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De/scrivere Chiunque Ovunque

da Banksy.

Ho seguito la storia della traduttrice e scrittrice olandese Marieke Lucas scartata perché Amanda Gorman, la poetessa afroamericana che abbiamo visto il giorno dell’insediamento del presidente Biden, non può essere tradotta dalla “troppo bianca” scrittrice olandese. Intanto evitiamo l’equivoco: non è – come si è detto – razzismo alla rovescia; piuttosto, c’è qualcosa di vero nell’affermare che in poesia certe sfumature profonde della lingua e dello spirito può capirle meglio chi a quella cultura appartiene. La fortuna della letteratura ungherese in Italia – sia poesia che prosa – si deve soprattutto alla presenza anteguerra nella città di Fiume/Rijeka di una colta comunità bilingue italiana e ungherese presente fin dall’800 (1). Non è dunque il colore della pelle a fare la differenza, ma la lingua e la cultura alla quale appartieni. Dunque non ci troviamo di fronte a una surreale vertenza sindacale, ma a un modo diverso di affrontare il rapporto tra culture diverse.

Intanto, il rapporto fra la cultura egemonica e la cultura subalterna segue dinamiche precise, secondo l’ormai classica analisi di Cirese (2). Nel caso nostro, a descrivere e interpretare gli altri è tradizionalmente o almeno negli stadi iniziali un’élite progressista o di tendenza, che in buona fede si ritiene capace di interpretare una cultura subalterna. Sicuramente non si è esenti da stereotipi, ma spesso sono stati proprio certi romanzi a tema (come La capanna dello zio Tom) a promuovere idee progressiste, mentre l’esotismo di Salgari non va preso sul serio, pur avendo la mia generazione letto con avidità i suoi romanzi ambientati in India e in Malesia. Il problema si pone infatti quando lo scrittore o il regista si presentano come realistici e profondi conoscitori della cultura che vogliono descrivere, ma cadono invece nello stereotipo, sia in letteratura che soprattutto nel cinema, dove è più facile esser meno accurati o adeguarsi all’idea che gli africani parlano col verbo all’infinito, il che almeno in italiano è errato: l’infinito è più complesso, per esempio, della terza persona singolare del presente e non può essere la prima scelta di uno straniero. Sicuramente c’è molta più Africa nei film di Idrissa Ouédraogo (Burkina Faso) che in tanti film o libri ambientati in Africa, anche se La mia Africa di Karen Blixen non è da buttar via, visto che descrive anche i rapporti interni fra colonizzatori. Né bisogna per forza essere nati nel posto:  la Yourcenar p.es. ne Il colpo di grazia (3) descrive la guerra civile nel Baltico degli anni Venti, pur non essendo mai stata in quei posti. Del resto, per scrivere Le memorie di Adriano non bisognava per forza ssere ospiti dell’Imperatore a Villa Adriana. Questo per dire che se uno scrittore sa veramente il suo mestiere, meglio lasciarlo lavorare: saranno i lettori a giudicarlo. Sempre che sia in buona fede: non lo era p.es. Lion Feuchtwanger, autore di Suss l’ebreo, né il regista Veit Arlan che ne trasse l’omonimo film nazista (1940). Per le offese comunque ci sono almeno da noi i tribunali.

Più onesta è la letteratura che pone culture diverse a confronto diretto: penso a Passaggio in india di Forster, ai romanzi di Kipling, alla già citata La mia Africa di Karen Blixen. In quei casi il protagonista parte tutto d’un pezzo e lentamente cambia il suo modo di vedere il mondo (la famosa Weltanschaung) attraverso il rapporto più o meno traumatico con il diverso, che spesso si rivela cultura egemone alla pari di quella del protagonista. Alla fine il protagonista non sarà più lo stesso, secondo il classico schema del romanzo di formazione.

