo si rilanciò l’immagine della Guerra dei partigiani (Pertini lo era stato) e dell’Esercito di popolo (immagine rimossa a fine secolo col passaggio al professionismo militare). Qualche anno dopo l’Esercito trovò una nuova motivazione nell’impegno profuso nelle missioni all’estero (dal Libano nel 1982 in poi), stando però molto attento che nessuno le interpretasse come azioni di guerra.
In realtà in tutti questi anni si è sparato, e anche tanto; ci sono stati anche morti e feriti. Lo dimostrano da sole le motivazioni di tante medaglie al valore, il numero dei caduti e feriti nelle varie missioni c.d. di pace. In realtà ve ne sono state anche di guerra, nel senso che per mantenere o imporre la pace si è dovuto usare anche le armi, ora per difendere se stessi o le popolazioni da proteggere, ora per imporre lo status quo a chi non voleva saperne di deporre le armi. Ma questo la gente spesso non lo sa, né i militari avevano interesse a farlo sapere al di fuori del loro ambiente, dove tutto invece viene narrato in modo esplicito. Ma l’Italia non può rimanere al di fuori dei giochi politici e delle alleanze internazionali, quindi tutto si gioca sempre sul filo del compromesso.

Caporetto – una storia diversa

A ottobre di quest’anno ricorre il centenario della più grande sconfitta militare rimasta nella memoria italiana, e il libro di Claudio Razeto cerca di fare il punto su una vicenda tuttora controversa. Lo fa in maniera molto chiara, seguendo gli avvenimenti dal 1916 al 1918 e oltre, corredando la narrazione con una scelta accurata di mappe e fotografie d’epoca. In questo l’autore è uno specialista, vista la sua esperienza di ricercatore di archivi storico-fotografici e il suo lavoro all’ANSA. La dodicesima battaglia dell’Isonzo – così gli Austriaci chiamano Caporetto – portò il nemico a occupare Veneto, Friuli e Carnia in pochi giorni, fino alla linea del Piave, dalla quale è partita la nostra riscossa finale. Il fronte italiano correva per 600 km lungo l’arco alpino, ottimo per difendersi ma non per attaccare. In più, il Trentino (austriaco) s’incuneava in modo tale da minacciare lo schieramento italiano tutto proteso a est. Per ben due volte – nel 1916 con la Battaglia degli Altopiani o Strafexpedition e nel 1918 con la Battaglia del Solstizio – l’Italia rischiò l’invasione dalle valli del nord. A est le vie d’accesso all’Impero Austro-Ungarico erano solo due: la via per Vienna, cioè il valico del Tarvisio (dove era passato Napoleone) e la via per Lubiana, ovvero Gorizia e le gole d’Isonzo. Trieste era invece naturalmente difesa dal Carso, un ampio, arido rilievo prossimo alla costa ma ben difendibile. Scartato stranamente il Tarvisio, Cadorna per due anni e mezzo attaccherà sistematicamente su due soli punti: verso la val d’Isonzo e verso Trieste. Direttrici obbligate: la valle dell’Isonzo scende parallela all’arco orientale delle Alpi e l’accesso per Gorizia passa per un’ampia gola scavata dal fiume tra due montagne, di fronte a Tolmino. La presa di Gorizia (1916) è l’unica conquista significativa: le undici battaglie dell’Isonzo, tutte combattute su due soli fulcri, portarono a guadagni di terreno minimi a fronte di perdite enormi. Trieste non fu mai presa e nell’alta val d’Isonzo – circondata dalle montagne – ci attestiamo già dal 1916 nel saliente fra Caporetto e Tolmino. Ed è dal luogo fisico che dobbiamo partire: Caporetto, Kobarid per gli Sloveni, è un villaggio che occupa un’ampia conca lungo la valle dell’Isonzo dalla parte slovena, all’incrocio fra il fiume e la piana del Friuli. Noi, incuneati nel saliente, potevamo al massimo prendere Tolmino e risalire la ferrovia sino a Lubiana, mentre il nemico, una volta sfondato il varco verso Gorizia, avrebbe visto aperta la piana del Veneto, costringendo l’intero schieramento italiano ad arretrare per tutto l’arco alpino. E questo è esattamente quanto avvenne il 24 ottobre del 1917.

