Prima di Lolita le bambine si comportavano meglio?
Questo piccolo manuale, scritto all’inizio del secolo da un raffinato scrittore francese, fa supporre che le ninfette la sapessero molto lunga. I consigli ricalcano (in parodia) i centinaia di manuali per le varie educatrici governanti, scuole di monache e altro.
Alcuni consigli (“Se scoprite che siete figlia dell’amante e non del marito di mamma, non chiamate quella persona ‘papà’ davanti a venticinque persone”) potrebbero ben figurare nei manuali di cui sopra.
Infatti la parodia non distrugge mai lo spirito originale della legge: lo rende più chiaro.
La perfida bambina cui tale manuale s’indirizza non è infatti uscita dal riformatorio: dal testo si desume che la ninfetta ha un autista, un’istitutrice inglese, una cameriera, più domestici.
E’ insomma una viziata ragazzina dell’alta borghesia.
E qui due osservazioni. E’ quasi facile trasgredire un codice se questo è ferreo, anche se usi e costumi privati possono essere ben lontani da quelli praticati in pubblico. La trasgressione richiede comunque un codice da trasgredire, e questo è il motivo perché l’erotismo d’epoca è più piccante.
Altra osservazione: l’erotismo, come ben altri diritti civili, riguardava solo una ristretta parte della società, e lo dimostra proprio questo galateo.
La lettrice precoce e procace, al patì dei suoi genitori, certe trasgressioni se le può permettere senza che l’equilibrio sociale o morale venga appena scalfito. Possiamo immaginare anzi la sua vita futura: moglie e madre borghese, ben realizzata in famiglia, ma degna di Girotondo di Schnitzler o di qualche pochade francese.
Il tradimento è fedeltà alla Legge, ma a quella della Natura.
Corollario: se l’erotismo attuale è volgare, è perché ha vinto la democrazia.
E’ chiaro che poche centinaia di aristocratici (e non di arricchiti) intenditori avevano un gusto più raffinato di noi. Ma non bisogna mai dar giù a chi è arrivato solo adesso a godere (!) dei diritti civili.
L’operazione speciale di Putin è proprio tale, visto che dura da sei mesi. Ma è una storia che parte da lontano, e questo libro – 150 pagine in formato tascabile – ce la racconta per intero, in forma di domande e risposte (standard molto diffuso nel mondo americano). Sorta di biografia non autorizzata, riscostruisce una carriera nata in sostanza come reazione al caos ladrone (cleptocrazia per chi ha fatto il classico) permesso da Eltsin in seguito al confuso periodo seguito al maldestro tentativo della Nomenklatura di far fuori Gorbaciov, a tutt’oggi stimato in Europa quanto non compreso e odiato a Est. Quanto a Putin, detto in breve ha ricostruito lo Stato, prima identificato nel Partito e crollato insieme proprio per questo. Seconda azione: mettere ordine con l’aiuto dei Siloviki (i potenti funzionari di Stato) e del KGB da cui Putin proviene. A questo punto viene ridimensionato lo strapotere degli Oligarchi, ex dirigenti del Partito che in aste riservate avevano comprato al ribasso gli enti di Stato con l’aiuto di banchieri privati. Cosa fa Putin? Li legittima e quindi li lega a sé, ma chiede loro parte dei loro profitti. E soprattutto, vieta loro di entrare in politica, mandando in Siberia chi si presenta alle elezioni, che vince ogni volta modificando anche le regole costituzionali. In quelle del 2014 il nostro Berlusconi esalta la vittoria elettorale di Putin ma dimentica di dire che non c’erano più avversari autorizzati. Qui emerge anche il Putin cupo agente del KGB a Berlino: chi non è d’accordo prima o poi sparisce: giornalisti, imprenditori, intellettuali. Gli attentati dei Ceceni poi sono l’occasione per operazioni militari a dir poco brutali quanto efficaci. Ma da chi sono stati realmente organizzati? Anche il recente attentato a Dugin presta il fianco a interpretazioni non verificabili. Già, perché l’apertura degli archivi di Stato è durata solo una decina d’anni, dalla fine dell’Unione Sovietica all’ascesa di Putin, il quale riporta la nostra idea di Russia a qualcosa di immanente, primordiale: uno Stato con un potere esclusivo e mistico. Esclusivo perché di fatto resta gestito da un gruppo di potere limitato (Putin ha abolito anche l’eleggibilità dei presidenti provinciali) e in parte impermeabile alla società, che peraltro non riesce mai a far crescere i c.d. corpi