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Europa: Il futuro delle diseguaglianze

L’insulto e la mancanza di empatia da parte di certi politici diventa sempre più evidente con le continue “lezioncine” di Macron, come nel caso dell’arrogante risposta con la quale stigmatizzava l’affermazione del giovane disoccupato che non riusciva ad ottenere alcuna risposta al suo continuo inviare curricula, con un «Je traverse la rue, je vous trouve un emploi».

Al presidente francese gli basta attraversare la strada per trovare lavoro ed accusare i francesi di essere refrattari ai cambiamenti, al non voler trasferirsi, ma due articoli sui giornali statunitensi mostrano come il problema non è il trovare un posto di lavoro dopo il crollo della Lehman Brothers, ma avere un giusto compenso per poter vivere.

Nell’articolo “Americans Want to Believe Jobs Are the Solution to Poverty. They’re Not.” del NYT, la soluzione alla povertà non è avere un lavoro, come viene ribadito dal Time con I Work 3 Jobs And Donate Blood Plasma to Pay the Bills.’ This Is What It’s Like to Be a Teacher in America.

C’è chi insegna e poi si barcamena tra metal detector e visite guidate per poter non solo pagare le bollette, ma avere una vita dignitosa. Certe volte non basta e si sceglie di “donare” il sangue o magari vendere i propri vestiti. Questa è la “middle class” della provincia statunitense “fortunata” e poi ci sono gli indigenti, quelli che vivono, secondo l’Istituto nazionale di statistica e studi economici (Insee) francese, 13 anni meno dei ricchi, al maschile, i quali potendo vantare un tenore di vita medio di 5.800 euro al mese, possono ambire a restare in vita quasi 84 anni, mentre è probabile che chi ha 470 euro al mese non riesca ad arrivare al 72esimo compleanno.

In Russia le aspettative di vita scendono a 64 anni per gli uomini, mentre in Italia e in Spagna è intorno agli 80/84 anni senza essere benestanti, ma la qualità della vita non è comunque delle migliori.

Gli anni ‘70 con i suoi conflitti hanno portato una rinascita culturale ed economica che negli anni ‘80 è ‘90 si è consolidata tanto da far pensare che nel futuro poteva solo andar meglio, ma l’incapacità del centro destra nel gestire l’euro ha portato all’impoverimento di gran parte degli italiani, che solo ora sembravano di intravedere un lumicino, ma è stata presentata la “manovra popolo” che alcuni hanno voluto ribattezzare “manovra contro il popolo”, perché è manovra in deficit che può spaventare i mercati. Una manovra ispirata dalla Francia, senza voler contare che la situazione francese è ben diversa da quella italiana.

La Francia conta un Pil in rapporto con il debito pubblico pari al 96,4 , mentre l’Italia ha il 130%, poi ci sono altri fattori sommati di esposizione, ma in definitiva la Francia offre maggiori garanzie dell’Italia per gli investimenti/prestiti finanziari, pertanto è un rischio per gli italiani affidarsi ad una manovra in deficit per puntare alla crescita: immettere maggiore denaro non è una garanzia che poi circoli, perché si tagliano le tasse avvantaggiando però la fascia alta della società che è minoritaria nella popolazione.

Macron, nel tentativo di confutare l’appellativo di “presidente dei ricchi”, vuol varare un investimento di 8 miliardi in quattro anni, mentre il connubio pentastellato leghista vuol farsi amici tutti con il “reddito di cittadinanza” che dovrà essere modulato con dei controlli per renderlo inaccessibile agli “indigenti” dell’economia sommersa, del lavoro in nero, da una parte e dall’ altra con la Flat tax per rendere i facoltosi più ricchi, mentre chi non dovrebbe avere dei vantaggi è la fascia sociale media, quella più numerosa e che si troverà nel bel mezzo di una crescente disuguaglianza, fomentata dall’indebitamento.

Una disuguaglianza, quella italiana, che non si limita nel evidenziare la disparità tra gruppi sociali, ma anche tra le diverse aree geografiche. Una povertà che il Rapporto Caritas 2018 sentenzia in crescita, nel meridione tra gli italiani nel nord tra gli stranieri.

