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PUTIN lo ZAR

Fra tutti i libri usciti in argomento, questo è finora il più completo e attendibile. In quasi 800 pagine, complete di indici e centinaia di note, viene riscostruita la carriera di Putin e dei suoi collaboratori, alcuni dei quali erano finora persino ignoti. Autrice ne è la giornalista inglese Catherine Belton, già specialista del Financial Times e corrispondente da Mosca, la quale si vale di fonti tutte documentate anche se spesso coperte da anonimato per comprensibili motivi di sicurezza: la gestione Putin ha lasciato fin dall’inizio una serie di “suicidi” eccellenti. Ma proprio perché giornalista del Financial Times, la Belton segue fin dall’inizio le piste del denaro: fondi neri accumulati all’estero dal KGB (ora FSB, ma poco cambia) già al tempo dell’Unione Sovietica tramite società di comodo, intermediari e tangenti varie. All’epoca non era solo un modo per aiutare l’economia socialista, ma anche per fare pressioni su governi, partiti e movimenti dei paesi occidentali o finanziare movimenti di liberazione africani e sudamericani. Questo traffico era gestito dal KGB, che rispetto agli uomini del Partito aveva uomini più colti, preparati e inseriti nelle società capitalistiche. Anche se le versioni ufficiali sono tante, su un punto le fonti concordano: Putin ha fatto carriera in Germania Est (DDR), a stretto contatto con la STASI (i servizi di sicurezza DDR) ed è tornato a San Pietroburgo una volta caduto il Muro di Berlino, come del resto tutti i suoi colleghi. Nel frattempo, dopo le coraggiose quanto maldestre riforme di Gorbaciov il Partito Comunista (PCUS) cerca di riconquistare il potere ma non riesce neanche a fare un colpo di stato decente, col risultato di sparire del tutto e di far salire al potere Boris Eltsin. Semplificando molto, avviene in breve tempo il passaggio da un’economia socialista a un capitalismo d’assalto gestito da una ristretta cerchia di imprenditori, banchieri privati, mafiosi ed ex-dirigenti del Partito, i quali a prezzi ribassati si accaparrano gli enti di stato attraverso aste riservate, mentre i prezzi di beni e servizi finora calmierati schizzano in alto in un libero mercato, per il quale la gente non è assolutamente preparata. Lo Stato è in bancarotta e dunque cede quote di aziende e stock di materie prime a pochi oligarchi e a prezzi stracciati, mentre la gente fa la fame. Nessuno pensa ad un azionariato diffuso e di fatto proprio nella patria del Socialismo si crea una società dove pochi capitalisti detengono il monopolio delle risorse di un paese immenso quanto squilibrato. Quello che è peggio, le risorse così accumulate vengono investite all’estero o nella finanza invece che nell’economia reale e nella ricerca, col risultato che ancora oggi la Russia basa quasi tutta la sua economia sulle esportazioni di materie prime invece che sullo sviluppo di tecnologie e di industrie manifatturiere all’altezza coi prodotti occidentali.
Ma questo si sapeva. Quello che non era chiaro era il modo in cui l’élite del KGB si è ripresa lo Stato non solo occupando il vuoto lasciato dal Partito, ma soprattutto levando di mezzo gli arricchiti nel momento in cui costoro sono entrati in politica e oltre i soldi vogliono anche il potere. E qui il contesto diventa quello di un romanzo criminale: Putin e i suoi non vanno mai per il sottile quando si tratta di richiedere indietro il maltolto, sembra anzi di seguire le gesta di una banda mafiosa. Forte poi dell’appoggio popolare, che vede in lui la rivalsa per ricostruire la Nazione se non l’Impero e ridistribuire le risorse alla popolazione. Promette benessere, purché nessuno si metta in politica. Presto i giornali e le istituzioni culturali scomode sono chiuse una dopo l’altra, tutto sommato senza una vera opposizione popolare. La cronica debolezza della società civile russa in questo aiuta Putin e i suoi, altrimenti non avrebbe potuto sospendere l’eleggibilità dei governatori di provincia (che era riconosciuta dallo Zar) e indebolire l’indipendenza della magistratura. La repressione del terrorismo ceceno (provocato?) fa il resto: per la sicurezza dello Stato diventano legali anche mezzi che in Europa noi non lo diventeranno mai. Questo in una società che, Mosca e San Pietroburgo a parte – città di cui Putin sarà anche sindaco – è sostanzialmente solidale con Putin, il quale conosce bene le aspirazioni profonde del suo popolo – lui stesso se vogliamo è “primordiale” – e si appoggia alla classe dei “siloviki”, i fedeli ed esperti funzionari ereditati dalla burocrazia sovietica e da sempre l’ossatura dello Stato.
Questo per la Russia. La seconda parte del programma di Putin ci riguarda da vicino: il fiume di denaro così recuperato si è riversato nella city londinese e in attività speculative di ogni tipo ed è diventato mezzo di pressione politica. Nell’affare ci sono dentro tutti, anche Berlusconi, Salvini e i Cinque Stelle per quello che ci riguarda, e le conseguenze di tale dipendenza da materie prime e finanza russa le vediamo adesso che in Europa c’è una guerra in corso. Detto questo, Putin ha un futuro? E’ riuscito a mantenere il potere e il consenso per anni, ma nessun regime sopravvive a una guerra persa o in stallo senza mutamenti nella struttura del suo gruppo dirigente.
Ottimi gli indici, centinaia le note, accessibile il prezzo: 17 euro.


