Il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese ha oscurato ogni notizia sul buco nero che si sta creando tra Siria e Iraq.
Israele e la Palestina sono proprio sull’altra sponda del Mediterraneo, ma anche la Siria non è poi tanto lontana e forse le ormai migliaia di morti sgozzati o con una pallottola in testa potrebbero pur meritare qualche attenzione, tanto più che non sembra ci sia qualcuno capace di fronteggiare l’avanzata dell’Isis (Stato islamico di Iraq e Siria) o Isil (Stato Islamico in Iraq e nel Levante) qual sia dir si voglia, è impegnato nella creazione di un califfato. Neanche le milizie kurde dei peshmerga, dopo un iniziale successo, non sembrano riuscire a contenere la conquista degli islamisti e i continui sconfinamenti in Libano fanno pensare a un tentativo di allargare l’influenza dell’Isil nell’area.
Probabilmente l’attenzione dei media per i razzi di Hamas su Israele e i raid israeliani sempre più micidiali sulla striscia di Gaza deriva dalla “facilità” dei giornalisti nel muoversi in quei territori e dalla possibilità di dare un volto alle vittime, iniziando dai tre adolescenti ebrei e dal loro coetaneo palestinese, colpiti dall’odio. Morti causati dalla manifesta incapacità delle due parti a riconoscersi e della comunità internazionale, nonostante l’impegno di aver messo in campo geni della diplomazia del calibro di Tony Blair, di offrire delle alternative ad una controversia sull’esistenza che si prolunga da oltre sessant’anni. Una mancata pacificazione dell’area israelo-palestinse coinvolge tutto il territorio mediorientale, influenzando leadership di movimenti e governi più o meno radicali, filo occidentali o islamico jiadaisti.
Nonostante il riavvicinamento dell’anima tradizionalmente palestinese di quello che era Al-Fatah e l’Olp, che governa in Cisgiordania, con quella radicale di Hamas, predominante nella “striscia” di Gaza, con governo di unità nazionale, le scelte politiche continuano ad essere due e il dialogo che cerca Abu Mazen da Ramallah è rifiutato da Hamas a Gaza City.
Un’escalation che mostra tutta la debolezza non solo di Hamas, ma anche di Benjamin Netanyahu e del Governo israeliano.
Due popoli due stati che potranno convivere solo con tanti muri divisori, necessari per renderli dei buoni vicini; sino a quando gli israeliani e i palestinesi saranno guidati da due leadership così deboli eppur intransigenti.
Israele vuol screditare l’accordo raggiunto tra ANP (Autorità nazionale palestinese) e Hamas in una condivisione del potere, mentre Hamas cerca di mostrare al Mondo il crudele volto sionista che distrugge moschee, scuole e ospedali, ma si glissa sul particolare che le componenti radicali palestinesi preferiscono quei luoghi per collocare le rampe di lancio per i razzi da lanciare sul territorio israeliano.
Come gli organi d’informazione, le varie cancellerie, mostrano tutta la loro incapacità a offrire uno sguardo globale, e non globalizzato, sulla situazione internazionale, così anche l’intellighenzia che popola questa Terra si accorge solo di alcune tragedie, come dimostra l’appello – versione completa in italiano – di un centinaio di nomi di varie nazionalità per “esigere” dall’ONU che imponga un embargo sugli armamenti, come quello imposto al Sud Africa durante l’apartheid, verso Israele.
Il problema non può essere focalizzato sul blocco di forniture militari, ma deve salvaguardare la popolazione civile da periodiche esibizioni muscolari. Un tale embargo è più facile applicarlo a Israele, ma di difficile applicazione nei confronti dell’universo eversivo jidaista. Entrambi i contendenti non hanno solo la capacità di scavalcare embarghi e divieti, ma soprattutto la possibilità di fabbricarne in proprio.
Diventerà sempre più impellente una riflessione sui costi e i benefici di un tale conflitto che non migliora le condizioni di vita dei due popoli, anzi si potrebbe scoprire che di certe esibizioni militari ne beneficiano solo i gruppi che tendono a conservare il potere.