La mancanza di empatia, mascherata da un menzognero interesse per alcuni a discapito di altri, sembra la sigla distintiva della politica interessata a raccogliere consensi da un elettorato che ha dimenticato o non ha ancora scoperto che può avere una sua opinione e non è necessario accodarsi a chi grida e spaccia le sue decisioni per scelte popolari.

Si agita lo spauracchio di complotti “demo-pluto-giudaico-massonici” di tragica memoria, prendendosela con i tecnocrati di Bruxelles, con l’Unione europea incompiuta e con Soros, quando un governo pentastellato leghista si prepara a condonare, sotto mentite spoglie, i miliardi dovuti allo Stato.

Poi ci sono le scelte temerarie che hanno portato lo Stato a scommettere sui derivati per ridurre il deficit, creando una lacuna, tra il 2006 e il 2016, nei conti pubblici per quasi 24 miliardi di euro, ponendo la manovra all’attenzione della Corte dei Conti.

Il pentaleghismo parla di un complotto dilagante che coinvolge anche la Banca centrale europea, il Fondo monetario internazionale e le agenzie di rating: l’Italia contro tutti questi miscredenti.

Orban ha usato Soros come “nemico”, ora anche i leghisti ne vorrebbero trarre vantaggio nell’additarlo come un capitalista impegnato nella solidarietà e di origine ebrea, d’altronde anche Trump ha imputato a Soros l’organizzazione delle manifestazioni contro la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte Suprema.

Anche il NYT potrebbe, se riescono a leggere almeno solo il titolo dell’articolo, rientrare tra chi complotta contro l’Italia “Why Italy Could Be the Epicenter of the Next Financial Crisis” (Perché l’Italia potrebbe essere l’epicentro della prossima crisi finanziaria), mentre The Economist amplia il panorama della prossima recessione con “The next recession”, coinvolgendo Trump e la sua guerra commerciale.

Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, oltre a rinnovare l’ammonimento sul prepararsi ad una nuova crisi ed a ricordare all’Italia che come membro della Ue è tenuta a rispettare le regole, pone l’accento sulla necessità di affrontare le crescenti diseguaglianze dei redditi e delle ricchezze non con delle politiche nazionali, come dimostrano i condoni italiani mescolati a redditi di cittadinanza, ma con uno sforzo comune a livello internazionale.

I vari governanti annuiscono alle affermazioni di Christine Lagarde, per molti una moderna Cassandra, ma continuano nello sport nazionale di ottenere un prestito senza rendersi conto che si perde un po’ della propria sovranità e chi ha elargito vuol proteggere comunque i suoi investimenti.

Il ministro francese degli affari europei Nathalie Loiseau, in un’intervista al quotidiano francese Le Monde (Budget italien: la ministre des affaires européennes française conteste l’argument démocratique invoqué par Rom), ammette le « trasgressioni” della Francia, ma ritiene anche difficile per l’Italia riuscire a coniugare le richieste degli elettori della Lega Nord e del Movimento a 5 stelle, tra la flat tax e l’amnistia fiscale con il reddito di cittadinanza e la riforma delle pensioni.

Al coro dei preoccupati per lo spread si aggiunge anche Draghi, governatore della Banca centrale europea, aggiungendo che non ha la “Cristal bowl” la sfera di cristallo per predire il futuro, ma la Bce non è stata istituita per finanziare i deficit nazionali. Uno spread sui 300 punti solo perché i governanti italiani non riescono a convincere l’Europa nella volontà dell’Italia di rimanere nella Ue e nell’eurozona

È difficile prendere sul serio chi proclama di voler rimanere nell’Unione quando dichiara di non rispettare le sue regole e c’è anche chi prospetta, visto il consolidato risparmio italiano, un “autofinanziamento”.

L’Italia gioca sulla scadenza dei vari commissari europei, con le elezioni, e la Ue cerca di procrastinare ogni decisione punitiva per non fomentare umori antieuropeistici.

