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Turismofobia

Il lessico estivo si è arricchito quest’anno di un’altra parola: turismofobia, discutibile quanto altre simili (omofobia, islamofobia): perché mai associare alla psicologia clinica una motivata avversione per un fenomeno sociale o politico? Manifestare contro il sovraturismo, il degrado delle città d’arte e l’invasione dei B&B non è un disturbo della personalità ma la reazione a un fenomeno gestito unicamente dal mercato e trascurato dalla politica. Basta scorrere i titoli dei giornali: rivolta dei residenti di Barcellona e delle isole Canarie, centri storici svuotati degli abitanti, parcellizzazione degli spazi immobiliari, negozi e servizi orientati solo al turismo di massa, solo affitti brevi, traffico intasato, affitti alle stelle, carenza di alloggi per studenti, famiglie espulse verso le periferie, bassa delinquenza parassita. Ma anche senza leggere i giornali basta farsi un giro per Roma per giudicare qualità e quantità del turismo attuale, esploso dopo il Covid e risorsa indispensabile per i comuni in deficit. In realtà il turismo di massa non è una novità: fino a pochi anni fa abitavo al centro e la mia famiglia aveva una bottega storica a Fontana di Trevi, dove comunque passavano carovane di turisti con scarso potere di acquisto, poco tempo per vedere tutto e una basica cultura generale. C’erano i negozi di souvenir, ma non al punto di saturare e snaturare le vie e le pareti degli edifici, né i turisti fotografavano le cartoline invece di comprarle. Mio padre – pittoresco antiquario – è stato ritratto tanto di quelle volte da entrare alla fine nel personaggio, ma senza che le vendite aaumentassero. In compenso, con i cellulari e i gps in mano, nessuno mi chiedeva più dove era Fontana di Trevi, peraltro sommersa non certo da ieri da masse di turisti. La differenza è che oggi si è arrivati quasi alla saturazione e alla rivolta dei cittadini residenti. Come calcolare il punto di rottura? Applicando un parametro caro all’ecologia: il concetto di carico massimo o capacità portante dell’ambiente, ovvero quanto stress un ambiente può assorbire prima di collassare per il degrado o la mancata riproduzione degli elementi che ne rendono possibile un equilibrio armonico (1). Analizzando in modo sistematico il fenomeno, è impressionante la rapidità con cui si è passati dai B&B familiari ai grandi gruppi immobiliari stranieri (come il tedesco Limehome) che comprano interi palazzi per farne quello che sappiamo. Quello che doveva essere una risorsa aggiuntiva per le famiglie con un appartamento ben collocato si è presto trasformato in un’industria pesante che ha espulso tutti gli altri. L’obbligo di abitare nello stesso immobile affittato a breve termine è stato presto superato e ormai le trattative si fanno solo per via telematica, compresi i codici di accesso per le serrature. Si è detto che il turismo porta i soldi, anche quello povero (perché gioca sulla quantità), ma a chi vanno in tasca? Un turista che prenoti con Airbnb e paghi in anticipo anche altri servizi (collegamenti, etc.) quei soldi non li spenderà a Roma o Firenze, ma andranno a finire in un conto estero. Per non parlare degli affitti in nero, a Roma forse anche il 30% del totale. Diciamolo, la politica ha lasciato fare il mercato, sperando in facili entrate per riempire le casse vuote, ma non ha capito che se un’attività occasionale diventa un’impresa, come impresa va inquadrata e tassata, obbligando a quel punto l’imprenditore ad attenersi alla normativa prevista per le imprese alberghiere, da quella igienica a quella fiscale, ed evitando poi che i colossi tipo Airbnb (in stile Microsoft) facciano profitti miliardari senza dare una lira al paese dove si trovano realmente le stanze in affitto.