Il libro si apre immergendoci nello scenario che di poco precede la battaglia: si è conclusa la sanguinosa undicesima battaglia dell’Isonzo (agosto 1917) e l’esercito austroungarico ritiene di non poter resistere a un’altra offensiva italiana: al 31 agosto ha lasciato sul campo 85.000 uomini contro 144.000 nostri soldati. Abbiamo pagato un duro prezzo per pochi chilometri di terreno, ma restano ancora le risorse per un altro attacco frontale, mentre le riserve nemiche sono logorate. Il generale tedesco Ludendorff se ne rende conto e decide di intervenire a favore dell’esercito austro-ungarico. La situazione è favorevole: i Russi sono stati sconfitti e usciranno di scena, quindi è possibile spostare truppe dal fronte orientale. La 14° Armata di Otto von Bulow, marciando di notte, manovra dunque verso la Slovenia, mentre il generale austriaco Boroevic’, detto appunto “il Leone dell’Isonzo” rinforza le linee difensive. Cadorna insiste da anni con attacchi frontali sempre sulle stesse posizioni e Boroevic’ su quelle resiste e rincalza di continuo le perdite. La sua strategia è puramente difensiva, forse l’unica possibile, ma ha logorato il suo esercito. Entrambi i generali sono duri e privi di fantasia e combattono una guerra moderna col cervello antico. I tedeschi invece sono tatticamente più moderni e l’hanno già dimostrato su entrambi i fronti, coordinando artiglieria e fanteria e addestrando formazioni di assaltatori – Sturmtruppen – capaci di infiltrarsi in pochi punti dello schieramento e penetrarlo in profondità, superando così la guerra di trincea. Proprio nelle trincee di Caporetto regna una calma irreale: lo schieramento italiano è tutto proteso in avanti, la dodicesima battaglia dell’Isonzo sarà combattuta in primavera, ma Cadorna ha buone informazioni e rinforza le difese. Non può sapere però che i Tedeschi hanno mandato il generale Konrad Krafft von Delmensingen, comandante degli alpini tedeschi, l’Alpenkorps. I suoi uomini hanno un ordine preciso: infiltrarsi, trascurare le cime e sfondare a valle; al rastrellamento ci penseranno le successive ondate di fanteria. Per capirne il senso, consiglio un libro scritto dall’allora tenente Erwin Rommel, la futura Volpe del deserto: Fanteria all’attacco (1 ). Il suo reparto alpino di assalto addirittura prende le nostre posizioni aggirandole alle spalle e penetra per chilometri in profondità, mentre il nostro Comando ancora non ha capito la reale portata dell’offensiva. Colpa nostra: il fronte italiano è tutto proteso verso un saliente, ma poco scaglionato in profondità. E’ uno schieramento anomalo: offensivo ma costretto in uno spazio chiuso e serrabile a tenaglia. Ma Cadorna, pur cosciente del pericolo, non accetta di cedere il terreno conquistato a caro prezzo, mentre il generale Capello, a capo della 2° Armata, non è d’accordo e pianifica una controffensiva che non solo va contro gli ordini di Cadorna, ma che non sarà mai sferrata. Sui contrasti fra i due generali è stato scritto molto, ma senz’altro Capello è più moderno del suo capo. Anche Badoglio, comandante del 27° corpo d’Armata, è fiducioso, ma il giorno dopo i suoi cannoni non spareranno neanche un colpo (2). Questo scoordinamento al vertice sarà disastroso.

Nel libro, l’attacco iniziato alle 02.00 del 24 ottobre 2017 viene descritto come in una radiocronaca, citando anche fonti austro-tedesche (3). Bombardamento intenso e preciso, uso dei gas, seguito dalle 06.20 dall’assalto duro e deciso delle truppe d’assalto contro Plezzo (Bovec) da nord e da Tolmino (a sud), favorite dalla nebbia. Questo comunica una nostra postazione avanzata:

Gli austriaci sono usciti dalle trincee, li vediamo, tra la nebbia, che vengono avanti, passano i reticolati. Noi ci ritiriamo.”

Le linee italiane crollano subito e il sistema di comunicazioni entra nel caos; la resistenza si tramuta in rotta e lo sfondamento del fondovalle spalanca al nemico la pianura friulana e veneta. L’artiglieria italiana non spara un colpo e tutto lo schieramento italiano si ritira in disordine. Ai soldati trincerati sulle quote il nemico ci penserà dopo: le avanguardie vanno avanti, senza preoccuparsi dei collegamenti. Gli stessi tedeschi e austriaci sono sorpresi dal successo. Così scrive un ufficiale austriaco, il tenente Weber:

Neppure la notte impedì agli attaccanti di accrescere a ritmo vertiginoso i successi già ottenuti, di trasformare lo sfondamento in un disastro totale, la ritirata del nemico in una fuga”

Il 28 ottobre, quando Udine non era ancora caduta, il generale Cadorna dirama il discutibile comunicato, passato alla storia, nel quale accusava i soldati di viltà:

La violenza dell’attacco e la deficiente resistenza di alcuni reparti della 2° Armata vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, hanno permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia.”

