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Melissa colpisce ancora

Melissa la seguo dal suo primo libro, scritto ormai molti anni fa. Nel frattempo anche come scrittrice è cresciuta e questo suo nuovo romanzo, stavolta sulla maternità, rappresenta un punto fermo nella maturità di una scrittrice che s’impose a 17 anni e ora ne ha il doppio e sarà madre come i suoi personaggi. Leggendo Il primo dolore ho provato disagio: come uomo ammetto di non capir niente di parto e gravidanza, né di aver mai pensato che il processo naturale è segnato dal dolore, che qui invece viene eviscerato nelle sue profonde implicazioni, che vanno ben oltre la fisicità. Nel libro abbiamo due coppie diverse ma unite dall’attesa di un figlio. Sono due storie parallele narrate in soggettiva dalle due donne, entrambe al nono mese avanzato. La prima donna, Rosa, poco più che quarantenne, è redattrice di una rivista e convive con Andrea – un simpatico musicista – in un villino nella periferia residenziale romana. Lui suona e compone tra una “canna” e l’altra; potrebbe anche far di meglio, ma non ha più ambizioni e ormai lavora per i pubblicitari. Lei invece ha con gli anni superato – o almeno così crede – un difficile rapporto con la madre, da cui si è definitivamente separata al momento di venir a studiare a Roma. Determinata come tante ragazze che scappano dal paese, si è laureata e ha trovato lavoro nell’editoria periodica. Ha avuto una prima relazione con un uomo più grande di lei, per poi passare al nostro musicista, di sicuro meno ingombrante. Altri amori giovanili – pochi – saranno ricordati nel corso della memoria, sceverando la quale esce fuori una vita condizionata da un padre debole e da una madre anaffettiva e persino in competizione con una figlia forse non voluta.

Agata invece è una gracile ragazza di bassa estrazione sociale e lavora come parrucchiera. L’hanno fatta sposare poco più che adolescente con Matteo, un classico “flanellone”, termine che a Roma usiamo per descrivere l’uomo abitudinario e privo di fantasia, protetto più che protettivo, campione dell’italica classe media. Lui e lei si sono sposati per obbligo sociale dopo una “fuitina”, lei giovanissima e poco scolarizzata, lui figlio di mamma. La coppia entra in scena scendendo a valle in macchina da un paese di cintura dell’Etna, di notte verso l’ospedale, dove Agata deve partorire e dove il servizio sanitario lascia a desiderare: verrà affidata a due inesperti laureandi in medicina, gli unici medici disponibili in quel momento tra un parto e l’altro. C’è la fila, ma di notte manca il personale, e forse anche di giorno. A parte il dolore fisico, Agata sprofonda in uno stato di semi incoscienza, dove i ricordi emergono dal fondo e si stagliano come in un film. Purtroppo il neonato nasce morto, soffocato: i due laureandi hanno sbagliato i tempi e l’aiuto di un mezzo infermiere ha peggiorato tutto. E qui interviene Matteo, che prende insolitamente l’iniziativa: una ragazza ha appena partorito ma non vuole tenere il bambino. Non sapremo mai chi è, ma il neonato può essere immediatamente adottato, e così tutto si sistema. Agata, stremata, acconsente.

 Rosa invece ha deciso di partorire in casa come sua nonna, attirandosi gli strali della suocera. Che dire? L’ambiente qui è familiare, meno asettico di quello di un ospedale, ma il dolore non cambia. E soprattutto, la memoria corre indietro in uno stato di dormiveglia. Entrambe le donne, sia pur così diverse per età, storia e classe sociale, sono quasi due parti della stessa persona, o almeno provano la stessa sofferenza fisica e non possono contare troppo sul proprio uomo. Arrivano a odiarlo, ma pare sia un classico. In realtà Andrea, anche se tenuto fuori dal “traffico”, è uomo responsabile, e ha l’idea di far venire di corsa la madre di Rosa pagandole il viaggio. L’incontro fra madre e figlia è un colpo di scena: non si vedevano da dodici anni e sul volto della madre sono visibili i segni del tempo. Ne sappiamo ora la storia successiva: rimasta sola, si è avvicinata a una ricca comunità evangelica, dove ha trovato lavoro come domestica e quell’integrazione finora negata. Diventa però anche l’amante del Grande Capo, che evidentemente predica bene ma razzola male, col risultato di tornare a fare la badante. Tutto questo lo sappiamo dal colloquio con la figlia, che ora vedrà la madre in un’ottica totalmente diversa e crede di conoscerla. Ma lasciamo al lettore il piacere della lettura. Il bambino comunque in questo caso nasce vivo e vegeto.