intermedi su cui si basa la nostra democrazia. Mistico e visionario perché legato alla religiosità ortodossa, alla grande letteratura russa e all’idea della Terza Roma erede di un Impero. Papa Francesco suggerisce di negare la superiorità di una singola cultura sulle altre, ma questo è un bel discorso accettabile da un antropologo ma mai da un politico, e Putin è un politico. E quello che suggerisce il libro è la continuità della carriera e della personalità politica di uno statista che solo ora che c’è una guerra in corso viene giudicato un autocrate ambizioso, freddo e spietato. Resta ora da capire se e fin quando i vertici industriali e militari lo appoggeranno in una guerra ferma al fronte da mesi. Putin non ha solo costruito e diffuso ad arte la sua biografia, ma ha interpretato il profondo desiderio di rivalsa del popolo russo dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. In Cecenia è andata bene, in Georgia e in Crimea pure, utilizzando patrioti e milizie di fatto inquadrate nell’esercito regolare. Qualcosa però in Ucraina è andato storto: la guerra di posizione dura da mesi e ha un costo per tutti, anche se la capacità di resistenza della società russa è notoria e i disagi si vedranno solo nel lungo periodo. Putin può vincere solo accettando di limitare gli obiettivi, mentre invece – un po’ come la Germania nel 1939 – tende ad estenderli al Baltico e al Mar Nero. Ricostruire la mappa della vecchia Unione Sovietica è antistorico. Più senso strategico avrebbe stabilizzare i rapporti con l’Europa e dedicare le forze allo sviluppo delle enormi regioni orientali, vista anche la presenza della Cina, demograficamente ed economicamente più forte ora e in futuro. Ma questo esula dal contenuto del libro, peraltro pieno di aneddoti e dettagli molto sfiziosi sulla vita e la distorta personalità di un uomo politico sottovalutato per anni da noi occidentali.
Le guerre di Putin. Storia non autorizzata di una vita di Giorgio Dell’Arti La nave di Teseo, 2022, pp. 160 EAN: 9788834610701
Ascoltando alla radio i Ricordi di libreria di George Orwell mi sono divertito: figlio di un libraio antiquario, condividevo la delusione di chi lavora con i testi antichi, rari o esauriti e inizialmente crede che tali librerie siano frequentate da bibliofili e collezionisti, salvo prendere atto che entrano per lo più perditempo, ladri di libri e studenti che tirano sul prezzo dei manuali. Personalmente avevo stabilito una regola: se dopo la terza volta lo sfaccendato usciva senza aver comprato almeno un opuscolo, allora non gli rivolgevo più la parola o lo facevo educatamente uscire. Uno addirittura si giustificò affermando di essere “un pensatore strutturale”. Una libreria è un esercizio commerciale (negotium, il contrario di otium); può anche diventare un cenacolo di cultura, ma non una biblioteca pubblica, perché al libraio non arriva lo stipendio a fine mese, ma campa con la merce che vende. La libreria Feltrinelli alla fine levò le poltroncine “di prova”: la gente leggeva i libri senza comprarli (1). Quanto all’esperienza del giovane Orwell, mi fa piacere sapere che tutto il mondo è paese. Quando mio padre neanche trentenne aprì nel 1951 la sua libreria antiquaria in piazza Pasquino “o dei librari” (dietro piazza Navona), la scelta fu felice: se avevi i contanti, nel dopoguerra si potevano comprare intere biblioteche, la gente leggeva molto e le ristampe erano meno frequenti; in più si potevano stampare cataloghi da mandare agli abbonati, pratica comune fino agli anni Ottanta del secolo scorso, quando l’Internet ha sostituito i fascicoli spediti a tariffa agevolata. Conservo qualche foto storica della nostra prima libreria, e ancora mi chiedo come mai un giovane laureato appena sposato abbia pensato di aprire un’attività tipica dei pensionati. Mio padre voleva che la libreria divenisse un circolo culturale e la sua clientela era internazionale. Peccato che una pleurite lo costringesse a chiudere bottega dopo uno o due anni. Nel frattempo ero nato io. Avrei dovuto aspettare quindici anni prima di vedere riaperta la nostra libreria, stavolta ai piedi del Quirinale, dove è sopravvissuta come bottega storica fino al 2018. Dico sopravvissuta perché, morto mio padre nel 2003, mia madre ha voluto continuare l’impresa senza delegarne