Non so però quanti sanno che il turismo di massa è se non il figlio almeno il nipote del Gran Tour, l’esperienza quasi obbligatoria riservata dall’inizio del sec. XVII ai giovani nobili europei – inglesi e francesi, ma anche tedeschi e olandesi – per dar loro occasione di perfezionare i loro studi visitando le città d’arte italiane (sempre le solite: Venezia, Firenze, Roma, Napoli, magari con una estensione via nave in Sicilia) e godendo delle bellezze e delle opere d’arte del nostro paese. Nelle loro descrizioni – diari, lettere – abbondano i luoghi comuni: la grandezza di Roma antica ridotta a un deserto di ruderi, l’elenco più o meno freddo ei quadri degli Uffizi, l’emozione davanti a Michelangelo, il falso moralismo verso la prostituzione d’alto bordo di Venezia e quella miserabile di Napoli. E soprattutto, l’idea che l’Italia è stupenda per quanto sono arretrati gli italiani, come se ne potesse fare a meno, e si direbbe che la von der Leyen la pensi ancora in questo modo. Nascono proprio ai tempi del Tour le guide per viaggiatori che più o meno si sono aggiornate col tempo. Ma se confrontate una guida del Settecento con un moderno Baedeker o una guida blu Michelin noterete che alla fine le guide del TCI hanno semplicemente aggiornato l’idea iniziale, come invece il pellegrinaggio a Roma si basava sui Mirabilia Urbis Romae più volte ristampati nei secoli ma pur sempre basati su un progetto editoriale nato nel 1300 con l’Anno Santo. Ma mentre il turismo religioso è sempre stato popolare, quello laico si è democratizzato partendo da un’iniziativa d’élite. Turismo deriva da Tour, ma diventa qualcosa di diverso con Thomas Cook, l’imprenditore inglese che nel 1841 iniziò a portare gruppi di pellegrini in treno (lui era un pastore protestante) ed ebbe l’idea di organizzare i viaggi delle comitive borghesi, fondando un’agenzia che ha chiuso i battenti nel 2019. Thomas Cook ha trasformato l’esperienza di pochi in un progetto accessibile, inventando anche gli assegni per viaggiatori e le carrozze pullman, per non parlare dell’esclusiva delle crociere sul Nilo, all’epoca un protettorato britannico. Il suo modello è stato anche ironizzato da Mark Twain ne “Gli innocenti all’estero” (1869), dove l’autore segue il tour Cook di un gruppo di americani che si lamentano perché Venezia è allagata e poco s’interessano di storia dell’arte “perché negli Stati Uniti non è insegnata”. Rispetto al Mississipi l’Arno è un ruscello e così via: i suoi compagni di viaggio non riescono ad apprezzare una terra di morti quale è per loro l’Italia, sono anzi orgogliosi del loro essere appunto “innocenti” rispetto ai pregiudizi della vecchia Europa. Sono luoghi comuni che vedremo ripetuti all’infinito (un signore inglese mi disse che invece della cucina italiana preferiva i Fish & Chips) ma che mostrano l’anima del turista di massa: un consapevole, orgoglioso ignorante, superficiale ed estraneo alla cultura con cui viene a contatto senzaa comprenderla e tutto sommato alla ricerca di un parco a tema in cui i nativi – non importa se italiani, spagnoli o asiatici – fanno parte della scenografia. E molti stanno al gioco: si deve pur mangiare per vivere.

Ma intendiamoci: per conoscere una cultura bisogna stringere relazioni continue e profonde con l’ambiente e troppo spesso il tempo è poco. Ma poter viaggiare in aereo nei pochi giorni di ferie è democrazia, estensione dei previlegi prima riservati a una minoranza. Ancora negli anni ’50 il viaggio era un’esperienza costosa e chi scrive ricorda bene i prezzi degli aerei di linea. Appartengo infatti alla prima generazione che ha sentito la necessità di imparare le lingue e di viaggiare in Europa e lo ha fatto grazie alla scuola e all’Interrail. Chi ha fatto il militare si ricorda che moltissimi giovani non erano mai usciti dal paese o dalla propria regione. Ma se l’esperienza del viaggio o del turismo ora è più accessibile, non significa che sia per forza volgare. Una cultura di massa non è necessariamente un sottoprodotto: americani e sovietici lo hanno a suo tempo ampiamente dimostrato. Il problema è che quello che vediamo è una cultura per le masse, non differente da quella proposta dalle televisioni commerciali, dove non c’è nessuno sforzo per educare la gente. Se vogliamo, è pornografia. Che un certo turismo sia in stretto contatto con lo spettacolo si è visto a Ragusa di Dalmazia (Dubrovnik), ormai sempre sovraffollata da quando vi sono state girate alcune puntate di “Trono di Spade”. Ma persino un modesto pontile del lago svizzero di Brienz è stato saturato dal turismo asiatico: questo perché il luogo è stato utilizzato per una scena della serie coreana di successo “Crash Landing on You“, in cui una ricca donna coreana si schianta con il parapendio in Corea del Nord e incontra e si innamora di un ufficiale dell’esercito. La scena mostra lo stesso ufficiale che suona il pianoforte su quel pontone di legno. Da allora, i turisti appassionati della serie Netflix fanno la fila, a volte per ore, per farsi fotografare sul ponte dove è stata girata la scena del pianoforte (2). Il finale? Ora gli svizzeri fanno pagare 5 franchi l’accesso e il gabinetto. Noi italiani al massimo vorremmo dormire nella casa dove abitava il commissario Montalbano, ma già le masserie pugliesi sono diventate famose per l’accorta politica della Regione Puglie verso le produzioni cinetelevisive. Sarebbe anzi un’idea vincente lanciare sul mercato zone secondarie, non-luoghi, destinazioni poco sfruttate o semplici “dupe destinations”, destinazioni-clone (3) simili ma meno gettonate. La tendenza, nata su TikTok e legata inizialmente all’industria della bellezza, si sta diffondendo anche nel mondo dei viaggi, come svela un’analisi di Expedia Group da cui è emerso che i vacanzieri nel 2024 sono pronti a partire per luoghi più inaspettati e, spesso, più convenienti: Paros invece di Santorini, Sheffield o Liverpool invece di Londra. E qui le comunità locali o regionali dovrebbero elaborare precise strategie per valorizzare magari anche tesori nascosti o zone depresse. Il capitale ha bisogno continuo di espandersi e di investire risorse. L’importante è che si agisca con criterio, anche se per ora non c’è da farsi grandi illusioni: quando ti dicono che l’isola è incontaminata vuol dire che l’hanno già attrezzata per lo sbarco dei crocieristi, le cui navi tendono attualmente al gigantismo. Ma ancora trenta o quarant’anni fa quante persone potevano permettersi una crociera? Le vedevamo nei film brillanti, ma erano piene solo di gentlemen, avventurieri e belle signore. Ora a Trieste ne sbarcano anche due a settimana e più che navi sembrano blocchi di case popolari galleggianti e forse in fondo metaforicamente lo sono pure.