I due si studiano, aspettando le elezioni europee di primavera, a spese di quegli italiani che hanno qualcosa da perdere senza saperlo.

L’Italia è lasciata sola, in questa battaglia, anche dagli altri paesi che proclamano l’euroscetticismo, ma che gridano il rispetto delle regole.

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Lo stallo Regeni e i balletti di Stato

  • Ha parlato direttamente col presidente Al Sisi, Roberto Fico, presidente a sua volta, del Parlamento italiano, dopo aver incontrato in precedenza l’omologo egiziano. Differentemente dal collega Di Maio, ha parlato esclusivamente del caso Regeni affermando che “le indagini sono a un punto di stallo”, cosa che Sisi sa benissimo semplicemente perché è il regista della palude in cui si dibatte l’Egitto dal 2013. Data della sua presa del potere, operata con un golpe, prima bianco e dopo quarantacinque giorni rosso sangue, colato dai corpi di centinaia di concittadini che il presidente dal sorriso gentile faceva massacrare dai suoi militari e poliziotti. L’Italia con gli esecutivi Renzi e Gentiloni ha fatto inizialmente la voce grossa, ha ritirato l’ambasciatore dal Cairo per poi rintrodurlo con l’alibi che avrebbe controllato da vicino (sic) i passi istituzionali della nazione sull’omicidio del ricercatore. Tutto questo dopo che gli stretti collaboratori di Sisi, finanche il ministro dell’Interno Ghaffar e quello degli Esteri Shoukry, coprivano i sottoposti esecutori di sequestro, torture e omicidio di Regeni. Sicuri dell’impunità che il nuovo raìs garantisce loro, visto che di arresti, sequestri, torture, galera, assassini e sparizioni l’Egitto dei militari di Sisi fa un uso sistematico. Come le peggiori dittature mondiali.

    Con questi sanguinari, pur dal rassicurante aspetto, i politici italiani pensano di dialogare. Se non sono proprio fuori di senno, possiamo pensare che inscenino anch’essi una sceneggiata. Fanno quel che i vertici d’una nazione devono fare, ma senza prendere contromisure nei confronti della chiarissima tattica della Sfinge in divisa che promette, ma tergiversa e soprattutto ostacola indagini e processo. Come abbiamo visto, in Egitto a processo vanno gli scampati dal massacro della moschea di Rabaa, l’Epifania di quel che Al Sisi avrebbe riservato al suo popolo, iniziando dagli odiati Fratelli musulmani, per passare a oppositori della sinistra giovanile, e socialisti, e giornalisti, e blogger e attivisti dei diritti. Tutti costoro hanno riempito le galere egiziane, mentre gli attuali presidenti e vicepresidenti cinquestelle e leghisti guardavano probabilmente ad altro, intenti a quell’avanzata elettorale volta a gabbare i claudicanti governi del Pd. Nel febbraio 2016 apparve in tutta la sua drammaticità la vicenda Regeni, uno scempio che confermava ciò che da anni era messo in cantiere dalla macelleria egiziana. La cui dirigenza, non a caso militare, rievocava i ‘garage Olimpo’ dell’Argentina di Videla. Come allora, la comunità internazionale ha taciuto e continua a farlo.

    L’Italia, parte offesa, si barcamena in goffe iniziative con l’Egitto, i cui vertici si beffano delle inchieste della procura di Roma, che ha esplicitamente denunciato le falsità e l’omertà del governo cairota. Altro che collaborazione! Altro che promesse di far luce! Sisi governa su una popolazione soggiogata o adescata col terrore, governa nel buio pesto delle prigioni dove in questi anni sono sparite attorno alle cinquemila anime. Questo denunciano talune Ong umanitarie che hanno dovuto abbandonare quel Paese per non finire esse stesse risucchiate nel gorgo della repressione. Si può dialogare con dei criminali travestiti da statisti? E’ la domanda che gli attuali esponenti delle Istituzioni italiane, dai Di Maio ai Fico, viaggiatori e interlocutori di Al Sisi, si sarebbero dovuti porre. Se sì, al di là di diplomatici balletti, che differenti misure prende il governo ‘gialloverde’ rispetto a quelli rosapallido del Pd? All’orizzonte non si vede nulla, se non moti autoreferenziali, attenti a non disturbare rapporti commerciali col partner egiziano, per gli affari dell’Eni che sono solo in parte affari nazionali. Essi potrebbero cedere il passo a una sana morale di quello stato di diritto che sosteniamo di difendere e che ‘l’amico Sisi’ ha  calpestato, facendo trucidare un nostro cittadino. Diventato uno di loro, una vittima di quel regime cui non dovremmo riservare colloqui e strette di mano, ma esplicite accuse.

