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La rivolta di corso Traiano, di Diego Giachetti

Strano destino quello dell’Autunno caldo, ad ogni decennale si deve fare i conti con un sempre minore interesse della storiografia e del discorso pubblico sull’annus mirabilis del movimento operaio italiano. Che lo si guardi dal punto di vista della storia del movimento sindacale, che proprio dal 1969 e almeno fino al 1975 visse i suoi anni d’oro, riuscendo anche parzialmente a influenzare – se non determinare – l’agenda politica del Paese, o da quello della storia della conflittualità sociale più in generale,  questo cinquantesimo anniversario sembra scorrere in un assordante silenzio, proprio in un’epoca in cui i lavoratori e le lavoratrici non sono viste – e spesso non si vedono – come soggetti dell’agire sociale e politico – ma come un melting pot (frastagliato per condizioni economiche, normative, etniche, di genere, generazionali) in attesa di elargizioni e concessioni dell’imprenditore o del politico di turno. Un disinteresse crescente, quindi ha caratterizzato le vicende del movimento operaio italiano negli anni della sua “rigenerazione” e della sua esplosione, sul quale aveva già messo in guardia 30 anni fa, proprio nei giorni in cui cadeva il Muro di Berlino, Marco Revelli, quando nella sua introduzione alla raccolta di interviste fatte da Gabriele Polo agli operai della Fiat di Mirafiori, scriveva di «ventennale dimesso» del 1969 operaio[1].

Una consapevolezza ben presente anche in Diego Giachetti, fra i pochi studiosi che in questo frangente ha mantenuto viva la fiammella della ricerca sulla conflittualità operaia degli anni Sessanta e Settanta in Italia. La sua idea, che condivido, è che il ’69 operaio interessi meno perché nell’immaginario collettivo sembra un evento più lontano dalle condizioni dell’oggi, meno assimilabile alle esigenze del discorso pubblico: «roba da vecchi operai [e militanti politici aggiungerei io] irrecuperabili e prigionieri del passato colpiti dall’”infamia” originaria e incancellabile di una classe operaia che, si dice, oggi non esiste più» (p. 11). Eppure, e qui sta l’importanza del lavoro dell’autore, oggi invece vale la pena uscire da una vecchia tematizzazione dell’Autunno caldo, ma ne va evidenziato il suo ruolo nel contesto spazio-temporale dell’epoca: perché, Giachetti lo afferma subito nell’apertura del saggio, non è possibile scindere le vicende operaie di quegli anni da quelle studentesche che le avevano precedute (e che anzi alle quali si erano affiancate proprio le prime lotte autonome, come a Valdagno, Milano, Porto Marghera, Pisa, ecc., né dall’ondata di lotte operaie che in tutto il mondo occidentale capitalistico, ma anche in diversi Paesi del socialismo reale e del cosiddetto Terzo mondo in via di industrializzazione, avevano fatto salire alla ribalta una nuova classe operaia (Hobsbawm). L’obiettivo di questa riedizione ampliata del lavoro di Giachetti è quindi, da una parte, sgombrare il campo da artefatte separazioni fra un ’68 studentesco e un ’69 operaio, mentre, dall’altra quella di far uscire l’Autunno caldo dal recinto (altrettanto artefatto) del provincialismo italiano.

Oggetto centrale della ricerca è la cosiddetta “battaglia di corso Traiano”, i violenti scontri che, a ondate, si perpetrarono nella giornata del 3 luglio del 1969 a Torino nell’area che grosso modo va da Corso Tazzoli (Porta 2 della Fiat) e, attraverso Corso Traiano per l’appunto, si estende verso Est nella direzione di Piazza Bengasi e, verso Sud, in quella dei comuni di Nichelino e Moncalieri.  La tesi sostanziale è che dietro la violenza di piazza del 3 luglio a Torino si nascondevano le nuove caratteristiche della lotta operaia sia dal punto di vista dei contenuti (aumenti salariali uguali per tutti e sganciati dalla produttività, riduzione dell’orario di lavoro), sia da quello delle forme di lotta, di comunicazione, di organizzazione (le assemblee, i cortei interni, le spazzolate dei reparti, i cartelli e gli striscioni, anche la violenza). Soprattutto, corso Traiano rappresenta il collegamento di questo con quelle che Giachetti chiama le “variabili esterne” alla fabbrica, come il diritto alla casa, alla scuola ai servizi essenziali.