Ma spesso il problema è che per molto tempo una minoranza etnica o sociale non ha ancora raggiunto quel grado di istruzione e consapevolezza che gli permette di entrare nel mondo della cultura “alta”, oppure non si riconosce nei paradigmi tipici della cultura egemone perché ancora legata a una cultura orale, come nel caso dei Rom, i quali  peraltro hanno anche espresso buoni registi (4). Siamo abituati a considerare il romanzo borghese e il cinema come strumenti perfetti per esprimere la nostra cultura, ma in realtà non c’è niente di universale negli strumenti che usiamo. Oggi il punto di attrito si raggiunge quando questa minoranza raggiunge i posti chiave nelle università, nell’editoria, nella stampa, nel cinema e nella televisione: a quel punto si arroga il diritto di poter esprimere meglio degli altri il proprio punto di vista. Se vogliamo, i meccanismi sono analoghi a quelli della lotta di classe e alla fine l’obiettivo finale è anche qui il potere. Ma attenzione a non cadere nella mitologia: per descrivere gli italiani non si deve essere necessariamente italiani. Magari ne nasce anche un punto di vista diverso, come nei romanzi e negli articoli della scrittrice afroitaliana Igiaba Scego, somala di nascita ma ormai ben inserita nel nostro mondo culturale. E soprattutto, niente censura preventiva, anche se animata (come sempre) da buone intenzioni, anche perché sorge necessariamente un quesito: chi è il giudice?

Ora, in  Who Owns Culture?: Appropriation and Authenticity in American Law di Susan Scafidi (2005), giurista americana della Fordham University, bianca e con probabili ascendenze italiane, la questione viene così enunciata:

Prendere senza permesso la proprietà intellettuale, le conoscenze tradizionali, le espressioni culturali o gli artefatti dalla cultura di qualcun altro. Questo può includere l’uso non autorizzato della danza, dell’abbigliamento, della musica, della lingua, del folclore, della cucina, della medicina tradizionale, dei simboli religiosi ecc. di un’altra cultura (5).

Che significa senza permesso? Chi lo deve concedere? L’ufficio legale dei nativi americani? L’imam della moschea più vicina? Il rapper più autorevole? Non stiamo parlando di marchi commerciali da proteggere o prodotti DOC e DOP, ma di letteratura e cinema. Un onesto scrittore a chi deve chiedere tutte le autorizzazioni necessarie per una descrizione d’ambiente? Ogni volta che i sardi hanno ritenuto irrealistica la descrizione della loro cultura l’hanno fatto capire dopo che il film era nelle sale, e questo era nel loro diritto. Mai invece hanno impedito al regista di sbarcare in Sardegna con una troupe  o preteso di approvare loro la sceneggiatura.

Altra osservazione: un libro vale perché crea discussione. Attenendoci al manuale Cencelli esteso alle arti, non so quanto interessanti sarebbero film e romanzi dove non si può parlare degli altri senza offenderli e dove chi insulta o addirittura descrive un afroamericano o un disabile o un gay deve per forza morire dopo pochi minuti di proiezione. Conta il punto di vista dell’artista; è’ il discorso sulla violenza: a pesare non è l’atto in sé rappresentato, ma l’atteggiamento del regista verso la violenza. E qui è quasi istintivo pensare ai film di Pasolini.

Infine: per quanto riguarda l’ossessione della verginità culturale e dell’autenticità, la letteratura è di per sé inautentica. È falsa, coscientemente e volutamente falsa. È proprio la falsità la natura profonda di questa forma artistica, che parla di persone che non esistono ed eventi che non sono ma accaduti. E c’è chi lo ha saputo fare molto bene: Little bee di Chris Cleave (2009) descrive la dura vita di una quattordicenne nigeriana, ma l’autore è bianco e British. A parte Dashiel Hammett, nessuno scrittore di gialli è stato un vero detective. Sotto il vulcano di Malcom Lowry (1947) descrive il Messico e i messicani, ma con l’aria che tira oggi non dovrebbe scrivere niente. In realtà tentare di superare i confini dell’esperienza personale fa parte del mestiere dello scrittore di narrativa. La posta in gioco non è se il romanzo onora la realtà; ma se lo scrittore può cavarsela nel narrarla.