la gestione ai figli e di fatto invecchiando insieme alla bottega, chiusa definitivamente a pochi mesi dalla sua morte a 91 anni. Ma c’è dell’altro: la zona di Fontana di Trevi e gran parte del centro storico – peraltro limitato dalle ZTL – erano ormai diventate il Luna Park del turismo di massa, ignorante e distruttivo, capace di girare in mutande e fotografare le cartoline per non comprarle. I miei genitori e io stesso eravamo diventati “pittoreschi” e per questo continuamente fotografati, ma il commercio ha bisogno di clienti e non di voyuers. Il libro stava poi perdendo rapidamente la sua centralità: l’epoca d’oro dell’esaurito cedeva il posto alle facili ristampe digitali, quando negli anni 90 la composizione in piombo fu abbandonata per tecnologie più moderne. Le edizioni in linea e altre fonti in rete hanno poi fatto il resto in un paese dove comunque si stampa troppo e si legge troppo poco. Nei mercatini oggi si trovano a meno di un euro volumi che da studente non mi potevo permettere e le enciclopedie oggi addirittura le ritrovi buttate nei cassonetti, tanto c’è Wikipedia, con la quale peraltro collaboro. Mi resta invece l’ingombro di almeno 3000 volumi che non riesco né a vendere, né a regalare a biblioteche: sempre mi rispondono dicendo che non hanno spazio, ed è vero: negli ultimi vent’anni non si è investito nel settore e lo spazio resta sempre quello iniziale. In più c’è il fattore umano: meno libri significa meno lavoro, tanto lo stipendio arriva comunque. E avendo lavorato nelle biblioteche per quarant’anni, certi colleghi li conosco bene.
Ma se il libro usato ha perso qualsiasi valore commerciale, assistiamo a un fenomeno nuovo: l’offerta e lo scambio gratuiti, qualcosa che va ben oltre il book crossing:. Tanto per fare un esempio, all’interno del mercato comunale Talenti (sulla Nomentana) c’è un ampio spazio dove chiunque può portare i libri che non usa più e prendere quelli che vuole leggere o ritiene utili. Parliamo di centinaia di opere messe in disordine ma non accatastate. Le scaffalature sono state create con le cassette della frutta messe per traverso e impilate, con l’avvertenza di non recuperarle per il mercato. C’è di tutto: libri scolastici, atlanti, romanzi, volumi di enciclopedia, libri per ragazzi, saggistica. Per me ho recuperato un’edizione rilegata de I sette pilastri della saggezza di Lawrence d’Arabia. Perso dunque il valore commerciale, ne resta dunque il valore intrinseco: il libro mantiene ancora il suo valore funzionale prima ancora che simbolico.
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Lo stesso fece la Deutsche Grammophon (stava a via Frattina) con le cabine di prova dei dischi: la gente li ascoltava per intero e poi li restituiva al banco.
Il 24 febbraio 2022 fissa lo spartiacque tra due epoche: dopo la seconda G.M. l’Europa ha goduto 77 anni di pace e la fine della Guerra fredda aveva fatto credere che la guerra come strumento di pressione politica non fosse più una scelta praticabile. Il libro inizia in un modo insolito: una scena teatrale con due possibili finali, protagonisti Putin e i suoi generali alla vigilia dell’”operazione speciale”. Puntavano in realtà su Kiev per far cadere il governo Zelensky e imporne uno loro: storicamente i sovietici puntavano sempre sulla capitale per imporre un loro uomo (Budapest, Praga, Varsavia, Kabul), ma stavolta hanno fatto male i calcoli. Ora, dopo quattro mesi si può fare il punto e trarne alcune conclusioni. L’autore è un generale ora in congedo, con una lunga esperienza nella NATO e nelle missioni internazionali. Si comincia dalla storia: l’Ucraina, estesa nazione slava per secoli ha gravitato fra Est e Ovest per poi essere assorbita nell’orbita russa almeno fino al 2014, quando l’Ucraina decide di gravitare verso l’Occidente. Si tende a giustificare l’aggressiva politica russa come reazione all’espansione della NATO a Est, ma l’adesione era libera, come libere erano le nazioni che volevano entrare in un’alleanza difensiva. Stranamente, un processo negoziale così importante ha lasciato pochi documenti ufficiali, né provocava una decisa reazione diplomatica da parte russa, nonostante Putin fosse già al potere e potesse esercitare pressioni sulla NATO, con la quale si manteneva un rapporto di collaborazione. Quindi è