Infine, una nota di cinema. Costruito com’è in montaggio alternato, il romanzo ben si presta a diventare un film. Ebbene, a memoria d’uomo i film dove viene ripreso realmente un parto sono pochissimi: Helga (1967), Nove mesi (1976), Il dottor T. e le donne (2000). Ma andiamo per ordine. Helgalo sviluppo della vita umana era un documentario didattico distribuito nelle sale. Helga era il vero nome della donna che si prestò come (f)attrice e il film sbancò il botteghino, vista l’ignoranza della mia generazione in materia (avevo 14 anni). Nove mesi (Kilenc hònap) invece è un film ungherese di Marta Meszàros, all’epoca una delle poche donne alla regia (le altre erano Agnès Varda e Lina Wertmuller). In Italia è nota per Diario per i miei figli (1982). In Nove mesi una studentessa decide di avere un figlio contro la volontà del partner, e per la prima volta si riprende in diretta un parto in una scena di forte valenza drammatica. Il dottor T. e le donne è invece una commedia di Robert Altman con Richard Gere nei panni del ginecologo, il quale nell’avventurosa scena finale dovrà intervenire per far partorire una donna messicana. Detto questo, Il primo dolore ha tutte le carte in regola per una trasposizione cinematografica, e Melissa stessa ce ne parlava durante una presentazione del suo libro.


Il primo dolore
Melissa Panarello
Editore: La nave di Teseo, 2019, pp. 217

EAN: 9788893448413

Prezzo: € 17,00


Danubiana

Mai nome fu scelto meglio. Sto parlando di un museo all’aperto di arte contemporanea allestito su una delle tante isole che il Danubio crea nel suo lungo percorso. Qui siamo a 25 km da Bratislava verso Budapest, in un punto dove il fiume si amplia formando lunghe isole e depositi di ghiaia. Il sabato e la domenica estivi fa servizio un battello, altrimenti è mezz’ora di bus dal centro di Bratislava, passando per quartieri di edilizia pianificata e ampi spazi verdi. Con una sorpresa: lungo il percorso leggo “Gerulata”. Il nome m’incuriosisce e scopro che è un forte costruito dalle legioni romane a guardia della riva destra del Limes Danubiano. Non c’è tempo per visitare la zona archeologica, ma annoto la posizione con l’aiuto di Google maps. E qui un’altra sorpresa: i confini con Austria e Ungheria distano pochi km dal sito. Una ragione in più per aver scelto un’isola sul Danubio come incrocio fra culture diverse.

Il nome ufficiale del museo è in realtà Danubiana Meulensteen Art Museum, dal nome del collezionista olandese (vivente) che insieme al gallerista slovacco Vincent Polakovič ha fondato questo museo nel 2000, confidando nel generoso supporto del Ministero della Cultura slovacco. Il risultato è un moderno edificio di due piani tutto vetrate e sale espositive, con una naturale continuità verso lo spazio esterno, un parco fluviale dove al tramonto statue e istallazioni si stagliano controluce sullo sfondo della pianura alluvionale e del verde profilo montuoso dei Piccoli Carpazi, creando un paradossale effetto di “Natura”. Al di là della loro funzione primaria, le ampie vetrate con vista sul Danubio amplificano dunque il senso di arte come comunicazione. Il segreto di Danubiana è proprio questo: una studiata continuità tra Arte e Natura, erede dell’Armonia dell’arte classica. E’ un sentimento che prova anche chi si accosta all’arte contemporanea senza avere una cultura specifica, magari bevendo un tè nella caffetteria del museo mentre oltre le vetrate i bambini giocano nel parco attorno a una “buffa” statua di Peter Pollàg e alcuni turisti con Canon e treppiede fanno capire di non essere passati lì per caso.

