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Bangkok

Lawrence Osborne l’ho già apprezzato come autore de Il turista nudo, ma qui l’intero libro parla di una sola città. Nato forse come materiale per un romanzo, il libro si regge da solo perché la protagonista è proprio la città stessa di Bangkok, descritta nei suoi angoli più segreti o comunque ignoti al turista che prosegue per le spiagge di Pattaya o Phuket: centinaia di luoghi e strade dai nomi più strani, locali, alberghi e club che possiamo anche esplorare con Google Maps, solo per accorgerci che noi di Bangkok non sappiamo niente e che la città descritta da Osborne sembra il Satyricon di Fellini mixato con Blade Runner. Il mio paragone col film di Ridley Scott ho scoperto che non è originale, ma evidentemente ha la sua ragione d’essere, anche se chi risiede a Bangkok – penso al giornalista italiano Marino Morello (1) – assicura che la città somiglia molto meno al Naraka (o Narok, l’inferno buddista) di come la descrive Osborne, al quale piacciono i toni drammatici e i cui personaggi – molto British – sembrano piuttosto usciti da Il nostro agente all’Avana di Graham Greene: tutti adulti navigati e disillusi, singoli, forse lavorano ma di sicuro bevono Gin tonic e amano le donne thai e disprezzano gli italiani repressi e assatanati che affollano i bar e i bordelli di Patpong. I residenti europei qui descritti si vantano sempre di conoscere un posto segreto ed esclusivo – in genere un locale notturno o un club riservato – e curano l’iniziazione del compagno di avventure. Di giorno fa troppo caldo – 40° gradi, umido, monsone a parte – e per raggiungere i luoghi si passa sempre di notte attraverso strade trafficate brulicanti di vita, botteghe di ogni tipo, street food a base di pesce o insetti, canali interrati, giardini segreti e tempietti buddisti, autentici luoghi di pace in mezzo a una bolgia di gente in una città brulicante di vita, ma la cui urbanistica non ha nulla di razionale e asfalta i canali che prima ne facevano una Venezia d’Asia. Ogni tanto piccole oasi di pace dello spirito: giardinetti buddisti, il santuario della Sposa Fantasma (un mito visto anche nel cinema), il tempietto di Mae Nap, piccoli angoli residui fra i canali e le vie affollate, che contrastano colle bizzarre architetture del mercato del pesce (sembra una chiesa, come a Trieste) o con le scenografiche prospettive greco-romane dei vecchi alberghi. Bangkok ha 11 milioni di abitanti ma forse anche 16, sempre che se ne traccino chiari i confini. Ma al di là dell’immagine che ne abbiamo e soprattutto vogliamo averne noi europei, la Thailandia è un anche paese proteso verso il futuro, avanti con l’elettronica e le tecnologie. E’ una metropoli in continua trasformazione e l’autore nota la rapidità con cui certe zone vengono buttate giù e ricostruite senza ripensamenti. Speculazione edilizia e sviluppo urbanistico a parte, questo scarso amore per il passato e le sue vestigia a noi pare strano, ma lo sviluppo asiatico è notoriamente frenetico e il disvalore per l’antico è sicuramente influenzato dal buddismo, la religione maggioritaria, per il quale tutto è transeunte e decade in fretta, complice il clima caldo umido che deteriora tutto ciò che l’uomo costruisce. D’altro canto la tronfia edilizia paracoloniale o saray roman con la quale le classi alte siamesi esibivano ricchezza e prestigio ha qualcosa di kitsch, di decadente. Il Siam non è mai stata colonia e ha tuttora un Re di supposta ascendenza divina. Osborne descrive questi edifici: ambasciate, grandi hotel vintage, ospedali, residenze private ora alberghi e club esclusivi incastonati in un parco. Si gioca molto sul contrasto drammatico fra asiatico ed europeo, fra tradizione e futuro. Il libro è stato scritto nel 2006 e tornando nel 2011 tante cose erano cambiate (2). Ma amiamo perderci anche noi nelle vie dai nomi esotici (magari lo sono meno per chi ci vive).  