Gli uomini di Putin. Come il KGB si è ripreso la Russia e sta conquistando l’Occidente
Autore: Catherine Belton
Traduttore: Alberto Cristofori
Editore: La nave di Teseo, 2022, pp. 648
EAN: 9788834610688
Prezzo: 17,00 €


Il bellicoso Putin

L’operazione speciale di Putin è proprio tale, visto che dura da sei mesi. Ma è una storia che parte da lontano, e questo libro – 150 pagine in formato tascabile – ce la racconta per intero, in forma di domande e risposte (standard molto diffuso nel mondo americano). Sorta di biografia non autorizzata, riscostruisce una carriera nata in sostanza come reazione al caos ladrone (cleptocrazia per chi ha fatto il classico) permesso da Eltsin in seguito al confuso periodo seguito al maldestro tentativo della Nomenklatura di far fuori Gorbaciov, a tutt’oggi stimato in Europa quanto non compreso e odiato a Est. Quanto a Putin, detto in breve ha ricostruito lo Stato, prima identificato nel Partito e crollato insieme proprio per questo. Seconda azione: mettere ordine con l’aiuto dei Siloviki (i potenti funzionari di Stato) e del KGB da cui Putin proviene. A questo punto viene ridimensionato lo strapotere degli Oligarchi, ex dirigenti del Partito che in aste riservate avevano comprato al ribasso gli enti di Stato con l’aiuto di banchieri privati. Cosa fa Putin? Li legittima e quindi li lega a sé, ma chiede loro parte dei loro profitti. E soprattutto, vieta loro di entrare in politica, mandando in Siberia chi si presenta alle elezioni, che vince ogni volta modificando anche le regole costituzionali. In quelle del 2014 il nostro Berlusconi esalta la vittoria elettorale di Putin ma dimentica di dire che non c’erano più avversari autorizzati. Qui emerge anche il Putin cupo agente del KGB a Berlino: chi non è d’accordo prima o poi sparisce: giornalisti, imprenditori, intellettuali. Gli attentati dei Ceceni poi sono l’occasione per operazioni militari a dir poco brutali quanto efficaci. Ma da chi sono stati realmente organizzati? Anche il recente attentato a Dugin presta il fianco a interpretazioni non verificabili. Già, perché l’apertura degli archivi di Stato è durata solo una decina d’anni, dalla fine dell’Unione Sovietica all’ascesa di Putin, il quale riporta la nostra idea di Russia a qualcosa di immanente, primordiale: uno Stato con un potere esclusivo e mistico. Esclusivo perché di fatto resta gestito da un gruppo di potere limitato (Putin ha abolito anche l’eleggibilità dei presidenti provinciali) e in parte impermeabile alla società, che peraltro non riesce mai a far crescere i c.d. corpi intermedi su cui si basa la nostra democrazia. Mistico e visionario perché legato alla religiosità ortodossa, alla grande letteratura russa e all’idea della Terza Roma erede di un Impero. Papa Francesco suggerisce di negare la superiorità di una singola cultura sulle altre, ma questo è un bel discorso accettabile da un antropologo ma mai da un politico, e Putin è un politico. E quello che suggerisce il libro è la continuità della carriera e della personalità politica di uno statista che solo ora che c’è una guerra in corso viene giudicato un autocrate ambizioso, freddo e spietato. Resta ora da capire se e fin quando i vertici industriali e militari lo appoggeranno in una guerra ferma al fronte da mesi. Putin non ha solo costruito e diffuso ad arte la sua biografia, ma ha interpretato il profondo desiderio di rivalsa del popolo russo dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. In Cecenia è andata bene, in Georgia e in Crimea pure, utilizzando patrioti e milizie di fatto inquadrate nell’esercito regolare. Qualcosa però in Ucraina è andato storto: la guerra di posizione dura da mesi e ha un costo per tutti, anche se la capacità di resistenza della società russa è notoria e i disagi si vedranno solo nel lungo periodo. Putin può vincere solo accettando di limitare gli obiettivi, mentre invece – un po’ come la Germania nel 1939 – tende ad estenderli al Baltico e al Mar Nero. Ricostruire la mappa della vecchia Unione Sovietica è antistorico. Più senso strategico avrebbe stabilizzare i rapporti con l’Europa e dedicare le forze allo sviluppo delle enormi regioni orientali, vista anche la presenza della Cina, demograficamente ed economicamente più forte ora e in futuro. Ma questo esula dal contenuto del libro, peraltro pieno di aneddoti e dettagli molto sfiziosi sulla vita e la distorta personalità di un uomo politico sottovalutato per anni da noi occidentali.