    Pubblicato 17 settembre 2018
    Articolo originale
    dal blog di Enrico Campofreda

Afghani: rimpatri forzati fra le bombe

Tornano. Sono costretti a tornare nel Paese da cui erano fuggiti per cercare un’esistenza futura. Sono migliaia di afghani che, come altri migranti e rifugiati, si vedono respinti dall’aria che tira in Europa, un’aria xenofoba fomentata o subìta dai tanti governi Ue. Che in troppe circostanze, e nelle più diverse latitudini, non hanno attuato un’adeguata politica dell’accoglienza e dell’inserimento delle emergenze migratorie, così da ritrovarsi decine di migliaia di vite in sospeso. E nelle condizioni più varie: dalle para-detenzioni di taluni centri di accoglienza, alla ghettizzazione e all’autoemarginazione in città e campagne di chi cerca di arrangiare un’agra realtà pur di non tornare negli inferni conosciuti. Di chi si fa fantasma sociale pur rientrando nella catena dell’uso e dello sfruttamento di mano d’opera. Un fenomeno discusso dalla gente per via, prima che dai politici nelle sedi istituzionali e nei salotti televisivi. Discusso spesso in assenza d’informazioni, lamentando le proprie contraddizioni crescenti, col sangue agli occhi per la contrapposizione dei diritti e lo scontro razziale e razzista che ne consegue. E l’Italia non è fra le piazze peggiori, visti i muri e le minacce sollevati in questi anni dal pensiero neonazista riagitato nell’Europa della tradizione e della conservazione. Indifferenti all’orgiastica competizione dell’assassinio di civili per accaparrarsi la leadership del terrore che è in atto da due anni fra talebani e Isis del Khorasan, i governi del nostro continente aumentano i rimpatri forzati di richiedenti asilo afghani.

Nel 2016 avevano respinto circa 10.000 individui, compresi molti minori, nell’anno che s’è chiuso la cifra è aumentata, nonostante siano cresciute le vittime nelle province dove gli afghani vengono rispediti. Ma a premier e ministri degli Interni dei Paesi dell’Unione, anche quelle anime politiche che si fanno belle di sani princìpi di cristiana ospitalità poco interessa il contorno esterno. Premono ragioni di Stato e i risultati elettorali di un’Occidente ormai assillato da paure e chiusure, una società che si asfissia in una futile tecnologia della pace, trasferendo i prodotti della propria tecnologia della morte nel mondo posto sotto tutela. Cui s’aggiunge la sciagurata potestà delle alleanze economiche e geostrategiche che disegnano i disastri presenti nei luoghi di crisi. Con l’ultimo governo locale, frutto delle fallimentari alchimie sperimentate nei sedici anni di occhi e mani sull’Afghanistan, l’Occidente ha siglato il patto “Joint way foward”. Come nei tanti progetti sparsi dall’imperialismo  attorno alle sventure create, di condiviso in quella sigla non c’è nulla. Anzi, niente di più unilaterale si nasconde nella proposta rivolta al presidente Ghani. Se il Paese non accetterà di riprendere gli afghani che le nazioni rispediscono al mittente, Kabul, che già deve fare i conti coi serrati assalti jihadisti e talebani, vedrà tagliarsi i fondi  con cui l’Occidente lo mantiene in un comatoso stato di sopravvivenza. L’Afghanistan risponde a una tipologia di rentier-state. Utilizzato dalla Nato, e principalmente dagli Usa, quale avamposto militare strategico per l’Asia. Le basi aeree di: Kabul, Bagram, Parvan, Charikar, Kandahar, Khost, Paktia, Maza-e Sharif, Jalalabad garantiscono al Pentagono osservazioni, controllo e incursioni tramite F-16 e droni.