Il libro si struttura in due parti. La prima (capitoli 1-6) illustra la cosiddetta “primavera” di Mirafiori e i suoi prodromi: dalla ripresa della lotta operaia del 1968, con le punte rappresentate dalla Fiat e dalla Lancia, all’esplosione degli scioperi più o meno spontanei dell’aprile-maggio 1969 a Mirafiori; l’analisi dei soggetti politici e sindacali e delle loro condizioni in quel momento (sindacati, Pci, Psiup, ma anche i gruppi dell’estrema sinistra torinese, da Il Potere operaio di Torino, al Fronte della gioventù lavoratrice, alla Lega studenti-operai), e poi del movimento studentesco torinese, nella sua parabola e crisi proprio nei primi mesi del ’69, fino alla decisione (su spinta di Adriano Sofri e del Potere operaio pisano) di riversarsi alle porte di Mirafiori; il soggetto sociale della primavera di Mirafiori, che all’inizio è ancora la classe operaia piemontese più specializzata, ma che da giugno passa la mano ai “meridionali”, la cui immigrazione, dopo la parentesi 1960-62, era ritornata a scorrere copiosa a Torino, grazie all’espansione di Mirafiori e all’apertura di Rivalta; la miscela esplosiva che l’incontro fra questi soggetti diede vita all’Assemblea operai studenti (di cui proprio domani ricorre l’anniversario della fondazione ufficiale).

La seconda parte è suddivisa in nove capitoli e riprende l’impianto narrativo che Dario Lanzardo aveva usato nel suo brillante lavoro su Piazza Statuto (d’altronde Giachetti non fa mistero di esservisi ispirato). Partendo da una cronaca minuziosa dei fatti (attraverso sia le fonti giornalistiche, quelle autoprodotte dal movimento e le fonti giudiziarie), l’autore passa poi ad analizzare le varie versioni che degli scontri diedero la Questura, i mass media, i partiti di sinistra (Pci, Psi e Psiup), i sindacati, l’Assemblea operai e studenti e gli anarchici. Infine l’autore affronta la coda giudiziaria che gli eventi ebbero successivamente e l’epilogo dell’esperienza dell’Assemblea operai studenti, col convegno del 26/27 luglio al Palazzetto e l’esplosione delle divisioni non solo fra le due aree egemoni nell’Assemblea (il gruppo Sofri-Viale da una parte, quello de La Classe dall’altra), ma anche con quelli locali che poi avevano svolto il ruolo di pionieri e che si allontanano per primi dall’Assemblea (Soave, Gobbi, Rieser, Lanzardo). Il libro si chiude con la pubblicazione (o la ripubblicazione) di alcune testimonianze dei protagonisti di quella giornata (Mario Dalmaviva, Luigi Bobbio, Renzo Gambino).

Il volume di Giachetti, meticoloso nella ricostruzione degli eventi, è anche foriero di spunti e suggestioni interpretative che meritano – e meriteranno – di essere approfondite su alcuni temi: il ruolo dell’operaismo, la sottovalutazione della capacità di rinnovamento sindacale, l’autunno caldo come fase di apertura rivoluzionaria o in realtà come canto del cigno dell’operaio-massa.


[1] M. Revelli, “Dimenticare Mirafiori”?, in G. Polo, I Tamburi di Mirafiori, Torino, Cric Editore, 1989, p. V.


La rivolta di Corso Traiano. Torino, 3 luglio 1969
Diego Giachetti
Editore: BFS Edizioni, 2019, p. 152
Prezzo: € 16,00