Le guerre di Putin.
Storia non autorizzata di una vita
di Giorgio Dell’Arti
La nave di Teseo, 2022, pp. 160
EAN: 9788834610701

Prezzo: 14,00 euro


IL CONSENSO

Vanessa Springora non credo fosse nota in Italia prima del suo libro pubblicato nel 2020, Le Consentement (Il Consenso, edito per noi da La Nave di Teseo). La Springora è una scrittrice ed editrice francese e oggi, a 47 anni, narra della sua relazione avuta dai 14 ai 16 anni con uno scrittore e intellettuale francese oggi anziano (83 anni) ma all’epoca cinquantenne. Qualcosa forse in linea con L’amante di Marguerite Duras (1984), ma senza esotismi e aggiornato ai tempi del MeToo. Viene subito in mente uno scandalo simile: l’avvocato e giurista Camille Kouchner (45 anni, figlia del primo matrimonio dell’ex ministro socialista, Bernard Kouchner, fondatore di Medici senza Frontiere) nel libro La Familia grande (2021), denuncia che suo fratello gemello da adolescente fu vittima di incesto da parte del patrigno, il celebre politologo e costituzionalista Olivier Duhamel, che ha subito annunciato le proprie dimissioni dalla carica di direttore della Fondazione nazionale di scienze politiche. E non so quanti si ricordano che il noto fotografo David Hamilton (inglese ma naturalizzato francese) nel 2016 si è suicidato dopo che Flavie Flament (42 anni), nota presentatrice della radio e tv francese, nel suo libro  La Consolation (2017) ha narrato dello stupro subìto a 13 anni da parte di “un famoso fotografo specializzato in raffinati nudi di ballerine e ragazze adolescenti”. Al che una ventina di donne ha confermato la stessa cosa, identificando senza mezzi termini il responsabile e facendo capire che era uno stupratore seriale di ragazzine. Sono tre storie esemplari, ma differenti da quanto avviene ora negli Stati Uniti: le vittime francesi non sono attricette sfruttate sessualmente da produttori cinematografici e imprenditori arricchiti, ma professioniste affermate che scrivono a trent’anni di distanza dal trauma, facendo nomi e cognomi di uomini di potere e di cultura. In Francia il libro ha sicuramente ancora un prestigio e la cultura pure, ma qui sono proprio gli intellettuali a farci brutta figura. Olivier Duhamel è un politologo e costituzionalista, amico influente di François Hollande e di Emmanuel Macron, mentre lo scrittore attaccato da Vanessa Springora è lo scrittore Gabriel Matzneff, un nobile russo naturalizzato francese, autore (oltre che di un’ampia serie di saggi) de L’Amante de l’Arsenal, pubblicato lo scorso novembre, e di cinque volumi di diari dal 1979 al 1992, che ora Gallimard sta cercando di ritirare dalla circolazione. Mazneff in realtà non ha mai nascosto le sue inclinazioni: in Italia nel 1994 fu pubblicato da ES I minori di sedici anni (orig.: Les Moins de seize ans, 1974), dove – a metà tra la narrazione e il trattato – l’autore afferma con veemenza il diritto di avere rapporti sessuali con ragazzi e ragazze minori di sedici anni. A suo tempo quel libro l’ho anche letto ed era sorprendente il tono esplicito e assertivo con cui veniva trattata una materia diciamo delicata. E se qualcuno ancora avesse dubbi, sappia che Mazneff  il 26 gennaio 1977 aveva promosso una petizione di firme per la depenalizzazione del reato di pedofilia dal codice penale francese. L’appello era stato sottoscritto da vari intellettuali vicini al Sessantotto francese, quali: Simone de Beauvoir, Roland Barthes, Gilles Deleuze, Michel Foucault, André Glucksmann, Felix