L’altra rendita proviene dallo sfruttamento del sottosuolo dove, nell’ultimo quindicennio, sono state scoperte vene minerarie cui è interessata l’industria bellica e l’high-tech. In realtà molti rilievi erano stati fatti a inizi anni Ottanta, durante l’occupazione sovietica. I russi, da sempre attenti a fonti energiche e materie prime, avevano compiuto scandagli, sapendo che per conformazione geologica gli urti fra subcontinente indiano e piattaforma asiatica aveva stratificato vari metalli. Dal 2004 l’Us Geological Survey, grazie all’occupazione dell’Enduring Freedom, ha formalizzato le ispezioni attorno a giacimenti di rame, ferro, cobalto, alluminio, mercurio, litio e le famose ‘terre rare’, stimando in mille miliardi di dollari il patrimonio di quelle viscere. A sfruttare talune riserve, il rame ad esempio, copioso in un punto dove c’è un’antichissima area archeologica (Mes Aynak) è il China Metallurgical Group. Il governo Karzai ne cedette l’estrazione trentennale all’azienda di Pechino in cambio di tre miliardi di dollari. Come per altre concessioni avvenute in questi decenni (terreni per le basi aeree, terreni per la coltivazione dell’oppio) non se ne è avvantaggiato il Pil del Paese; i capitali sono finiti nelle tasche di uomini di governo, clan familiari, clan tribali, Signori della guerra. Perché chi vuol sfruttare le risorse, dall’esterno e dall’interno, consente solo questa via. In quest’Afghanistan vengono rispediti, a morire o patire, i ragazzi che cercano un domani nella vecchia Europa.

Enrico Campofreda
Pubblicato 30 gennaio 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo

Migrazione: L’ipocrisia sovranazionali

L’Onu rimprovera l’Unione europea, giudicando “disumana” la cooperazione con la Libia per la gestione dei flussi dei migranti. Precedentemente era il Consiglio d’Europa a chiedere chiarimenti a Roma sugli accordi con la Libia nella gestione dei flussi migratori, il ministro dell’Interno Marco Minniti cerca di rassicurare il Commissario europeo per i diritti umani Nils Muiznieks, affermando di vigilare sul reale rischio di tortura o trattamenti inumani, mentre l’inesistente responsabile della Farnesina Alfano che cerca di tranquillizzare l’Onu volando a New York e il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani risponde indirettamente all’Onu programmando l’invio di una delegazione per verificare cosa sta accadendo.

Critiche all’Italia dopo aver lodato il suo impegno nel Mediterraneo e nell’accoglienza, nonostante la latitanza dell’Ue, oltre ad segnare il progetto dei corridoi umanitari, gestiti da comunità cristiane, come soluzione per la regolamentazione dei flussi migratori, ma ancora nessuno ha sviluppato un’iniziativa finanziata totalmente dalle associazioni, soprattutto con i fondi dell’8%, che li hanno promossi.

Le “scandenti” condizioni nei campi di “raccolta” dei profughi in Libia erano già note tanto da spingere l’Onu ad aprire un centro di transito per i profughi mentre da più parti si era chiesto l’intervento delle Ong, precedentemente accusate di essere in combutta con i trafficanti di esseri umani, nella gestione dei centri.

La confusione è tanta e pensare che solo poco tempo fa l’Onu aveva offerto ai sauditi un posto nella difesa dei Diritti umani! Precedentemente anche la Libia di Gheddafi aveva avuto l’onore di fregiarsi del titolo di difensore dell’umanità, ma d’altronde nel club di Diritti umani sono presenti anche gli Stati Uniti che della pena di morte sono grandi fautori.