Bangkok sembra essere un agglomerato di centri autonomi ma non conflittuali e Osborne va a infilarsi anche al Roong Mun, il mattatoio cittadino dove operai strafatti di ya-ba (una droga locale piena di metanfetamina e caffeina) macellano i maiali a colpi di mazza. La zona del porto è separata da un muro e oltre c’è Thong Lor, malmesso quartiere di servizio dove vivono i lavoratori poveri in mezzo a condizioni igieniche da paura. Ancora oltre ci viene presentato Joe Maier, un missionario cattolico irlandese che ha un bel daffare in quelle zone, ma è allegro e felice. Disincantati e scrocconi invece i nomadi notturni amici del nostro scrittore: McGinnis, Lionel, Brian capiscono poco il thai e la sua strana scrittura, non è chiaro che lavoro fanno (se ne hanno uno), disprezzano i turisti inglesi proletari in bermuda e T-shirt, per non parlare dei tedeschi crucchi. Il padrone di un locale è francese e questo gli dà un tocco di ambiguità: anche nei film il francese d’Indocina è sempre ambiguo. Ma si direbbe che tutti questi nomadi “farang” (3) vivono a Bangkok per morirci. In effetti anche un nostro pensionato può viverci bene ed avere anche buone cure mediche, anzi la Thailandia è famosa per il turismo sanitario oltre che sessuale. Su questo è stato scritto molto, ma qui è diverso: i nostri si dividono PornTit, una ragazza che deve finire gli studi e integra il mensile in questo modo, il che da quelle parti sembra una pratica comune. Lionel ha invece una giovane moglie, la quale dice senza remore che pur di uscire dalla povertà sposerebbe chiunque. Bisogna capirla: è Asan (etnia del nord molto bella quanto povera) e si vuole sistemare: non compagnia in cambio di soldi, ma di ascesa sociale. La descrizione di alcuni locali poi è curiosa: c’è il ristorante dove una ragazza ti imbocca, oppure un locale dove le ragazze sono vestite da poliziotte con tanto di manette, per non parlare dei LadyBoys, i femminielli, altra specialità di un mercato iniziato durante la guerra del Vietnam (1965-1973), quando Bangkok era il luna park dei soldati americani in turno di riposo. Del resto la cultura asiatica ha sul sesso idee abbastanza aperte, senza quei sensi di colpa che i nostri sgangherati eroi si portano ancora dietro. Divertente casomai è la descrizione dei locali che frequentano, dove architetture improbabili nascondono interni dove c’è posto per tutto e il contrario di tutto: affreschi enormi (Helix il pittore spagnolo lavora per i grandi alberghi), atmosfere ora coloniali (come all’esclusivo English Club vittoriano) ora futuristiche, con ragazze che prima di spogliarsi girano vestite nei modi più assurdi. Edonismo puro, dove thai e farang almeno su certe cose si capiscono benissimo, con la benedizione del buddismo Theravada, che i suoi amici britannici ignorano e di cui Osborne cerca ogni tanto di spiegare i principi, ma senza troppa convinzione né competenza. Pur vivendo in mezzo alla gente thai, Osborne e i suoi amici restano pur sempre dei farang.