verosimile pensare che la saturazione risalga al 2014, quando l’Ucraina cambia governo e la Russia si riprende la Crimea, peraltro assegnata nel 1954 all’Ucraina da Krus’ev in un contesto diverso, tutto interno all’URSS. A seguire, il problema del Donbass, vasta e popolata regione ucraina ricca di risorse, ma abitata anche da una forte componente russa, alla quale non si riconosce un’autonomia simile a quella da noi concessa ai sud-tirolesi. Risultato: 4000 morti in 8 anni e una guerra civile strisciante, con l’uso spregiudicato di milizie irregolari. Nell’”operazione speciale” in realtà di fantasia se ne è vista poca: i russi si sono mossi in modo schematico, con disfunzioni logistiche e tattiche ben sfruttate dalle fanterie leggere ucraine nel contrasto dinamico. L’ossatura tattica dei russi si basa sui BTG (pag.30-31), battaglioni meccanizzati con mezzi, armi e autonomia. Non sono in realtà un’invenzione russa, ispirati piuttosto ai Kampfgruppe tedeschi. Nei primi tre mesi ne sono stati impiegati 90 sui 180 teoricamente disponibili: una forza di manovra 90.000 uomini, più 150.000 tra regolari e miliziani per tenere le retrovie e rimpiazzare le perdite. Le forze ucraine – 250.000 uomini – hanno dovuto dislocare almeno 150.000 soldati lungo il fronte, anche se solo in parte ben addestrati. Dunque il rapporto attaccante/attaccato è 1:1, quando dovrebbe essere 3:1 per riuscire efficace, a meno di non avere Rommel o von Manstein al comando. Qui invece nessuno ha individuato il punto dove aprire un varco e penetrare in profondità. In più le forze ucraine – più agili – si sono valse di armi moderne ed efficaci: droni armati Bayraktar TB2, missili controcarro Javelin, Le operazioni sono comunque ben illustrate nelle pagine 39-48, con tanto di cartine. In alcune zone sono stati conquistati 200 km in 6 giorni, altrove dai 10 ai 100 km., salvo poi dover affrontare i grossi centri abitati, dove rastrellare blocchi di 20 piani o industrie grandi quanto l’Ilva di Taranto ha trasformato l’avanzata in una guerra di assedio, dove i civili pagano il conto: i russi non fanno sconti e procedono alla russificazione immediata delle zone conquistate, secondo l’archetipo della seconda GM. Nel frattempo si è chiarita la strategia russa: non solo conquistare tutto il Donbass, ma saldarlo alla Crimea conquistando uno dopo l’altro i porti del Mar Nero – Cherson e Mariupol – e chiudendo il Mar d’Azov. L’assedio dell’acciaieria Azovstal ha avuto effetti mediatici, ma più logico sarebbe stato esfiltrare le forze per tempo e riorganizzarle altrove. Odessa a tutt’oggi (luglio 2022) non è ancora stata conquistata, ma l’Ucraina non vuole perdere l’accesso al mare e quindi affonda le navi russe e difende l’Isola dei Serpenti. Le forze da sbarco in realtà non hanno la capacità offensiva e la forza di penetrazione in profondità richiesta da un’operazione del genere. Ma nel frattempo le operazioni sul terreno sono cambiate: sguarnito il fronte di Kiev (ma con la pressione dell’alleato/vassallo bielorusso) le forze russe sono state concentrate nel Donbass e lungo la costa del Mar Nero. Per risparmiare gli uomini i russi ora combattono come 50 anni fa, facendo uso massiccio dell’artiglieria – quasi 5000 colpi al giorno più i missili – per spianare tutto quello che c’è davanti, città comprese, per poi far avanzare i carri e infine la fanteria. Dall’altra trincea si chiede agli alleati europei e americani artiglieria a lunga gittata, mentre i mezzi corazzati arrivano dai depositi degli ex membri del Patto di Varsavia. Non esistono per ora fonti ufficiali sicure, ma finora i due contendenti hanno verosimilmente perso ognuno 1000 corazzati e almeno 6000 soldati. Un conflitto ad alta intensità fra forze convenzionali simmetriche logora le forze in modo rapido: è la classica Materialschlacht, guerra di logoramento che dura finché è possibile alimentare il fronte. Solo in caso di esaurimento delle risorse uno dei due nemici è disposto a negoziare. In realtà gli ucraini non vincono: resistono. Nel capitolo successivo (p.71) l’autore analizza invece la questione del comando, che secondo l’autore risente ancora del retaggio del centralismo sovietico. Dopo poche settimane tanti generali sono stati mandati a casa, ma la decisione di attaccare su 1500 km di fronte con 90 