Il 24 febbraio 2022 fissa lo spartiacque tra due epoche: dopo la seconda G.M. l’Europa ha goduto 77 anni di pace e la fine della Guerra fredda aveva fatto credere che la guerra come strumento di pressione politica non fosse più una scelta praticabile. Il libro inizia in un modo insolito: una scena teatrale con due possibili finali, protagonisti Putin e i suoi generali alla vigilia dell’”operazione speciale”. Puntavano in realtà su Kiev per far cadere il governo Zelensky e imporne uno loro: storicamente i sovietici puntavano sempre sulla capitale per imporre un loro uomo (Budapest, Praga, Varsavia, Kabul), ma stavolta hanno fatto male i calcoli. Ora, dopo quattro mesi si può fare il punto e trarne alcune conclusioni. L’autore è un generale ora in congedo, con una lunga esperienza nella NATO e nelle missioni internazionali.
Si comincia dalla storia: l’Ucraina, estesa nazione slava per secoli ha gravitato fra Est e Ovest per poi essere assorbita nell’orbita russa almeno fino al 2014, quando l’Ucraina decide di gravitare verso l’Occidente. Si tende a giustificare l’aggressiva politica russa come reazione all’espansione della NATO a Est, ma l’adesione era libera, come libere erano le nazioni che volevano entrare in un’alleanza difensiva. Stranamente, un processo negoziale così importante ha lasciato pochi documenti ufficiali, né provocava una decisa reazione diplomatica da parte russa, nonostante Putin fosse già al potere e potesse esercitare pressioni sulla NATO, con la quale si manteneva un rapporto di collaborazione. Quindi è verosimile pensare che la saturazione risalga al 2014, quando l’Ucraina cambia governo e la Russia si riprende la Crimea, peraltro assegnata nel 1954 all’Ucraina da Krus’ev in un contesto diverso, tutto interno all’URSS. A seguire, il problema del Donbass, vasta e popolata regione ucraina ricca di risorse, ma abitata anche da una forte componente russa, alla quale non si riconosce un’autonomia simile a quella da noi concessa ai sud-tirolesi. Risultato: 4000 morti in 8 anni e una guerra civile strisciante, con l’uso spregiudicato di milizie irregolari.
Nell’”operazione speciale” in realtà di fantasia se ne è vista poca: i russi si sono mossi in modo schematico, con disfunzioni logistiche e tattiche ben sfruttate dalle fanterie leggere ucraine nel contrasto dinamico. L’ossatura tattica dei russi si basa sui BTG (pag.30-31), battaglioni meccanizzati con mezzi, armi e autonomia. Non sono in realtà un’invenzione russa, ispirati piuttosto ai Kampfgruppe tedeschi. Nei primi tre mesi ne sono stati impiegati 90 sui 180 teoricamente disponibili: una forza di manovra 90.000 uomini, più 150.000 tra regolari e miliziani per tenere le retrovie e rimpiazzare le perdite. Le forze ucraine – 250.000 uomini – hanno dovuto dislocare almeno 150.000 soldati lungo il fronte, anche se solo in parte ben addestrati. Dunque il rapporto attaccante/attaccato è 1:1, quando dovrebbe essere 3:1 per riuscire efficace, a meno di non avere Rommel o von Manstein al comando. Qui invece nessuno ha individuato il punto dove aprire un varco e penetrare in profondità. In più le forze ucraine – più agili – si sono valse di armi moderne ed efficaci: droni armati Bayraktar TB2, missili controcarro Javelin, Le operazioni sono comunque ben illustrate nelle pagine 39-48, con tanto di cartine. In alcune zone sono stati conquistati 200 km in 6 giorni, altrove dai 10 ai 100 km., salvo poi dover affrontare i grossi centri abitati, dove rastrellare blocchi di 20 piani o industrie grandi quanto l’Ilva di Taranto ha trasformato l’avanzata in una guerra di assedio, dove i civili pagano il conto: i russi non fanno sconti e procedono alla russificazione immediata delle zone conquistate, secondo l’archetipo della seconda GM.