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NOTE:

  1. https://ogzero.org/autore/massimo-morello/
  2. https://www.newsweek.com/after-bangkoks-floods-lawrence-osborne-revisits-his-old-haunts-66325  nel 2011
  3. Farang in Asia indica l’occidentale. La parola deriva da “Franchi”, come gli arabi in Terra Santa chiamavano i Crociati. Da lì il termine si è esteso in tutta l’Asia e non è sempre spregiativo.

Bangkok / Lawrence Osborne. Milano, Adelphi, 2009. Prezzo 22 euro


Il Turista nudo di Osborne

Gli anglosassoni hanno un tipo di scrittori da noi raro: il viaggiatore. Penso agli statunitensi Bill Bryson, Paul Theroux, William Least Heat-Moon, al gallese Jan Morris, agli inglesi Bruce Chatwin, Eric Newby, Wilfred Thesiger, Lawrence Osborne e Colin Thubron. Favoriti dalla loro indole di esploratori e protetti dall’espansione stessa delle loro nazioni, hanno sviluppato una letteratura unica nel suo genere, alla quale noi italiani – ben più provinciali – possiamo affiancare solo Tiziano Terzani. Fra questi autori scelgo oggi Lawrence Osborne, proponendo Il Turista nudo (2006), dissacrante panoramica del mondo attuale. Lui è un nomade, ma “il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare”: ormai il pianeta è un grande parco a tema o un’installazione turistica spacciata per natura incontaminata ma ormai priva dell’esotismo portato avanti dalle conquiste coloniali, quando il viaggiatore poteva scoprire il favoloso Oriente o l’Africa misteriosa senza rischiare di essere rapito o ucciso dai talebani o da qualche oscura banda locale, purché viaggiasse con la Thomas Cook e alloggiasse in quei monumentali alberghi con enormi viali e giardini curati da centinaia di lavoratori-schiavi. Tuttora si trovano al Cairo o a Bombay o Calcutta (pardon: Mumbay e Calkata), veri fortilizi di lusso dove godere di tutti i servizi necessari per un europeo ed evitare di essere infastidito e inseguito dalla folla dei poveri non appena girato l’angolo, cosa che è normale anche adesso: l’autore cita l’antropologo Claude Levy-Strauss ma si trova pure lui nella stessa situazione. D’altro canto la popolazione locale viene sempre incontro al turista e gli vende tutto, magari pure le figlie. Il viaggiatore e/o turista vorrebbe che se non tutto, almeno qualcosa fosse autentico, ma quando l’autore descrive Bali come una capitale del vero artigianato balinese ad uso del turismo e non ne può più della musica “barong”, che dire? Bali è un museo vivente, ma d’altro canto il mercato non sa che farsene del resto dell’Indonesia, musulmana e magari anche fondamentalista. Nelle isole Andamane (arcipelago indiano), già battute dalla Mead, alcune popolazioni sono ghettizzate (oppure ostili di suo) ma in un certo senso protette dal turismo. A Dubai l’opposto: è un vero luna park costruito dal nulla, tutto è nuovo (e kitsch), avveniristico, un miracolo strappato al deserto grazie al petrolio. Ma vale davvero la pena di andarci? Tutto è futuro, ma la classe dirigente è rimasta medievale. Altrove poi l’architettura non è così avveniristica: i simboli dell’antica Roma e Atene il colonialismo li ha usati per dare uno stile imperiale al dominio sugli altri (almeno fino alo 1950), ma di quei simboli si sono riappropriati i parvenu dell’indipendenza per dare vigore al progetto sociale e politico da loro giustamente proposto. Alla fine ne viene fuori un insieme di decadenza e consumismo, di generose aspirazioni politiche e sociali unite alla dipendenza dal denaro esterno. Il turismo mondiale muove 500 miliardi di dollari, quindi è la più grande industria del pianeta. Ma pochi sanno che le Maldive sono state letteralmente inventate nel 1972 da un gruppo di imprenditori italiani ed ora sono quello che sono. Osborne lo fa notare ed è abbastanza grande (1958) da ricordare molti luoghi prima che arrivassero le cavallette. In sostanza, nel mondo metà della società lavora per intrattenere l’altra metà, relegando la cultura e la reale esperienza del viaggio a settore residuale: l’importante è divertirsi e ci sono città come Bangkok che lui ribattezza “Edonopoli”, la città del piacere. Eppure la Thailandia (già Siam) non è mai stata colonia di nessuno. Osborne descrive ogni volta questi resort dove si può avere e fare di tutto, anche cambiare