Guattari, Jack Lang, Bernard Kouchner, Jean-Paul Sartre e Philippe Sollers; come si vede, praticamente l’aristocrazia della Cultura francese al completo. Sicuramente all’epoca certe posizioni venivano viste come il superamento della morale borghese, ma la controparte – all’epoca minorenne –  oggi non è di questo avviso e neanche il legislatore: in Francia sarà considerata violenza qualsiasi rapporto con chi ha meno di quindici anni. Maturità sessuale e psicologica ormai si è capito che non sono la stessa cosa, e soprattutto “consenziente” non significa “consapevole”: le vittime per rielaborare la propria esperienza e narrarla ci hanno messo trent’anni. Anche se la storia della ragazzina precoce vende sempre (ricordate i Cento colpi di spazzola di Melissa P. ?), il successo immediato di questi libri s’inquadra in un momento di elaborazione culturale e di reazione a quanto avveniva da anni sottotraccia e persino con la complicità della famiglia. A leggere tutte queste testimonianze – comprese quelle di Matzneff – salta sempre fuori l’immagine negativa di un padre assente e di una madre troppo debole perché divorziata e depressa o perché ammaliata dal prestigio e il potere riflesso offerto dal legame con un uomo famoso. Nella famiglia incestuosa si è spesso notata l’inversione dei ruoli fra madre e figlia, e Matzieff stesso afferma che le sue prede migliori erano i figli delle famiglie labili, il che la dice lunga sul rapporto di dipendenza psicologica ed economica che si forma all’interno di una relazione squilibrata. Unica consolazione è che qualcosa ora sta cambiando sul serio.


Il consenso
Vanessa Springora
La nave di Teseo, pp. 224, 2020
Prezzo: € 17.00

ISBN: 88-346-0327-3 – EAN13: 9788834603277


Melissa colpisce ancora

Melissa la seguo dal suo primo libro, scritto ormai molti anni fa. Nel frattempo anche come scrittrice è cresciuta e questo suo nuovo romanzo, stavolta sulla maternità, rappresenta un punto fermo nella maturità di una scrittrice che s’impose a 17 anni e ora ne ha il doppio e sarà madre come i suoi personaggi. Leggendo Il primo dolore ho provato disagio: come uomo ammetto di non capir niente di parto e gravidanza, né di aver mai pensato che il processo naturale è segnato dal dolore, che qui invece viene eviscerato nelle sue profonde implicazioni, che vanno ben oltre la fisicità. Nel libro abbiamo due coppie diverse ma unite dall’attesa di un figlio. Sono due storie parallele narrate in soggettiva dalle due donne, entrambe al nono mese avanzato. La prima donna, Rosa, poco più che quarantenne, è redattrice di una rivista e convive con Andrea – un simpatico musicista – in un villino nella periferia residenziale romana. Lui suona e compone tra una “canna” e l’altra; potrebbe anche far di meglio, ma non ha più ambizioni e ormai lavora per i pubblicitari. Lei invece ha con gli anni superato – o almeno così crede – un difficile rapporto con la madre, da cui si è definitivamente separata al momento di venir a studiare a Roma. Determinata come tante ragazze che scappano dal paese, si è laureata e ha trovato lavoro nell’editoria periodica. Ha avuto una prima relazione con un uomo più grande di lei, per poi passare al nostro musicista, di sicuro meno ingombrante. Altri amori giovanili – pochi – saranno ricordati nel corso della memoria, sceverando la quale esce fuori una vita condizionata da un padre debole e da una madre anaffettiva e persino in competizione con una figlia forse non voluta.