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Note:

  1. https://it.wikipedia.org/wiki/Capacit%C3%A0_portante_dell%27ambiente
  2. https://www.cdt.ch/news/vuoi-farti-un-selfie-allora-pagami-cinque-franchi-315688
  3. https://siviaggia.it/notizie/video/viaggio-scoperta-dupe-destination/426546/

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Il Turista nudo di Osborne

Gli anglosassoni hanno un tipo di scrittori da noi raro: il viaggiatore. Penso agli statunitensi Bill Bryson, Paul Theroux, William Least Heat-Moon, al gallese Jan Morris, agli inglesi Bruce Chatwin, Eric Newby, Wilfred Thesiger, Lawrence Osborne e Colin Thubron. Favoriti dalla loro indole di esploratori e protetti dall’espansione stessa delle loro nazioni, hanno sviluppato una letteratura unica nel suo genere, alla quale noi italiani – ben più provinciali – possiamo affiancare solo Tiziano Terzani. Fra questi autori scelgo oggi Lawrence Osborne, proponendo Il Turista nudo (2006), dissacrante panoramica del mondo attuale. Lui è un nomade, ma “il problema del viaggiatore moderno è che non sa più dove andare”: ormai il pianeta è un grande parco a tema o un’installazione turistica spacciata per natura incontaminata ma ormai priva dell’esotismo portato avanti dalle conquiste coloniali, quando il viaggiatore poteva scoprire il favoloso Oriente o l’Africa misteriosa senza rischiare di essere rapito o ucciso dai talebani o da qualche oscura banda locale, purché viaggiasse con la Thomas Cook e alloggiasse in quei monumentali alberghi con enormi viali e giardini curati da centinaia di lavoratori-schiavi. Tuttora si trovano al Cairo o a Bombay o Calcutta (pardon: Mumbay e Calkata), veri fortilizi di lusso dove godere di tutti i servizi necessari per un europeo ed evitare di essere infastidito e inseguito dalla folla dei poveri non appena girato l’angolo, cosa che è normale anche adesso: l’autore cita l’antropologo Claude Levy-Strauss ma si trova pure lui nella stessa situazione. D’altro canto la popolazione locale viene sempre incontro al turista e gli vende tutto, magari pure le figlie. Il viaggiatore e/o turista vorrebbe che se non tutto, almeno qualcosa fosse autentico, ma quando l’autore descrive Bali come una capitale del vero artigianato balinese ad uso del turismo e non ne può più della musica “barong”, che dire? Bali è un museo vivente, ma d’altro canto il mercato non sa che farsene del resto dell’Indonesia, musulmana e magari anche fondamentalista. Nelle isole Andamane (arcipelago indiano), già battute dalla Mead, alcune popolazioni sono ghettizzate (oppure ostili di suo) ma in un certo senso protette dal turismo. A Dubai l’opposto: è un vero luna park costruito dal nulla, tutto è nuovo (e kitsch), avveniristico, un miracolo strappato al deserto grazie al petrolio. Ma vale davvero la pena di andarci? Tutto è futuro, ma la classe dirigente è rimasta medievale. Altrove poi l’architettura non è così avveniristica: i simboli dell’antica Roma e Atene il colonialismo li ha usati per dare uno stile imperiale al dominio sugli altri (almeno fino alo 1950), ma di quei simboli si sono riappropriati i parvenu dell’indipendenza per dare vigore al progetto sociale e politico da loro giustamente proposto. Alla fine ne viene fuori un insieme di decadenza e consumismo, di generose aspirazioni politiche e sociali unite alla dipendenza dal denaro esterno. Il turismo mondiale muove 500 miliardi di dollari, quindi è la più grande industria del pianeta. Ma pochi sanno che le Maldive sono state letteralmente inventate nel 1972 da un gruppo di imprenditori italiani ed ora sono quello che sono. Osborne lo fa notare ed è abbastanza grande (1958) da ricordare molti