Nel dettaglio, il museo ha una parte dedicata alle collezioni permanenti, l’altra alle mostre temporanee, anche se gli spazi sembrano sfumare uno dentro l’altro. Le 200 opere della parte “stabile” le ha messe insieme il collezionista Gerard Meulensteen, che iniziò a comprare dalla seconda metà degli anni ’80 le opere di artisti del gruppo sperimentale CoBrA, del pittore cinese americano Walasse Ting e in seguito di Claes Oldenburg, Paul Jenkins e quanto di meglio circolava nelle gallerie tra Europa e Stati Uniti. Nel parco sono disseminate sculture di El Lissitzky, Magdalena  Abakanowicz, Jim Dine, Hans van de Bovenkamp, Josef Jankovic’, Peter Pollàg, Arman, Jean-Claude Farhi, Vladimir Kompanek, Billio Nic, Sam Francis e Rudolf Uher. Come si vede anche solo dai nomi, l’ambiente è internazionale, stavo per dire per obbligo morale.

Nela parte dedicata alle mostre temporanee intanto ci siamo divertiti con la delicata e umoristica grafica dell’illustratrice slovacca Petra Lukovcsova. In più quest’estate il museo ospita una interessante raccolta di 23 artisti dalle Filippine, già da sole un intrico di contaminazioni culturali. E infatti la mostra si chiama, tradotta in italiano, “Remoto ma stranamente familiare”. Una gita dunque da non perdere.


Danubiana Meulensteen Art Museum
Bratislava-Čunovo, Vodné dielo
P.O.BOX 9, 810 00
Bratislava



Bratislava, mitteleuropa senza frontiere

A Bratislava ci siamo arrivati con calma, risalendo la Mitteleuropa da Trieste, via Lubiana, Graz e Vienna e usando solo treni e pullman. Solo al ritorno io e mia moglie ci siamo concessi un volo RyanAir per Roma. A Graz volevo assolutamente vedere l’arsenale storico cittadino, mentre Bratislava non la conoscevo. C’ero in realtà passato davanti nel 1980 con una gita in battello da Vienna, ma all’epoca non potevamo scendere senza il visto e per metà percorso una motovedetta cecoslovacca ci scortava a vista. Ricordo però la sagoma del castello, oggi perfettamente restaurato ma vuoto. Sì, vuoto, a parte cinque quadri (sic) e un paio di mostre. Purtroppo la Slovacchia non ha sempre avuto una corte o una monarchia autonome e per secoli è stata solo un satellite dei vicini. La stessa Bratislava ha più nomi: Pressburg per gli Austriaci, Poszòny per gli Ungheresi. E qui il vantaggio dell’Europa di oggi: puoi andare dove ti pare senza che nessuno ti chieda i documenti; che hai sconfinato te lo dice solo un sms di Vodafone. Nelle varie gite, mi sono accorto solo dalla mappa di quanto fosse vicina la frontiera ora ungherese, ora austriaca, ora cèca e morava, frontiere che seguono le sponde del Danubio, oppure sono il retaggio di due guerre mondiali. Della Slovacchia ho visto solo la capitale, ma ci ha sorpreso lo sviluppo industriale e commerciale della città, con un centro storico perfettamente restaurato, grandi centri commerciali, quartieri nuovi e grattacieli sede delle multinazionali. I trasporti pubblici sono efficienti e i mezzi sono tutti nuovi, mentre dei tassisti è meglio non fidarsi troppo. La Slovacchia uno sviluppo industriale lo aveva già avuto grazie ai Sovietici: socialista è metà dell’architettura pianificata dei nuovi quartieri. Ma negli ultimi anni gli investimenti stranieri (soprattutto tedeschi, ma non solo) e un regime fiscale favorevole ne hanno fatto una sorta di Austria Felix. Da un’amica abbiamo anche saputo che per le professioni c’è molto lavoro disponibile anche per gli stranieri, e in fondo lì si vive bene, tutto pulito e organizzato. Peccato che la lingua slovacca non sia poi così facile, vista anche la sua scarsità di vocali. Ma mentre in quella settimana di vacanza io cercavo di imparare qualche parola di slovacco e di pronunciarla in modo decente, mia moglie si ostinava a parlare una specie di inglese con gente che parlava una specie di inglese, col risultato di non pochi malintesi, visto che non sempre il personale di servizio e le commesse sono gentili. Residuo del socialismo oppure lavoratori inurbati dalla campagna? Forse tutt’e due.