Agata invece è una gracile ragazza di bassa estrazione sociale e lavora come parrucchiera. L’hanno fatta sposare poco più che adolescente con Matteo, un classico “flanellone”, termine che a Roma usiamo per descrivere l’uomo abitudinario e privo di fantasia, protetto più che protettivo, campione dell’italica classe media. Lui e lei si sono sposati per obbligo sociale dopo una “fuitina”, lei giovanissima e poco scolarizzata, lui figlio di mamma. La coppia entra in scena scendendo a valle in macchina da un paese di cintura dell’Etna, di notte verso l’ospedale, dove Agata deve partorire e dove il servizio sanitario lascia a desiderare: verrà affidata a due inesperti laureandi in medicina, gli unici medici disponibili in quel momento tra un parto e l’altro. C’è la fila, ma di notte manca il personale, e forse anche di giorno. A parte il dolore fisico, Agata sprofonda in uno stato di semi incoscienza, dove i ricordi emergono dal fondo e si stagliano come in un film. Purtroppo il neonato nasce morto, soffocato: i due laureandi hanno sbagliato i tempi e l’aiuto di un mezzo infermiere ha peggiorato tutto. E qui interviene Matteo, che prende insolitamente l’iniziativa: una ragazza ha appena partorito ma non vuole tenere il bambino. Non sapremo mai chi è, ma il neonato può essere immediatamente adottato, e così tutto si sistema. Agata, stremata, acconsente.

 Rosa invece ha deciso di partorire in casa come sua nonna, attirandosi gli strali della suocera. Che dire? L’ambiente qui è familiare, meno asettico di quello di un ospedale, ma il dolore non cambia. E soprattutto, la memoria corre indietro in uno stato di dormiveglia. Entrambe le donne, sia pur così diverse per età, storia e classe sociale, sono quasi due parti della stessa persona, o almeno provano la stessa sofferenza fisica e non possono contare troppo sul proprio uomo. Arrivano a odiarlo, ma pare sia un classico. In realtà Andrea, anche se tenuto fuori dal “traffico”, è uomo responsabile, e ha l’idea di far venire di corsa la madre di Rosa pagandole il viaggio. L’incontro fra madre e figlia è un colpo di scena: non si vedevano da dodici anni e sul volto della madre sono visibili i segni del tempo. Ne sappiamo ora la storia successiva: rimasta sola, si è avvicinata a una ricca comunità evangelica, dove ha trovato lavoro come domestica e quell’integrazione finora negata. Diventa però anche l’amante del Grande Capo, che evidentemente predica bene ma razzola male, col risultato di tornare a fare la badante. Tutto questo lo sappiamo dal colloquio con la figlia, che ora vedrà la madre in un’ottica totalmente diversa e crede di conoscerla. Ma lasciamo al lettore il piacere della lettura. Il bambino comunque in questo caso nasce vivo e vegeto.

Infine, una nota di cinema. Costruito com’è in montaggio alternato, il romanzo ben si presta a diventare un film. Ebbene, a memoria d’uomo i film dove viene ripreso realmente un parto sono pochissimi: Helga (1967), Nove mesi (1976), Il dottor T. e le donne (2000). Ma andiamo per ordine. Helgalo sviluppo della vita umana era un documentario didattico distribuito nelle sale. Helga era il vero nome della donna che si prestò come (f)attrice e il film sbancò il botteghino, vista l’ignoranza della mia generazione in materia (avevo 14 anni). Nove mesi (Kilenc hònap) invece è un film ungherese di Marta Meszàros, all’epoca una delle poche donne alla regia (le altre erano Agnès Varda e Lina Wertmuller). In Italia è nota per Diario per i miei figli (1982). In Nove mesi una studentessa decide di avere un figlio contro la volontà del partner, e per la prima volta si riprende in diretta un parto in una scena di forte valenza drammatica. Il dottor T. e le donne è invece una commedia di Robert Altman con Richard Gere nei panni del ginecologo, il quale nell’avventurosa scena finale dovrà intervenire per far partorire una donna messicana. Detto questo, Il primo dolore ha tutte le carte in regola per una trasposizione cinematografica, e Melissa stessa ce ne parlava durante una presentazione del suo libro.