Sicuramente per Hamas, con l’attenuarsi del sostegno di sponsor importanti come la Siria e Iran, questo scontro sarà un’occasione per ribadire la sua vitalità, nonostante l’esilio del suo leader Khaled Meshaal in Qatar, mentre Israele, a costo di commettere numerose vittime “collaterali”, afferma la sua forza cieca perché nessuno si deve permettere di minacciarne la sua esistenza.
Il risultato, secondo il filosofo americano e teorico della “guerra giusta” Michael Walzer, è il rafforzamento di Hamas, mentre Netanyahu cerca una scusa per evitare la creazione di uno Stato palestinese.
Mentre un altro intellettuale di origine ebraica, Zygmunt Bauman, afferma che Israele non costruirà mai la pace con una politica della “doppia” giustizia e condannando Gaza a una sorta di enorme prigione a cielo aperto, dove i pescatori non possono allontanarsi più di tre miglia dalla costa per procurarsi quel poco per sopravvivere, sotto lo sguardo sospettoso della marina israeliana.
Non si può vivere sotto la minaccia di missili che possono cadere ovunque e in ogni momento, ma se Israele ha la sua cupola missilistica “protettiva”, Hamas si fa scudo della popolazione e dopo le ennesime vittime “collaterali” nelle strutture dell’Onu è indispensabile una tregua riflessiva, svincolata da ogni pretesa, perché non è in gioco solo la vita di donne e bambini, ma il futuro di una generazione allevata nell’odio e diffidenza verso il prossimo.
Non si può affermare che 2mila morti, in gran parte civili, si possa definire genocidio come asseriscono in molti, ma è sicuramente un massacro e un abuso contro l’infanzia. Un crimine perpetrato in forma differente da entrambe le parti. Un bambino di sei anni ha già vissuto per tre volte le giornate e le notti fatte di esplosioni e paura.
Non si possono vagliare i termini di una tregua. Una tregua è far cessare il micidiale rumore delle armi che preannunciano nuove vittime e non avvantaggiare una delle parti in conflitto. Indire una tregua per tramutare la situazione di non belligeranza in convivenza pacifica.
La tregua non è una soluzione, ma un’opportunità per trovarne una duratura svolta pacifica, come non ha mancato di sottolineare il Segretario di stato statunitense John Kerry in occasione del raggiungimento dell’ennesima tregua che sfumerà poche ore dopo. È un primo passo che purtroppo nessuna delle due leadership vuole fare, anzi cercano ogni possibile occasione per riprendere lo scontro. Una possibilità di risolvere la “questione palestinese” potrebbe essere quella di chiudere in una stanza la dirigenza delle parti in causa e non aprire sino al raggiungimento di un accordo di accettazione reciproca. Questa è la via “diplomatica”, poi c’è quella muscolare modello Orazi e Curiazi da svolgere come sfida in uno spazio desertico e con un numero di contendenti uguale per l’una parte e l’altra, per risolvere all’arma bianca una volta per tutte ogni controversia.
Due possibilità che appaiono improponibili in questa fase. Intanto gli artisti e gli intellettuali palestinesi e israeliani si schierano contro l’ennesima prova di forza dei due contendenti che alla fine non potranno sfoggiare una vittoria, nonostante gli immancabili comunicati trionfalistici, ma il cui unico reale risultato saranno le numerose vittime civili, donne e bambini, in numero sempre più elevato, lasciando un’infanzia orfana non solo dei genitori, ma anche vittime di mutilazioni fisiche e psicologiche.
Ora sembra che il primo passo per una tregua durevole sia stato fatto, ma cosa sono serviti gli oltre 2mila morti e i 17mila feriti, oltre alla distruzione di abitazioni, scuole e ospedali, se non ad incrementare astio tra i due popoli. L’apertura dei varchi della “Striscia” offre un’opportunità di nuovi affari per società, organizzazioni e liberi battitori, senza contare l’aggiornamento degli arsenali.
Non si poteva arrivare al dialogo prima? senza far soffrire una popolazione che vive in un territorio sotto sorveglianza e non creare un’immagine di vittima di Hamas.
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