Il nostro albergo è delizioso: un vecchio battello da crociera ancorato sul Danubio, con comode cabine e sala da pranzo in stile Titanic. Il nostro sonno è cullato dalle onde del fiume, ma più spesso dallo spostamento d’acqua causato da navi da crociera lunghe quanto l’astronave di Guerre stellari e da chiattoni con la capacità di venti Tir. La sponda destra è tutta verde a parco pubblico, quella dove siamo ancorati dà sulla collina del castello, e sul lungofiume devi solo star molto attento ai ciclisti, molto bravi a pedalare a luci spente. La città in fondo è tutta piatta, quindi le due ruote sono non solo popolari, ma attirano il cicloturismo internazionale. Da Vienna a Budapest è tutta una pista ciclabile e Bratislava sta in mezzo. Io invece sognavo di scendere il Danubio in canoa, e so che ogni tanto i circoli sportivi internazionali organizzano queste imprese collettive. Siamo comunque andati a Vienna in battello e sempre in battello il sabato e la domenica di può raggiungere un’isola dove è allestita Danubiana, una mostra permanente di arte contemporanea che da sola merita un articolo a parte.

Prima dicevo che la città vecchia – Stare mesto – è stata perfettamente restaurata. Come fosse prima s’indovina da alcuni edifici cadenti che attendono l’immobiliare di turno. Oggi è la Disneyland perfetta: nessun abitante, tutto pulito e colorato, solo B&B, alberghi e case vacanze, nessun negozio che non sia funzionale al turismo, ristoranti e birrerie di ogni tipo, più saloni massaggi Thai e locali di strip-tease aperti h24. In compenso c’è molto ordine (mai visto un abusivo), molti negozi sono di qualità – tutte firme internazionali – e l’area è realmente pedonalizzata, senza italiche deroghe alla legge. Tutta la città vecchia è contenuta in due km quadrati, è piena di chiese barocche e conserva ancora parte delle mura. Tutto sommato è una piacevole passeggiata, a patto di non fare troppo caso alle masse di turisti scesi dai pulmann o dai battelli fluviali, e avendo cura di mangiare da un’altra parte: i prezzi sono come Roma se non più alti.

Oggi abbiamo mangiato lungo il Danubio, al ristorante dello scalo passeggeri, un edificio che sia dentro che fuori è un capolavoro di architettura socialista: razionale, elegante come si concepiva negli anni Sessanta. Fuori cemento armato, dentro tutto legno e ferro. Ci fanno accomodare in terrazza: le sale interne sono prenotate da due gruppi provenienti da Vienna o Budapest. Tavoli con salviette gialle, italiani; salviette celesti, forse tedeschi. Dico forse perché qui nazioni e dialetti s’incrociano quasi sfumando, e il tedesco che parlano non è quello che s’insegna a scuola. Gli italiani del primo gruppo si rivelano torinesi e con loro scambiamo racconti e informazioni. Gli altri giorni avevamo conosciuto una studentessa romana che lavora in un campo archeologico del FAI e una matura coppia di viaggiatori “lenti”, tutto il contrario dei tour che caricano e scaricano in continuazione turisti di ogni tipo. Purtroppo invece non abbiamo potuto incontrare la nipote di un mio amico che qui studia slovacco e certo troverà qui un buon lavoro. Il suo programma è per ora molto intensivo.

Ieri sera abbiamo mangiato a bordo della nostra nave-albergo, due giorni fa in un piccolo ristorante fuori le mura, per scoprire oggi che la sera lì vendono solo da bere. Già, qui molti ristoranti chiudono la cucina dopo il pranzo, la sera la gente beve birra. La bevono sia gli slovacchi, sia gli stranieri che affollano i tavoli all’aperto dei locali. La cucina locale è tutto sommato semplice: zuppe, molta carne (manzo, maiale, anatra, pollo), ottimi contorni. Ma non mancano ovviamente ristoranti di ogni nazione, e noi italiani siamo ben messi. Anche il caffè espresso è diffuso come tale, e preferivamo prenderlo da un ambulante che aveva attrezzato a caffetteria italiana un furgone Ape.