Giudizio ingiusto, sfruttato anche dalla propaganda austro-ungarica. Presto ricorretto ma noto a tutti, questo comunicato fu la Caporetto anche di Cadorna, destituito dal nuovo capo del Governo, Vittorio Emanuele Orlando. Il nemico aveva applicato tattiche più moderne, ma il motivo della sconfitta era tutto interno allo Stato Maggiore. Cadorna in realtà non era diverso da Haig, Joffre, Nivelle e Hamilton: tutti i generali della Grande Guerra erano anziani, aristocratici e disprezzavano le masse quanto il parlamento, quindi incolpare la propaganda disfattista e socialista era per loro normale, solo che in Italia nessun movimento politico d’opposizione – Chiesa cattolica compresa – aveva una reale influenza sui soldati e sulle masse. Piuttosto, la vera carenza della politica italiana – e non solo italiana – era lo scarso controllo sui militari: oggi Cadorna e Badoglio sarebbero destituiti entro un mese e la struttura di SM è più articolata. Quanto ai soldati, ormai ci si chiede piuttosto come hanno fatto a resistere per tanti anni in condizioni di vita inaccettabili anche all’epoca. La risposta sta nelle tante, significative foto che Razeto ha scelto per accompagnare la narrazione: trincee, paesaggi devastati, ma soprattutto uomini. E’ impressionante il contrasto fra Sturmtruppen e fanteria di linea, fra i duri volti degli Schuetzen che difendono casa loro e lo sguardo straniato del contadino italiano mandato su un altro pianeta. Ma è proprio quel tipo di soldato – oggi introvabile – che alla fine ha resistito e vinto.

La narrazione continua: dopo l’Isonzo e il Tagliamento, alla fine – è il 9 novembre – resta la linea del Piave. Abbiamo perso circa 12.000 morti, 30.000 feriti e 265.000 prigionieri (nota: i morti sono 12 volte meno dell’undicesima battaglia dell’Isonzo) e l’invasore dilaga in tutta la pianura veneta. La ritirata ora si ricompone, l’avanzata nemica ormai raggiunge la zona di esaurimento dell’offensiva. Nel frattempo il comando passa al generale napoletano Armando Diaz, più umano con i soldati. Anche qui Razeto ci fa praticamente marciare insieme ai soldati, con testimonianze di entrambi i fronti. Alla fine del 1918 l’ago della bilancia penderà dalla nostra parte. Per sempre. Ma il regolamento di conti interno al nostro esercito sarà lungo: la commissione d’inchiesta costituita il 19 gennaio 1918 pubblicherà i risultati nel 1919 e i suoi tre volumi rimangono tuttora un documento fondamentale (4). E infatti l’ultimo capitolo del libro s’intitola: Processo a Caporetto.

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Caporetto. Una storia diversa
Claudio Razeto
Editore: Edizioni del Capricorno, 2017, p. 166

Caporetto – una storia diversa

Prezzo: EUR 9,90

ISBN-10: 8877073330
ISBN-13: 9788877073334

EAN: 9788877073334

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NOTE

  1. Fanteria all’attacco / Erwin Rommel . Longanesi, 1982. Il libro uscì in tedesco nel 1937, quando Rommel insegnava all’Accademia militare di Potsdam.
  2. Badoglio, duca di Caporetto / Carlo De Biase. Roma, edizioni del Borghese, 1965
  3. Dal Monte Nero a Caporetto : le dodici battaglie dell’Isonzo, 1915-1917 / Fritz Weber Milano : Mursia, 1972. L’autore è un tenente di artiglieria austriaco, il quale stima i nostri soldati molto più di quanto non facessero i nostri generali.
  4. Dall’Isonzo al Piave : 24 ottobre-9 novembre 1917 / relazione della Commissione d’inchiesta R. D. 12 gennaio 1918, n. 35 Roma, 1919.    3 volumi: · 1: Cenno schematico degli avvenimenti . 2: Le cause e le responsabilità degli avvenimenti · 3 / relazione della Commissione d’inchiesta