Postilla: fiutando lo Zeitgeist (lo spirito del tempo, o l’aria che tira se preferite), un poeta bianco statunitense nel 2015 si è spacciato per cinese per essere più facilmente pubblicato e recensito da Best American Poetry (6). Yi-Fen Chou si chiama in realtà Michael Derrick Hudson e il direttore editoriale (un cinese vero) così ha sentenziato: “He wanted power, the capital of multicultural difference” (voleva il potere, il capitale offerto dalla differenza multiculturale). E di potere i cinesi se ne intendono.

NOTE

  1. Le traduzioni italiane delle opere letterarie ungheresi / Péter  Sárközy, in: RSU, Rivista di Studi Ungheresi, 2004. Scaricabile  in PDF: http://epa.oszk.hu/02000/02025/00019/pdf/RSU_2004_03_007-016.pdf
  2. Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale / Alberto Mario Cirese, 1971 e successive ristampe.
  3. Prima edizione 1939. Prima edizione italiana; Milano, Feltrinelli 1962.
  4. Penso a Gagio dilo (lo straniero pazzo, 1997), di Tony Gatlif oppure a Anche gli zingari vanno in cielo (1976) di Emil Loteanu
  5. https://www.jstor.org/stable/j.ctt5hj7k9
  6. https://www.npr.org/sections/codeswitch/2015/09/10/439247027/why-a-white-poet-posed-as-asian-to-get-published-and-whats-wrong-with-that