Il primo dolore
Melissa Panarello
Editore: La nave di Teseo, 2019, pp. 217

EAN: 9788893448413

Prezzo: € 17,00


Forza Panino!

Dovrete perdonarmi ma non posso evitare di mettere questa recensione un po’ sul piano personale. Questo perché uno degli autori del libro è un certo Elio, meglio conosciuto per la sua militanza in qualità di leader della band “Elio e le Storie Tese”, di cui sono grande estimatore.
Parto con il chiedere scusa per il titolo che non c’entra praticamente nulla con il romanzo ma, essendo scritto da un componente del gruppo, non mi veniva in mente altro modo di titolare la recensione.
Detto questo, che conosciate la sua musica o meno è ininfluente, perché Elio è comunque noto per il suo essere un poco bizzarro, bizzarria che si ritrova abbondantemente tra le pagine del suo romanzo.
Franco Losi, l’altro autore, vanta anni di esperienza nel settore delle nuove tecnologie e dell’evoluzione digitale, competenze queste, messe a disposizione dell’amico Elio per dare vita a questa storia fantascientifica.
Il titolo “Uaired” è un chiaro riferimento alla rivista statunitense “Wired”, nota come una delle migliori, se non la migliore, tra le riviste che trattano temi di carattere tecnologico. Questo perché la trama, a modo suo, ha molto di tecnologico.
Ma andiamo con ordine. Gec e il fedele amico Toni sono i protagonisti di questa storia ambientata nel pavese, dove entrambi si godono una vita spensierata a suon di serate alcoliche e di donne (queste ultime soprattutto per Toni). Una di queste serate costa però cara al povero Gec che, di ritorno a casa, si becca un fulmine a pochi metri dalla sua macchina, e tanto basta per risvegliare nella sua testa un coro di voci che gli parlano. Risvegliare perché già in passato era stato vittima di una cosa simile ma, a differenza di allora, ora le sente in modo chiaro e diretto. Ma chi è che gli parla?
Per Gec si tratta di una scoperta poco entusiasmante, che lo mette a contatto con il mondo Uaired: alieni super evoluti atterrati sulla Terra tantissimi anni addietro e custodi di tecnologie futuristiche che per gli umani sono ben lontane. Perché proprio lui? Niente spoiler per questo, visto che si tratta un po’ del fulcro del romanzo.
La storia è leggera e scorrevole, a volte anche un poco scontata, ma forse non è sulla prevedibilità della trama che i due autori hanno voluto concentrarsi, quanto forse sul mondo odierno fatto di luoghi comuni, teorie complottiste, di un linguaggio ormai inglesizzato e di una tecnologia sempre più padrona delle nostre menti. Il tutto servito ovviamente con molta, moltissima ironia, e in questo il personaggio di Toni è fondamentale.
Possibile che Gec da umile proprietario di una ferramenta, amante delle api e di una vita da ragazzo di provincia, si ritrovi di colpo ad avere in mano il destino dell’umanità? No, o forse sì, ma questa potrebbe essere un’altra storia ancora da scrivere.
Per concludere, se siete amanti veri degli E.e.l.S.T. godetevi il piacere di individuare alcuni chiari riferimenti a qualche bella canzoncina della band, secondo me qualcosina si trova tipo un… “Parco Sempione, verde e marrone, dentro la mia città”.

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Titolo: Uaired
Autori: Elio, Franco Losi
Editore: La Nave di Teseo (Collana Oceani), 2018, pp. 270
Prezzo: € 17,00
EAN: 9788893446334

Disponibile anche in ebook

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