sesso o pagar poco un bravo dentista (noi italiani invece andiamo in Croazia). Tutto è artificiale ma inserito nella natura allo stesso tempo, così vuole lo standard del luogo incontaminato ma “comodo”, a meno di non scegliere Avventure nel Mondo e altre agenzie che comunque sorvegliano e proteggono il viaggiatore. Turista e viaggiatore ovviamente non sono la stessa cosa: il primo consuma ma resta un frettoloso estraneo, il secondo si suppone abbia interessi e curiosità più produttive. E’ il fascino di visitare i posti dove nono sono stati (ancora) gli altri, di interagire con il diverso. Eppure anche Osborne fatica a trovare i reali parametri della sua esperienza conoscitiva: inizialmente l’altro si pone sempre in modo di soddisfare le aspettative del nuovo venuto, vuoi per servilismo opportunista (chi ha viaggiato in certi paesi lo sa), vuoi per non essere invaso e mantenere il suo mondo religioso e parentale lontano  da occhi indiscreti. Osborne cita spesso Claude Levy-Strauss e Margaret Mead, grandi antropologi (la Mead tra l’altro è stata la prima a iniziare gli studi di genere oggi tanto popolari) e anche pessimisti sulla possibilità che trenta anni dopo le popolazioni di livello etnico visitate a suo tempo non fossero state corrotte dalla civiltà moderna (si cita spesso Tristi tropici di Levy-Strauss). Ma parlando strettamente di industria del turismo, avviene paradossalmente quanto diceva Walther Theodor Adorno a proposito delle avanguardie: l’avanguardia (qui: il turismo) deve continuamente andare avanti cercando nuove mete “vergini” da presentare come nuove, esotiche, incontaminate, altrimenti dopo pochi anni si cade nel già visto, nella ripetizione, nella colata di cemento e nel kitsch dei negozi di souvenir. Nessuno oggi definirebbe le Hawaii esotiche, lo erano duecento anni fa prima di diventare un’americanata. Nessuno crede oggi nell’originalità dell’artigianato veneziano (prodotto in Cina), ma ancora crede in quello balinese, non fosse perché gli artigiani sono veri e lavorano in modo tradizionale (parliamo di stile, non di tecniche e utensili). Un capitolo del libro s’intitola “un paradiso artificioso”, l’altro “La spa”. Già, perché l’ossessione per il corpo e per i centri di salute e benessere crea un indotto enorme e anche piacevole, diciamolo, almeno per chi se lo può permettere. Ai ricchi piacciono i resort fortificati e ho sottomano l’immagine di Rondoni (Mamula in slavo), una fortezza costruita su un’isola a protezione dell’accesso alle Bocche di Cattaro (Montenegro): ora è un resort esclusivo e costosissimo, ma da lontano sembra un penitenziario. Ben diverso dagli alberghi indiani che Osborne descrive senza sconti: gestiti dallo Stato, servono solo a dar lavoro ai giovani ma non garantiscono nemmeno sapone e lenzuola, articoli per i quali l’autore litiga e mercanteggia ogni volta. Sorprendente anzi la disinvoltura con cui sa passare daagli alberghi a cinque stelle (pagati dall’editore?) alle stamberghe dove meglio è mettere il tappo al lavandino per evitare la ronda dei bacarozzi (da me sperimentata in Turchia, ndr.). E da buon inglese, sorseggia sempre e ovunque un buon whisky, come Il nostro agente all’Avana di Graham Greene

L’ultimo capitolo però è diverso dagli altri: l’autore, dopo un’opportuna preparazione, decide di vivere per qualche tempo in Papua Nuova Guinea, uno dei posti meno turistici del mondo, privo com’è di strade. Eppure vi si parlano più di 800 lingue diverse e c’è una varietà di colture e culture sorprendente. L’autore si appoggia a una vecchia missione evangelica per addentrarsi nell’interno, con il necessario supporto di guide locali. Gli indigeni vivono nella foresta da millenni e la sanno lunga, al punto di studiare loro il “diverso” che hanno davanti. Ed ecco le osservazioni finali:

Tornando a Tambunam ho capito in modo molto chiaro che la vita e la cultura di un popolo si possono cogliere solo vivendo fino in fondo tutta una serie di intensi rapporti personali. Solo attraverso l’intreccio delle vite possiamo sperare di capire bisogni profondi , quali la continuità, la ripetizione delle esperienze e l’intimità”.


Il turista nudo
Autore: Lawrence Osborne
Traduttore: M. Codignola
Editore: Adelphi, 2006, pp. 272
Pezzo: 22,90 €

EAN:9788845920677