Roma: Passeggiate coloniali

Non ho ancora letto Roma negata, di Igiaba Scego, ne ho solo sentito parlare stamane alla radio, ma conosco i suoi libri e la ricordo quando, da studente, veniva a studiare nella biblioteca di quartiere dove io ero stato assegnato dal Comune di Roma. Qualche osservazione però posso farla già da ora. Intanto la memoria della storia coloniale italiana a Roma è praticamente relegata alla toponomastica del c.d. quartiere africano: viale Libia, piazza Gondar, via Migiurtina, via Giuba, via Macallè e così via. Il resto è stato rimosso dagli edifici pubblici – penso al comunicato ufficiale di Badoglio che entra nel 1935 ad Addis Abeba – oppure è visibile nel Circolo Ufficiali, come il ritratto del Duca d’Aosta o il quadro d’epoca dell’Amba Alagi. Non esiste più il Ministero delle Colonie (dove è ora la FAO) e l’obelisco di Axum è stato restituito ai legittimi proprietari. Da lì iniziava viale Africa, che ora si chiama viale Aventino e giunge fino alla Piramide, che invece non è stata rubata agli egiziani ma costruita da un antico governatore romano. Quanto al monumento ai cinquecento Caduti di Dogali (1887), è ormai privo del Leone di Giuda (restituito anche quello) e non sta più al centro di Piazza dei Cinquecento, ma è seminascosto nel viale di collegamento con piazza della Repubblica. Gli altri reperti del nostro passato coloniale uno se li deve andare a cercare al chiuso: nel cortile del Museo della Civiltà Romana è affissa l’ultima carta geografica marmorea dell’Impero che completava il ciclo esposto a via dei Fori, mentre il Museo storico della Fanteria ha invece ereditato la parte militare che stava al già Museo Africano di via Ulisse Aldovrandi, dove invece sono rimaste solo le raccolte di scienze naturali ora organizzate come Museo civico di Zoologia. Una collezione completa di modellini delle nostre fortificazioni coloniali sta nel Museo storico dell’Arma del Genio, chiuso da anni. Infine, la sede dei Bersaglieri a Trastevere conserva gelosamente il labaro della disciolta sezione di Mogadiscio. Come si vede, gli unici a ricordarsi ancora dell’Africa coloniale sono i militari. Dunque Igiaba Scego – giovane e affermata scrittrice italiana di ascendenze somale – ha ragione: il passato coloniale italiano è stato rimosso e i giovani non ne sanno niente. A dire il vero, che non fossimo stati santi ed eroi l’ho imparato tardi, dai libri di Angelo del Boca, il primo storico italiano a sfatare, documenti alla mano, l’immagine dell’Italia coloniale foriera di civiltà (vedi la bibliografia). Ma per motivi anagrafici – ho 60 anni – prima vedevo le cose in modo diverso : tutti in famiglia abbiamo avuto almeno un parente che ha combattuto in Africa, l’ultimo è stato mio nonno nel 1940 (nella foto). Ricordo poi benissimo somali, etiopi ed eritrei che si davano appuntamento per gruppi alla Stazione Termini; le donne somale erano vestite in modo stupendo e colorato. E poi rivedevo ogni tanto i nostri parenti nati all’Asmara, dove erano poi rimasti come imprenditori. Ricordo anche i giovani ufficiali somali che venivano addestrati a Cesano anche dopo la fine dell’Amministrazione Fiduciaria della Somalia (1949-1960), a noi assegnata nel dopoguerra dall’ONU. E ricordo ancora il monopolio delle banane somale poi distrutto dall’United Fruits in nome del libero commercio. A Roma c’è ancora qualche vecchia drogheria del centro che reca sull’insegna la dicitura “generi coloniali”. Aggiungo infine che negli anni Sessanta nessuno a Roma era razzista: le nazioni africane sbocciavano come fiori, le colonie erano un capitolo chiuso, non avevamo avuto come i Francesi la guerra d’Algeria e l’ondata degli immigrati africani era ancora al di là da venire. Chi aveva cantato “Faccetta nera / sarai romana” certo non immaginava che un giorno qualcuno ci avrebbe preso alla lettera, senza peraltro scatenare un’altra guerra coloniale. In realtà tra noi e gli africani già nostri concittadini non c’e mai stata una vera comunicazione, e anche questo era un retaggio: il Fascismo da un lato era razzista, dall’altro imitava le leggi dell’Impero Romano, inclusivo per eccellenza, e noi giovani eravamo figli del nostro tempo. Oggi scommetto che nessuno distingue più le varie identità africane nella massa dell’immigrazione, ma io sapevo riconoscere benissimo i somali dagli eritrei o e li rispettavo come tali. Gli Abissini poi hanno a Roma da sempre le loro chiese cristiane di rito copto. Il vero problema era che nessuno di noi parlava con loro, anche se si sapeva che molti erano cittadini italiani, magari per aver fatto il servizio militare in Italia o perché sfuggiti alla dittatura di Mengistu in Etiopia e di Siad Barre in Somalia. E qui passiamo a dire quello che noi italiani *non* abbiamo fatto dopo il colonialismo. In sostanza, è mancata una politica estera coerente, capace di esercitare una vera influenza nelle aree da noi in precedenza amministrate. Non abbiamo saputo creare una vera democrazia e uno stato moderno in Somalia, dove Siad Barre ha imposto una dittatura (1969-1991) e ha contribuito a sfasciare uno stato tuttora a pezzi. Non abbiamo difeso l’Eritrea dall’annessione all’Etiopia (1962). Non abbiamo saputo difendere gli italiani residenti in Libia e cacciati da Gheddafi (1970). Non abbiamo saputo pacificare la Somalia nel 1992-93 (Operazione Ibis), anche se la colpa va attribuita alla’incoerente politica americana. Infine, nel 2011 Gheddafi non è stato difeso neanche da chi ancora pochi mesi prima l’aveva costosamente ospitato a Roma come grande amico. E infine, finora non abbiamo saputo realmente integrare non solo le masse d’immigrati africani non acculturate che ora affollano a vario titolo città e campagne d’Italia, ma nemmeno le ristrette comunità che avevamo ereditato da un recente passato coloniale, anche se per vari motivi esse erano assai meno influenti e corpose di quelle residenti in Francia o nel Regno Unito. E qui entra in scena il libro di Igiaba Scego, che vede le cose dal punto di vista proprio di quei cittadini con un’identità a cavallo di due culture ma sempre tenuti a distanza dalla diffidente Italia matrigna. Ma ne riparleremo presto.

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Libri Roma negataTitolo: Roma negata
Autore: Rino Bianchi, Igiaba Scego
Editore: Ediesse
Pagine: 176
Prezzo: 13 euro

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