Istituzioni sovranazionali che si mostrano, nel migliore delle ipotesi, confuse, appannate nel giudizio, senza una deontologia aperta al Mondo e non ostaggio degli equilibri variabili di un edificio di vetro che simula la trasparenza delle scelte.

Affidare, in piena solitudine, ad una nazione di rapportarsi con un paese senza un unico governo riconosciuto con il quale trattare è da folli o forse da saltimbanchi della diplomazia, con un ministro degli Affari Esteri latitante, specialmente quando appaiono e scompaiono altri “giocatori” per minare gli sforzi italiani e fare i propri interessi, senza guardare in faccia che siano alleati, amici o cugini.

L’accordo italo-libico si è sviluppato in mille rivoli, quante sono le realtà governative “nazionali” e locali della Libia, non sempre cristalline: un po’ come la strategia diplomatica francese che non si allinea alle posizioni dell’Unione europea e agli sforzi italiani.

Gli interessi francesi vanno ben oltre ai Diritti quando c’è fare business, come la Ue, giustificando le chiusure delle frontiere ai profughi con lo sbandierare l’intento di perseguire una politica europea sui flussi migratori.

Una Francia più propensa a concorrere solitaria che a concordare con la Ue un dialogo con l’Africa, come dimostra il viaggio di Macron e Gentiloni si adegua per non trovarsi impreparato al summit Africa Europa.

Un vertice, quello Africa-EU Summit 2017, che ha affrontato, tra il 28-29 novembre ad Abidjan (Costa d’Avorio), vari i temi: commerci, cooperazione allo sviluppo, alla sicurezza, ambiente, relazioni diplomatiche, ma soprattutto la gestione delle migrazioni, oltre che il terrorismo, definendo i ruoli per salvare, così afferma Federica Mogherini, Alto Rappresentante Ue per la politica estera, dall’infero libico tutte quelle persone bloccate nei centri di detenzione: i paesi africani si dovranno impegnare ad accogliere i concittadini e l’Europa a finanziare i rimpatri.

L’Alto Rappresentante Ue per la politica estera ha anche affermato che la tragica situazione dei profughi in Libia era precedente agli accordi che la Ue e l’Italia hanno stipulato con le diverse situazioni politiche libiche.

Flussi migratori che sono anche nei pensieri del governo della Costa d’Avorio che ha “arruolato” rockstar e calciatori per dissuadere i giovani ivoriani, i Millennials che vanno di fretta, la cosiddetta «Génération pressée pressée», a non migrare e soprattutto a non utilizzare i barconi della morte. Non è solo un suicidio, ma si rischia di «fare gli schiavi a Tripoli».

L’Unione europea, oltre alla migrazione, dovrà, prima o poi, affrontare anche l’espansione cinese nel continente africano e il proselitismo turco.

Immediatamente dopo il summit euro-africano ecco il Rome MED – Mediterranean Dialogues (30 novembre al 2 dicembre 2017), con la partecipazione di esponenti di governo e rappresentanti di organismi internazionali, oltre che di società, ad essere un’altra occasione per confrontarsi sui temi della sicurezza e della migrazione.

Il Dialogo mediterraneo è servito al vicepremier libico Ahmed Maitig a minimizzare le polemiche sull’accordo firmato con l’Italia sulla migrazione e rilanciandolo come modello per altri paesi europei, perché la Libia cerca altri partner, scherza sula competitività italo-francese nel tessere duraturi rapporti economici, ma guardando il filmato della Cnn sulla compravendita delle persone non si può dimenticare che la Libia non ha firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati del ’51.

D’altronde quanti altri paesi dell’area MENA (Middle East and North Africa – Medio Oriente e Nord Africa)? Certamente non i paesi della penisola arabica o gli iracheni, iraniani e siriani.

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Migrazione | Conflitti e insicurezza alimentare
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Migrazione: Il balzello pagato dall’Occidente

L’Europa continua a distribuire soldi per bloccare la migrazione, rincorrendo i cambiamenti dei flussi, affidandosi a stati o a gruppi che non hanno mai dato dimostrazione di operare nell’ambito dei Diritti umani.