BTG non era solo militare: la guerra è una funzione della politica. Il capitolo successivo (p.89-99) è un’analisi dei rispettivi armamenti (mezzi e organici) e mostra un certo squilibrio quantitativo a favore dei russi, compensato da una migliore tecnologia occidentale, tangibile p.es. nel controllo del campo di battaglia, nella direzione di tiro e nelle armi controcarro. Ma l’evoluzione del campo di battaglia può oggi portare solo a un consolidamento delle conquiste sul terreno. Dipende dalle forze in campo, dalla resilienza della società civile e dalla capacità industriale; questo vale per tutti. Una guerra lunga non fa comodo a nessuno e il Gas ne è il paradigma. Il problema è che chi scatena una guerra punta sempre sulla sua brevità, e in questo la storia militare è piena di exempla. L’ultima domanda: le forze armate italiane e/o europee sono preparate a un conflitto ad alta intensità? La risposta è negativa: finita la Guerra Fredda si è investito molto sulle “missioni di pace” e poco sulle forze di terra. Italia e Germania hanno una componente carri pesanti ormai ridotta e ci vorranno anni per ricostruirne una credibile. Si parla poi da anni di Difesa Europea, ma finora restano i problemi di sempre (chi paga e chi comanda?), mentre la NATO è invece rinata proprio perché c’è la guerra in casa. Purtroppo lo spostamento del fulcro al centro dell’Europa penalizza il Mediterraneo, anche se il ruolo strategico della Turchia e la gestione delle rotte del grano dovrebbero aprire gli occhi a chi ragiona come se esistesse solo il Sacro Romano Impero.
Il conflitto in Ucraina Una cosa troppo seria per certi generali ma specialmente per certi politici Luigi Chiapperini Francesco d’Amato Editore, 2022, pp. 240 ISBN 978-88-5525-136-5 Prezzo 12 euro.
Storicamente i nuovi regimi cambiano i nomi e non certo solo in Italia: Koenigsberg è diventata Kaliningrad, Tilsit è Sovetsk, Pietrogrado si è chiamata ora San Pietroburgo e poi Leningrado e di nuovo San Pietroburgo. Da noi Littoria è diventata Latina e a Roma viale dei Martiri Fascisti è oggi viale Bruno Buozzi, tanto per fare solo un paio di esempi. Solo che si tratta di azioni decise in seguito a un conflitto vinto dal gruppo dirigente della nazione vincente oppure da un governo che si sostituisce a un regime. C’è un consenso collettivo almeno di una parte, e soprattutto sono atti che si fanno subito e sistematicamente e come tali vengono accettati dalla comunità. Qui invece assistiamo allo strano spettacolo di singoli attivisti che dopo ottant’anni dalla fine della guerra e del Fascismo si svegliano e scoprono che al Foro Italico (già Mussolini) c’è una stele con inciso DUX o che Amedeo duca d’Aosta era un colonialista. Ricerca di notorietà o rapido assorbimento di quel conformismo rivoluzionario (è un paradosso, lo so) chiamato Cancel Culture? L’ultimo episodio si registra a Pistoia, dove si è proposto di cambiare nome al locale liceo scientifico, intitolato dal 1942 al Duca d’Aosta, per sostituirlo magari con quello di una donna (Margherita Hack? Rita Levi Montalcini?). Alla fine il Consiglio d’istituto non ha approvato la proposta, ma gli strascichi sono finiti sui giornali per tutto luglio. Pro la cancellazione: il Duca era un fascista, militarista e colonialista. Contro: Amedeo era estraneo al Fascismo, era un buon soldato, eroe di Amba Alagi, oppositore del Duce, buon padre dei suoi soldati. Contro: gli studenti di sinistra, le associazioni partigiane, lo storico dell’arte e rettore dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari. Pro: gli studenti ed ex studenti di destra, i monarchici e Aimone di Savoia, difensore d’ufficio della dinastia sabauda. Per fortuna nessuno ha messo in mezzo il romano Ponte Duca d’Aosta, magari non sapendo che non è intitolato ad Amedeo ma ad Emanuele Filiberto, generale della prima Guerra Mondiale e capo della “invitta Terza Armata”. In realtà la sua armata era invitta perché l’attacco austro-ungarico-tedesco nel 1917 si svolse più a sud, lungo la valle dell’Isonzo, trascurando dunque il settore nord del fronte. E a dirla per intero, Emanuele Filiberto era anche un mediocre stratega. Amato dai suoi uomini, volle che la sua tomba fosse nel sacrario di Redipuglia accanto ai suoi soldati. E almeno qui il mito non è stato mai intaccato.