luoghi prima che arrivassero le cavallette. In sostanza, nel mondo metà della società lavora per intrattenere l’altra metà, relegando la cultura e la reale esperienza del viaggio a settore residuale: l’importante è divertirsi e ci sono città come Bangkok che lui ribattezza “Edonopoli”, la città del piacere. Eppure la Thailandia (già Siam) non è mai stata colonia di nessuno. Osborne descrive ogni volta questi resort dove si può avere e fare di tutto, anche cambiare sesso o pagar poco un bravo dentista (noi italiani invece andiamo in Croazia). Tutto è artificiale ma inserito nella natura allo stesso tempo, così vuole lo standard del luogo incontaminato ma “comodo”, a meno di non scegliere Avventure nel Mondo e altre agenzie che comunque sorvegliano e proteggono il viaggiatore. Turista e viaggiatore ovviamente non sono la stessa cosa: il primo consuma ma resta un frettoloso estraneo, il secondo si suppone abbia interessi e curiosità più produttive. E’ il fascino di visitare i posti dove nono sono stati (ancora) gli altri, di interagire con il diverso. Eppure anche Osborne fatica a trovare i reali parametri della sua esperienza conoscitiva: inizialmente l’altro si pone sempre in modo di soddisfare le aspettative del nuovo venuto, vuoi per servilismo opportunista (chi ha viaggiato in certi paesi lo sa), vuoi per non essere invaso e mantenere il suo mondo religioso e parentale lontano  da occhi indiscreti. Osborne cita spesso Claude Levy-Strauss e Margaret Mead, grandi antropologi (la Mead tra l’altro è stata la prima a iniziare gli studi di genere oggi tanto popolari) e anche pessimisti sulla possibilità che trenta anni dopo le popolazioni di livello etnico visitate a suo tempo non fossero state corrotte dalla civiltà moderna (si cita spesso Tristi tropici di Levy-Strauss). Ma parlando strettamente di industria del turismo, avviene paradossalmente quanto diceva Walther Theodor Adorno a proposito delle avanguardie: l’avanguardia (qui: il turismo) deve continuamente andare avanti cercando nuove mete “vergini” da presentare come nuove, esotiche, incontaminate, altrimenti dopo pochi anni si cade nel già visto, nella ripetizione, nella colata di cemento e nel kitsch dei negozi di souvenir. Nessuno oggi definirebbe le Hawaii esotiche, lo erano duecento anni fa prima di diventare un’americanata. Nessuno crede oggi nell’originalità dell’artigianato veneziano (prodotto in Cina), ma ancora crede in quello balinese, non fosse perché gli artigiani sono veri e lavorano in modo tradizionale (parliamo di stile, non di tecniche e utensili). Un capitolo del libro s’intitola “un paradiso artificioso”, l’altro “La spa”. Già, perché l’ossessione per il corpo e per i centri di salute e benessere crea un indotto enorme e anche piacevole, diciamolo, almeno per chi se lo può permettere. Ai ricchi piacciono i resort fortificati e ho sottomano l’immagine di Rondoni (Mamula in slavo), una fortezza costruita su un’isola a protezione dell’accesso alle Bocche di Cattaro (Montenegro): ora è un resort esclusivo e costosissimo, ma da lontano sembra un penitenziario. Ben diverso dagli alberghi indiani che Osborne descrive senza sconti: gestiti dallo Stato, servono solo a dar lavoro ai giovani ma non garantiscono nemmeno sapone e lenzuola, articoli per i quali l’autore litiga e mercanteggia ogni volta. Sorprendente anzi la disinvoltura con cui sa passare daagli alberghi a cinque stelle (pagati dall’editore?) alle stamberghe dove meglio è mettere il tappo al lavandino per evitare la ronda dei bacarozzi (da me sperimentata in Turchia, ndr.). E da buon inglese, sorseggia sempre e ovunque un buon whisky, come Il nostro agente all’Avana di Graham Greene

L’ultimo capitolo però è diverso dagli altri: l’autore, dopo un’opportuna preparazione, decide di vivere per qualche tempo in Papua Nuova Guinea, uno dei posti meno turistici del mondo, privo com’è di strade. Eppure vi si parlano più di 800 lingue diverse e c’è una varietà di colture e culture sorprendente. L’autore si appoggia a una vecchia missione evangelica per addentrarsi nell’interno, con il necessario supporto di guide locali. Gli indigeni vivono nella foresta da millenni e la sanno lunga, al punto di studiare loro il “diverso” che hanno davanti. Ed ecco le osservazioni finali:

Tornando a Tambunam ho capito in modo molto chiaro che la vita e la cultura di un popolo si possono cogliere solo vivendo fino in fondo tutta una serie di intensi rapporti personali. Solo attraverso l’intreccio delle vite possiamo sperare di capire bisogni profondi , quali la continuità, la ripetizione delle esperienze e l’intimità”.


Il turista nudo
Autore: Lawrence Osborne
Traduttore: M. Codignola
Editore: Adelphi, 2006, pp. 272
Pezzo: 22,90 €

EAN:9788845920677


GUERRA… fino a quando?

Opera di Daniela Passi per la mostra “Bandiera per la Pace”

iamo a giugno e due guerre in corso sono tuttora senza una soluzione a breve termine. Parliamo ovviamente del conflitto in Ucraina e quello a Gaza. Il primo ormai dura da oltre due anni, l’altro “solo” da otto mesi. Si tratta di guerre diverse una dall’altra e diversamente sentite. Geograficamente è più vicina a noi quella che si combatte in Ucraina, ma stranamente la mobilitazione giovanile si concentra piuttosto sulla striscia di Gaza. Eppure se un giorno dovremo andare al fronte, non sarà certo al valico di Rafah. Era dalla Guerra Fredda che non si parlava più di deterrenza, riarmo, ripristino della leva, costose esercitazioni militari in grande scala. La NATO se non fosse stato per l’azzardo di Putin aveva da tempo perso la sua funzione originaria, che era appunto difendere l’Europa da un’invasione sovietica. Europa ambigua come al solito: tutti vogliono aiutare l’Ucraina, ma lo fanno in ordine sparso, senza un vero coordinamento. Forse l’immagine simbolica dell’Europa è proprio Nemo, il cantante che ha vinto l’Eurofestival, metafora del mutante in bilico. Questo mentre a Karkiv (Karchov per i russi) si combatte come nella seconda G.M. (storicamente sarebbe la quarta battaglia) e quasi con le stesse tattiche: droni e missili a parte, i russi hanno solo da poco scoperto l’infiltrazione e continuano a combattere come nelle due guerre mondiali, mandando avanti carri e fanteria su tutto il fronte dopo aver sparato migliaia di colpi di artiglieria. Difficile capire fin dove possono arrivare, i progressi sul campo sono molto lenti e probabilmente cercano di saldare i vuoti nello sparso schieramento tra il Donbass e Odessa. Come ho già scritto, in una guerra di logoramento conta più la capacità di rifornire il fronte di uomini e mezzi rispetto all’arte della guerra vera e propria, dove i russi hanno dimostrato di avere scarso coordinamento fra le armi e una scuola di guerra antiquata. Ma hanno dalla loro parte risorse demografiche e industriali quasi infinite e questo alla lunga conta. Le varie iniziative di alcuni stati europei di reintrodurre il servizio di leva o di potenziare la produzione di armamenti richiedono tempo e risorse. In più, c’è una generazione per motivi storici totalmente estranea all’idea stessa di guerra in casa, e se gli ucraini stessi faticano a convincere i loro giovani ad andare al fronte, figurarsi gli altri. Nel frattempo anche a Gaza si continua a morire e ci si chiede che fine abbia fatto l’ONU.

Resta inoltre un problema di non poco momento: come analizzare i dati di una guerra. E’ chiaro che ogni parte tira l’acqua al proprio mulino, la propaganda e la disinformazione sono sempre esistite e adesso sono amplificate dai social e dai nuovi mass media. In genere io capisco se la fonte è russa o ucraina dalla grafia con cui sono scritti i nomi delle città e dei villaggi e seguo in genere più fonti insieme cercando di avere anche mappe aggiornate del terreno di scontro, ma foto e documenti vanno sempre vagliati con attenzione. Molti giornalisti vengono cacciati o perseguitati, quindi è difficile avere un quadro realistico del fronte, sia quello ucraino che quello palestinese. L’importante è controllare le fonti e non credere mai troppo neanche alle foto o ai brevi video (commentati sempre con musica rock, ndr.): ormai con l’IA è possibile anche creare dei falsi perfetti. Il vecchio metodo della storiografia – raccogliere documenti originali e analizzarli – si deve aggiornare ai tempi nuovi. E propone nuove sfide agli analisti.

Ramadan e dintorni

Cos’è il Ramadan l’ho scoperto molti anni fa lavorando per due mesi fra Mali e Bourkina Faso: pur con varianti locali, ovunque era tutto chiuso e in ufficio il personale musulmano era praticamente inutilizzabile (lo diceva già Kipling) per via del digiuno in paesi dove ogni giorno già si mangiava poco. Quest’anno invece sembra sia esplosa la scoperta e il confronto con quello che le comunità musulmane in Europa praticano non certo da quest’anno. Come mai tanto risalto, in parte dovuto alla brutta abitudine di un certo giornalismo che sfrutta le notizie come se avesse trovato un filone aurifero in miniera, le c.d. “notizie a caduta”, dove sembra che per un mese intero i cani feroci mozzichino tutti o che decine di minori siano insidiati dallo zio. Lo dico perché andiamo oltre le polemiche sulla scuola di Pioltello chiusa per prevedibili assenze di tre quarti degli studenti e la pretesa degli studenti dell’Università di Bologna di sospendere le lezioni in caso analogo, più gli spazi pubblici concessi o negati per quelle che per la Questura dovrebbero essere solo manifestazioni statiche autorizzate su suolo pubblico. Monfalcone è un caso di scuola e negare gli spazi a una comunità in crescita non è il sistema migliore per conviverci. Perché il punto è proprio questo: se cinquant’anni fa i musulmani in Italia erano poche migliaia, ora sono almeno due milioni, per la maggior parte immigrati con le ondate dell’ultimo ventennio, e in più, essendo una comunità giovane e prolifica, sta iniziando a chiedere i suoi spazi. E’ una dinamica sociale e politica comprensibile e non sarebbe la prima volta nella storia della democrazia che una nuova realtà sociale, politica e religiosa si pone come nuovo attore nella vita collettiva. Problema già affrontato non senza contrasti da altri paesi europei, ma sembra sempre che i nostri politici non abbiano mai viaggiato e non leggano i giornali degli altri.

La soluzione? Un Concordato tra lo Stato e  l’Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (abbreviato in UCOII), analogo ai Patti Lateranensi firmati nel 1929 e aggiornato nel 1984, dove si mettevano per iscritto le regole di convivenza fra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica. L’UCOII riunisce 153 associazioni sia territoriali che di settore e gestisce circa 80 moschee e 300 luoghi di culto non ufficiali, quindi ha tutte le carte in regola per proporsi come ente negoziale. Questo metterebbe fine al caos normativo creato finora da sentenze di tribunale, ordinanze di singoli sindaci e assessori, iniziative di singoli presidi, ricorsi legali e polemiche sui giornali di partito. Abbiamo un Parlamento ed è ora di sistemare la questione come si è fatto a suo tempo con il Vaticano.

Il bando messo al bando

Le più importanti università italiane (Roma, Torino, la Normale di Pisa, la Statale di Milano) stanno boicottando l’accordo di cooperazione fra il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (MAECI) e  il Ministero dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia (MOST) per la parte israeliana. Lo fanno per solidarietà con Gaza e l’atteggiamento del singolo rettore e senato accademico è ambiguo: nella mozione della Normale di Pisa si afferma “la necessità di ispirare le attività di ricerca e di insegnamento al rispetto dell’articolo 11 della Costituzione, che prescrive il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Per questo si impegna “a esercitare la massima cautela” nel valutare accordi istituzionali collaborazioni scientifiche “che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari e alla messa in atto di forme di oppressione, discriminazione o aggressione a danno della popolazione civile, come avviene in questo momento nella striscia di Gaza”. Ma a questo punto vediamo cosa prevede il bando che ha spaccato l’università italiana. E’ pubblicato nel sito ufficiale del MAECI (1) e così recita:

Si richiedeva la presentazione di progetti congiunti di ricerca italo-israeliani, nelle seguenti aree di ricerca, entro mercoledì 10 aprile 2024 (ore 16.00, ora italiana):

1. Technologies for healthy soils (i.e. – novel fertilizers, soil implants, soil microbiome etc.)

2. Water technologies, including: drinking water treatment, industrial and sewage water treatment and water desalination

3. Precision optics, electronics and quantum technologies, for frontier applications, such as next generation gravitational wave detectors

Il testo ufficiale è stranamente stilato in inglese, mentre tutto il resto del documento (15 pagine) è in italiano e contiene una lunga serie di disposizioni amministrative: in tutto verranno selezionati 11 progetti congiunti con il finanziamento massimo totale di 1,1 milioni di euro. Per ogni singolo progetto il MAECI finanzia un massimo di 200 mila euro e comunque  non oltre il 50% dei costi indicati nel preventivo. I progetti di ricerca avranno la durata massima di due anni con il Ministero che cofinanzia i costi di personale, viaggi, materiali e attrezzature, spese per pubblicazioni, consulenze e spese generali.

Cercando ora di capire il testo in inglese, al punto 1 si parla di tecnologie agricole (nuovi fertilizzanti, impianti nel suolo, microbioma, pannelli solari), mentre il punto 2 si concentra sulle tecnologie dell’acqua (potabilizzazione, trattamento delle acque reflue e/o provenienti da impianti industriali, desalinizzazione). Il punto 3 invece parla di ottica di precisione, tecnologie quantistiche per applicazioni sperimentali in fase di sviluppo e non ancora disponibili per usi commerciali, come p.es. rilevatori di onde gravitazionali di prossima generazione. Una doverosa traduzione ufficiale (il MAECI è un ente di Stato italiano) o almeno un testo bilingue gioverebbe senza ambiguità  alla comprensione del contenuto, ma il punto è un altro: nel testo non si fa cenno a ricerche nel campo militare. E infatti nella mozione studentesca – fortemente ideologica, neanche a dirlo – si allude a collaborazioni scientifiche “che possano attenere allo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari”. Quali? Non tanto quelle incentrate sui fertilizzanti (punto 1) ma casomai quelle che riguardano le ottiche di precisione e l’elettronica (punto 3), mentre non è chiaro se le tecnologie quantistiche sperimentali per lo sviluppo dei futuri rilevatori di onde gravitazionali possono avere un reale collegamento con l’industria militare, Invece nel bando non si parla stranamente di aerospaziale, che è invece il classico campo di uso duale della tecnologia di frontiera. Ma a loro replica Noemi Di Segni, presidente delle comunità ebraiche in Italia (UCEI) che ha definito il boicottaggio delle università israeliane “la cosa più assurda che abbiamo sentito pretendere (e che) non favorisce dialogo, pace, sapere e approfondimento, che sia verso le università israeliane, i singoli docenti, o anche soggetti di religione ebraica“.

Ma se nel bando non c’è traccia diretta di quanto temuto è perché la ricerca e lo sviluppo della tecnologia militare tra Italia e Israele non passano per l’università, ma sono legate piuttosto ai grossi gruppi industriali della difesa e aerospaziali, come Leonardo e le imprese a loro collegate. L’Italia per la difesa può solo far parte di alleanze, e queste scelte sono state fatte dal dopoguerra. E’ normale che tra alleati ci si scambino informazioni, tecnologie, ricercatori, mezzi materiali. L’esportazione di tecnologia militare non è coperta dal segreto di Stato, tutto è pubblicato ufficialmente dal Parlamento. Per il 2021 p.es. basta leggere il documento reperibile in rete e intitolato:

SENATO DELLA REPUBBLICA / XVIII LEGISLATURA / Doc. LXVII  n. 5

RELAZIONE SULLE OPERAZIONI AUTORIZZATE E SVOLTE PER IL

CONTROLLO DELL’ESPORTAZIONE, IMPORTAZIONE E TRANSITO DEI MATERIALI DI ARMAMENTO (Anno 2021) / (Articolo 5 della legge 9 luglio 1990, n. 185) / Presentata dal Presidente del Consiglio dei ministri (DRAGHI)

Comunicata alla Presidenza il 5 aprile 2022

Sono 1628 pagine e invitiamo chi avesse dubbi in materia a studiarselo. Negli ultimi dieci anni le aziende italiane hanno venduto a Israele tecnologia militare e armamenti per 120 milioni di euro, ma gli acquisti arrivano quasi a 250 milioni, pur con alti e bassi (2). Nel 2022 Israele ha ricevuto armi da aziende italiane per quasi 9,3 milioni di euro. Israele è comunque solo una parte dell’insieme: nel 2022 le aziende italiane hanno esportato armi nel mondo per un valore complessivo di circa 5,3 miliardi di euro. In questa somma sono compresi i costi delle intermediazioni fra i vari Paesi, le licenze e le autorizzazioni alla vendita. Nel complesso il valore delle autorizzazioni alla vendita di armi ammonta a circa 3,8 miliardi di euro. Il primo Paese a cui nel 2022 l’Italia ha venduto armi è stato la Turchia (598,2 milioni di euro), seguita dagli Stati Uniti (532,8 milioni) e dalla Germania (407,2 milioni). Ma a complicare i dati c’è la realtà di una serie di ricerche e prodotti “dual use”. La tecnologia avanzata ha ricadute sia nel campo militare che in quello civile: basta pensare all’elettronica, all’informatica, alle telecomunicazioni, all’aerospaziale, allo sviluppo dei semiconduttori, al punto che è difficile fare discriminazioni se non per quanto riguarda le armi vere e proprie. Pertanto la voce “tecnologia militare” non va intesa in senso assoluto. In questo senso, anche se ragionando in senso inverso, interviene lo storico Franco Cardini: ogni accordo universitario può avere scopi bellici (Corriere Fiorentino del 9 aprile). D’altro canto le università italiane hanno rapporti di collaborazione con mezzo mondo, ma non tutti i paesi coordinati sono democratici e rispettosi dei diritti umani: gli accordi in vigore p.es. stipulati dall’Università di Bari “Aldo Moro” comprendono l’Iran, la Russia e la Turchia (3). Ostacolare la ricerca scientifica e/o la cultura è non solo antidemocratico, ma controproducente, e su questo la UCEI (Unione delle comunità ebraiche italiane) è stata ferma, parlando attraverso  la presidente Noemi Di Segni: “Sono contraria al boicottaggio accademico d’Israele. Le collaborazioni tra università, tra comunità di scienziati, tra studenti sono importanti. Sono un’occasione di incontro e dialogo per capire diversi approcci. Se si vuole costruire un futuro più pacifico, la strada non è il boicottaggio”. (4). Nel frattempo 8000 fra artisti e intellettuali hanno firmato un documento per vietare la presenza di artisti israeliani alla Biennale d’arte di Venezia (20 aprile- 24 novembre) (5). L’artista ebreo Ruth Patir, oltre ad avere uno spessore artistico di tutto livello, in realtà è contro la politica di Netanyau (6), ma evidentemente questo non basta. Nel frattempo il presidente Mattarella il 12 aprile è intervenuto direttamente nel contesto, dichiarando testualmente che “le università sono la culla della libertà di pensiero, da sempre esprimono il dissenso anche contro il potere e devono essere libere di continuare a farlo, ma chiudere la collaborazione con altri atenei è sbagliato perché, se si taglia il dialogo anche con università di Paesi impegnati in crisi o conflitti, si rischia di ottenere l’effetto opposto, cioè quello di aiutare il potere, quello peggiore”. 

Eppure anche in questo caso è utile non censurare niente, questo si è ribadito anche quando hanno cercato di boicottare i film russi alle mostre del cinema: sono proprio quelli i luoghi per conoscere gli altri e le loro idee, è l’incontro e scontro con opinioni diverse, il Foro dove confrontare le molteplici visioni del mondo, magari anche litigando. Ricerca scientifica e culturale alla fine promuovono l’interazione, lo scambio, la crescita sociale e politica. Proprio per questo non va ostacolata né censurata in nome dell’ideologia.

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Note

  1. https://www.esteri.it/it/diplomazia-culturale-e-diplomazia-scientifica/cooperscientificatecnologica/accordi_coop_indscietec/
  2. https://pagellapolitica.it/articoli/commercio-armi-italia-israele
  3. https://www.uniba.it/it/internazionale/network/accordi-di-cooperazione-internazionale
  4. https://www.osservatorioantisemitismo.it/articoli/universita-lo-sdegno-degli-ebrei-italiani-per-il-boicottaggio-di-israele/
  5. https://www.mosaico-cem.it/attualita-e-news/italia/alla-biennale-di-venezia-gli-artisti-contro-israele-chiedono-il-boicottaggio/
  6. https://www.pikasus.com/biennale_arte_2024/padiglione-israele-biennale/