Nel frattempo si è chiarita la strategia russa: non solo conquistare tutto il Donbass, ma saldarlo alla Crimea conquistando uno dopo l’altro i porti del Mar Nero – Cherson e Mariupol – e chiudendo il Mar d’Azov. L’assedio dell’acciaieria Azovstal ha avuto effetti mediatici, ma più logico sarebbe stato esfiltrare le forze per tempo e riorganizzarle altrove. Odessa a tutt’oggi (luglio 2022) non è ancora stata conquistata, ma l’Ucraina non vuole perdere l’accesso al mare e quindi affonda le navi russe e difende l’Isola dei Serpenti. Le forze da sbarco in realtà non hanno la capacità offensiva e la forza di penetrazione in profondità richiesta da un’operazione del genere. Ma nel frattempo le operazioni sul terreno sono cambiate: sguarnito il fronte di Kiev (ma con la pressione dell’alleato/vassallo bielorusso) le forze russe sono state concentrate nel Donbass e lungo la costa del Mar Nero. Per risparmiare gli uomini i russi ora combattono come 50 anni fa, facendo uso massiccio dell’artiglieria – quasi 5000 colpi al giorno più i missili – per spianare tutto quello che c’è davanti, città comprese, per poi far avanzare i carri e infine la fanteria. Dall’altra trincea si chiede agli alleati europei e americani artiglieria a lunga gittata, mentre i mezzi corazzati arrivano dai depositi degli ex membri del Patto di Varsavia. Non esistono per ora fonti ufficiali sicure, ma finora i due contendenti hanno verosimilmente perso ognuno 1000 corazzati e almeno 6000 soldati. Un conflitto ad alta intensità fra forze convenzionali simmetriche logora le forze in modo rapido: è la classica Materialschlacht, guerra di logoramento che dura finché è possibile alimentare il fronte. Solo in caso di esaurimento delle risorse uno dei due nemici è disposto a negoziare. In realtà gli ucraini non vincono: resistono.
Nel capitolo successivo (p.71) l’autore analizza invece la questione del comando, che secondo l’autore risente ancora del retaggio del centralismo sovietico. Dopo poche settimane tanti generali sono stati mandati a casa, ma la decisione di attaccare su 1500 km di fronte con 90 BTG non era solo militare: la guerra è una funzione della politica.
Il capitolo successivo (p.89-99) è un’analisi dei rispettivi armamenti (mezzi e organici) e mostra un certo squilibrio quantitativo a favore dei russi, compensato da una migliore tecnologia occidentale, tangibile p.es. nel controllo del campo di battaglia, nella direzione di tiro e nelle armi controcarro. Ma l’evoluzione del campo di battaglia può oggi portare solo a un consolidamento delle conquiste sul terreno. Dipende dalle forze in campo, dalla resilienza della società civile e dalla capacità industriale; questo vale per tutti. Una guerra lunga non fa comodo a nessuno e il Gas ne è il paradigma. Il problema è che chi scatena una guerra punta sempre sulla sua brevità, e in questo la storia militare è piena di exempla.
L’ultima domanda: le forze armate italiane e/o europee sono preparate a un conflitto ad alta intensità? La risposta è negativa: finita la Guerra Fredda si è investito molto sulle “missioni di pace” e poco sulle forze di terra. Italia e Germania hanno una componente carri pesanti ormai ridotta e ci vorranno anni per ricostruirne una credibile. Si parla poi da anni di Difesa Europea, ma finora restano i problemi di sempre (chi paga e chi comanda?), mentre la NATO è invece rinata proprio perché c’è la guerra in casa. Purtroppo lo spostamento del fulcro al centro dell’Europa penalizza il Mediterraneo, anche se il ruolo strategico della Turchia e la gestione delle rotte del grano dovrebbero aprire gli occhi a chi ragiona come se esistesse solo il Sacro Romano Impero.
Il conflitto in Ucraina
Una cosa troppo seria per certi generali ma specialmente per certi politici
Luigi Chiapperini
Francesco d’Amato Editore, 2022, pp. 240
ISBN 978-88-5525-136-5
Prezzo 12 euro.