Invece torniamo ad Amedeo di Savoia Duca d’Aosta. Fin dalle elementari ricordo la sua immagine nei libri di scuola: giovane e bello, nella sua uniforme bianca, morto in prigionia, eroe rispettato anche dagli Inglesi, che gli concessero l’onore delle armi . Un mito. E come tutti i miti, costruito ad arte quanto sentito a livello popolare. La realtà ovviamente è sempre diversa. Instradato alla carriera militare fin da giovane – nella scontata tradizione dei Savoia – quando Amedeo fu inviato in Africa Orientale nel 1936 come viceré d’Etiopia, riuscì a rendere meno odiosa la gestione coloniale finora affidata al maresciallo Graziani. Dopo la seconda guerra italo-abissina, il 21 ottobre 1937 Amedeo di Savoia-Aosta fu nominato governatore generale (e quindi comandante in capo) dell’Africa Orientale Italiana e viceré d’Etiopia. Nel 1941, di fronte all’avanzata degli inglesi nell’Africa Orientale Italiana, le poche truppe italiane rimaste al suo comando si ritirarono per organizzare l’ultima resistenza sulle montagne etiopi. Amedeo si asserragliò dal 17 aprile al 17 maggio 1941 sull’Amba Alagi – una montagna tipica dell’Etiopia, alta più di 3000 metri – con 7.000 uomini, una forza che comprendeva un reggimento di fanteria, carabinieri, avieri, marinai della base di Assab, 500 soldati della sanità e circa 3.000 indigeni, più un rteggimento di artiglieria con cannoni vari. Un assedio 6 contro 1, visto che gli inglesi e le loro truppe coloniali assommavano a 40.000 uomini. In realtà non poteva fare altro: una volta chiuso il canale di Suez, l’Africa Orientale Italiana non poteva più essere rifornita (per inciso, nessun Savoia è mai stato un genio militare) e l’esito dell’assedio era scontato. Amedeo morì di malaria durante la prigionia in Kenya il 3 marzo 1942. Aveva 44 anni.
Ora, dire che Amedeo fosse un oppositore del fascismo è un falso storico. Per quanto il Duce potesse essere antipatico al Duca d’Aosta, il Re e i Savoia sono stati organici col Fascismo dal primo all’ultimo giorno, pur sopportandone la volgarità. Ozioso invece accusarlo di colonialismo: un viceré d’Etiopia lo era per forza, per quanto accorta e diplomatica fosse la sua gestione rispetto alle pratiche criminali di Graziani. Il vero problema lo affrontò con ironia Umberto Eco: nelle cattedrali d’Europa sono seppelliti personaggi che nessuno inviterebbe a cena se avesse una figlia minorenne, ma sono prodotti nazionali e come tali te li devi tenere. Anche loro sono avvolti dal mito ed è il mito a essere trasmesso a scuola. Possiamo creare nuovi monumenti, ma dobbiamo tenerci anche quelli esistenti. Non sono monarchico, ma per me il Duca d’Aosta rimane quel bell’ufficiale in divisa bianca al quale gli Inglesi (la perfida Albione) ha concesso l’onore delle armi. In Italia ci vergogniamo delle poche vittorie, ma abbiamo il culto della gloriosa sconfitta, come El Alamein (1942). Infine, una riflessione: se dobbiamo cancellare la memoria del Duca d’Aosta perché fascista e colonialista, allora dobbiamo cambiar nome anche a viale Giulio Cesare: se non era imperialista lui, chi altri? Imperium è anche una parola latina.
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