Si è trattato per arginare gli spostamenti dai paesi dell’est, dal Medioriente e dal nord Africa, lasciando il lavoro sporco agli altri, limitandosi ad elargire contributi, mostrandosi sempre con le mani pulite, ma non è così. L’Europa cerca di creare una rete di sentinelle esterne e interne ai confini europei.

Una Unione europea che foraggia alcuni stati perché “ospitino” migliaia di persone, fa finta di ignorare l’edificazione di muri e il Parlamento europeo si lava la coscienza promovendo il Premio Sacharov  per la libertà di pensiero, affermando di sostenere i diritti umani.

Delega ad altri drammi e scontri sociali per non sapere come si tiene lontani dall’Europa i popoli che fuggono da conflitti e carestie, ma poi accade che uno dei tanti Adan muore a 13 anni nelle civilissime contrade europee per il rispetto delle burocrazie e qualcuno si indegna perché è venuto a conoscenza che è accaduto davanti alla propria porta e non gli avevano nascosto il fattaccio.

La Ue ha una fievole voce nell’ambito dei Diritti umani, fa delle dichiarazioni di rito, magari minaccia, ma non riesce ad andare ai fatti. L’Unione che esiste quando fa i richiami e le reprimende, apre procedure d’inflazione ai singoli stati o infligge multe sui rifiuti o sull’anti-trust delle grandi compagnie, non riesce poi ad aggregare l’attenzione per partecipare agli oneri di una politica migratoria condivisa e non lasciata come zavorra ad alcuni paesi, salvo quando è il commissario per i Diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks che invia una missiva direttamente al ministro degli interni Minniti per avere dei chiarimenti sull’accordo con Libia, sul tipo di sostegno operativo e se i diritti degli migranti sono rispettati.

La questione dei migranti economici è un ispido punto che ha trovato l’ostilità di Macron non più lontano di un paio di mesi fà, ma Junker conosce i numeri e prevede che l’Europa avrà bisogno anche di nuovi lavoratori, una necessità per un continente europeo che sta invecchiando, prospettando l’apertura di canali legali, ma perché proporre dei «progetti pilota, quando i corridoi umanitari sono ben collaudati dal dicembre del 2015, dalla Comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione delle Chiese Evangeliche e dalla Tavola Valdese che hanno sottoscritto un protocollo con Viminale e Farnesina, corridoi attivati in Libano, Marocco e Etiopia, a spese delle stesse associazioni, grazie alle risorse provenienti dall’8 per mille, con controlli scrupolosi e la rilevazione delle impronte digitali?

I corridoi umanitari pensati per la Ue sono differenti, non sono a fine umanitario, prevedono di agevolare l’ingresso in Europa dei migranti qualificati e il rilascio della Carta blu, contrastando il pensiero di Macron del luglio passato, basato sulla diversificazione dei diritti, ostacolando la migrazione di chi è in cerca di lavoro, ribadendo la necessità di istituire “una polizia europea delle frontiere”.

Più che una polizia europea abbiamo, con le ultime elezioni politiche in Austria e nella Repubblica Ceca, un cordone xenofobo che dalla Polonia scende giù nei Balcani per bloccare la nuova via di migrazione che dalla Turchia porta alla Romania, più che alla Bulgaria presidiata da milizie anti profughi, dove la migrazione è attiva con battelli per attraversare il Mar Nero.

È un’illusione pensare di bloccare le migrazioni, tuttalpiù si possono momentaneamente arginare, ma poi trovano altre vie ed ecco timidamente si riapre il flusso dal Marocco alla Spagna, ma anche dalla Tunisia e molti sono i migranti salvati dai pescatori tunisini e altri, molti altri, come purtroppo la sessantina di corpi, tra giugno e agosto 2017, sono arrivati senza vita sulle coste tunisine di Zarzis.

L’Occidente paga per spostare sempre più lontano dai sui confini i centri per “ospitare” i tanti profughi, invece di creare e gestire in prima persona la migrazione, le strutture di accoglienza e di assimilazione.

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Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti