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Un premio anglofono autoreferenziale

GL Roma e Anglofonia del Best Practices AwardÈ imperante l’anglofona mania di infiocchettare l’antico e nobile linguaggio italico con contributi british eccessivi e inutili in nome di una cattiva abitudine provinciale molto nostrana, forse con l’idea malsana di rendere più accattivante e intrigante l’enunciato o il discorso da fare. È dimostrato anche con Best Practices Award, non unico in questa usanza, come anche il scegliere di ricevere delle autocandidature piuttosto che monitorare e indagare sulla realtà urbana per scovare quale attività interviene profondamente sul tessuto sociale di una città.

Molte sono state le persone che hanno percorso le strade di Roma lasciando una traccia in ognuno che hanno incontrato, ma non hanno avuto riconoscimenti.

Un premio nato per evidenziare le buone pratiche dovrebbe iniziare con l’utilizzare e promuovere la lingua italiana, come cerca di fare, con risultati altalenanti la Società Dante Alighieri o magari nel suo piccolo Luigi M. Bruno con le sue aspre riflessioni dalle pagine di questo magazine.

Non è necessario utilizzare indiscriminatamente termini come: location, briefing o make-up, quando in italiano abbiamo luogo, riunione o trucco. Può apparire estremistico il comportamento dei francesi che in difesa della propria lingua si esibiscono in traduzioni eccentriche, un esempio è il computer che si trasforma in ordinateur, ma si può curare di più il quotidiano linguaggio. Né è auspicabile ritornare a tradizioni tipiche del bieco ventennio che arrivava, nel suo furore indigeno, a chiamare arzente il cognac e Louis Armstrong in Luigi Fortebraccio!

Una delle buone pratiche per Roma è denunciare il degrado urbano, difficilmente scindibile da quello sociale, capace di dare delle soluzioni per migliorare la vita quotidiana dei cittadini.

Per fortuna Best Practices Award ha un sottotitolo: “Mamma Roma e i suoi figli migliori”, ma appare, come altri premi, accodato all’offrire lustro a chi li conferisce più a chi viene attribuito.

In certi casi basterebbe poco per dare un’immagine differente di Roma, magari l’Atac ne guadagnerebbe curando di più il trasporto pubblico se non in tutta la città almeno nei percorsi “culturali” come l’asse Piramide – Ostiense – Basilica di San Paolo che partendo dalla piramide di Cestio e porta san Paolo, con l’omonimo museo, porta al complesso conventuale e museale di san Paolo, passando per diverse testimonianze di archeologia industriale recuperate a nuove funzioni come l’ex centrale Montemartini a museo o fornaci e vetrerie locali di svago e sedi universitarie, senza dimenticare il lungo e laborioso lavoro di riconversione dei Mercati generali nella città del divertimento adolescenziale e per la promozione culturale.

Forse c’è troppa carne al fuoco con un premio anglofono autoreferenziale che non si scomoda a guardare nel sottobosco di una città fatta perlopiù di apparenza, facendosi sfuggire fragoline e lamponi, perché è meno faticoso aspettare chi si presenta invece di andare a cercare chi se lo merita.

 

Wanda, la peccatrice

Quando le sante e onorate puttane si chiamavano tutte Wanda! … .Montanelli per celebrare sentimentalmente la chiusura nel ‘58 delle cosiddette “case chiuse” scrisse un memorabile articolo intitolato “Addio Wanda!” Ah! Ne sanno qualcosa i nostri padri, tempo che fu! (scusate l’eccesso di punti esclamativi). Così rivedere il malcapitato e dimenticatissimo film: “Wanda, la peccatrice” di Duilio Coletti (1952) ci ripiomba nel tepore di anni che crediamo migliori perché lontani, come remota è la nostra infanzia. Quando la brava puttana (ma accadeva solo nei film?) salvava dal suicidio un brav’uomo, lo consolava, ficcandogli in tasca di nascosto soldi e speranza. Il cinema nostro di quegli anni era così: prostitute ravvedute,”donnine allegre” che diventano suore, emigranti che fan fortuna, figli ritrovati, malvagi scornati col condimento di canzonette sceme e sentimentali (solo nel ‘58 Modugno rivoluzionerà a San Remo il focolare casereccio dell’italico tran—tran melodico).Se poi volete sapere come va a finire la storia accade che l’uomo gioca, vince, fa carriera, torna dalla santa puttana sventolandole le enormi banconote da diecimila, quindi la accasa, ma incombe il figlio ritrovato, le convenienze borghesi, la dignità, il decoro, così l’ex passeggiatrice che ama di amore puro il suo salvatore—salvato si mette eroicamente da parte. Il sacrificio della donna perseguitata era un “topos” scontato nei melodrammi dei beati anni ‘50. Melodrammi appunto, straziati e strazianti, così che ci si aspetta che da un momento all’altro i protagonisti si mettano a cantare. Ma il contorno è volutamente realistico,disadorno, come era in uso nel post—neorealismo rosa. Eravamo così e ci piacevano le storie che sapevano di pasta fatta in casa, di bucato con la cenere, di sigarette sfuse e cattiva brillantina. Forse eravamo assetati di onorabilità e di giustizia: i cattivi cattivissimi e i buoni buonissimi. Non chiedete a “Wanda, la peccatrice” e ai suoi consimili dignità d’arte non cerchiamo il pelo nell’uovo quando si va al teatro dei pupi. Torniamo a indossare i cappottoni militari rivoltati, i pantaloni alla zuava, i baffetti alla Nazzari e tuffiamoci nella dolce, materna improbabilità che ci cullò in quegli anni difficili. Dobbiamo un tributo di grata memoria a tutte le Wande che furono nel paese che si tirava su dalla guerra fischiettando:”Mamma!” o “Torna piccina mia!”. Uno spaesato Frank Villard coadiuva l’eroina Wanda—Yvonne Sanson, monumentale maggiorata del tempo condannata al consueto ruolo di peccatrice redenta, ripete a memoria i cliché di traviata in carne. Non perdetevi Giulietta Masina e Paolo Stoppa nelle gustose macchiette della piccola passeggiatrice (tornerà con la Cabiria di Fellini) e del geloso protettore—amante.

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