La messa nella cattedrale di San Martino merita due righe a parte. La chiesa è gotica con qualche aggiunta barocca nell’interno, che non copre complesse scene lignee di scuola tedesca. San Martino è rappresentato in divisa da ussaro in una grande statua nella navata destra e un grande organo accompagnava la messa della domenica. Quando c’è funzione i turisti non possono entrare e la liturgia qui è presa molto seriamente sia dal clero che dai fedeli. La Slovacchia è l’unico paese europeo che non accetta migranti musulmani, e durante la guerra la Slovacchia era un protettorato tedesco governato da un ecclesiastico, monsignor Tiso, figura ambigua ma significativa del sentimento popolare. Passato il socialismo, l’anima slovacca si è ritrovata cattolica, anche se qui in città il rapido sviluppo sicuramente porterà cambiamenti profondi. Qui i giovani sono tanti, c’è lavoro e il pil quest’anno è al 4%. Ed è anche una bella gioventù: sportiva se non atletica (anche qui il socialismo aveva lavorato bene); le donne sono molto belle ed eleganti e ovunque c’è gente che pedala o fa jogging.

L’ultimo giorno, dopo una passeggiata nel parco del lungo Danubio, saliamo a vedere il panorama dall’UFO. E’ un cugino più svettante e moderno del Fungo all’EUR, che si erge sopra il ponte nuovo, meraviglia ingegneristica tutto cemento armato e stralli, senza neanche un pilone. Da 100 metri di altezza vediamo tutta la città e il Danubio da una parte, e i quartieri nuovi o addirittura in costruzione dall’altra. E’ un finale di viaggio quasi obbligato, ma dall’alto ti rendi realmente conto della natura della città.

BADAR, carabiniere musulmano

L’immagine del giuramento del carabiniere Badar Eddine Mennani, nato a Caserta da genitori marocchini e abbracciato dalla madre col capo velato, ha provocato sui social una serie di reazioni scomposte e islamofobe. Alcuni media hanno insistito ancora una volta sulla tesi della sostituzione etnica, o hanno insinuato l’esistenza di un complotto per infiltrarsi nelle nostre istituzioni armate e proclamare con un golpe la Repubblica Italiana Islamica. Ovviamente son di tutt’altro tenore i comunicati redatti dall’ufficio stampa della Benemerita, da sempre molto attenta alla propria immagine pubblica e al corretto rapporto con i cittadini. Sono state pubblicate le foto della madre con l’hijab che abbraccia il figlio e diffuse le dichiarazioni di Badar, che finalmente ha coronato il suo sogno. Ma si leggono anche frasi come “nell’Arma per combattere il terrorismo” , il che è una forzatura: più logico pensare che Badar saprà trattare coi suoi connazionali e correligionari in modo più naturale, attenuando la diffidenza e i pregiudizi reciproci. D’altro canto è dai tempi dell’Impero Romano che in Italia l’Esercito è anche uno strumento di integrazione e di ascesa sociale, molto più duraturo ed efficace di uno jus soli concesso per decreto. Quanto poi ai Carabinieri, nei loro ranghi hanno arruolato musulmani per quasi mezzo secolo: sto parlando degli Zaptiè, i carabinieri reclutati fra le popolazioni indigene di Libia, Eritrea e Somalia, i quali svolgevano le funzioni istituzionali di quelli italiani in zone dove era difficile per ovvie ragioni mantenere l’ordine costituito e interagire con la popolazione locale. Potevano arrivare al grado di sottufficiale e sono stati i fedeli guardiani della legge, rispettati sia da noi che dai loro connazionali. E nel dopoguerra, all’interno dell’Amministrazione Fiduciaria della Somalia (1950-1960) i Carabinieri hanno addestrato i loro colleghi somali creando un’apposita Compagnia Carabinieri Somali, reclutandoli inizialmente proprio tra i fedeli e valorosi zaptiè.

Infine, un’osservazione: la destra italiana è diventata islamofoba sicuramente per via dell’immigrazione, che in trent’anni ha portato da cifre irrisorie a due milioni il numero dei musulmani residenti in Italia (convertiti a parte) e ha alterato equilibri di secoli. Ma ancora qualche decennio fa la destra eversiva italiana era filoislamica: è nota la contiguità di Franco Freda con l’editore Claudio Mutti (vicino a Ordine Nero, ndr.), dal 1978 titolare della casa editrice All’insegna del Veltro, dove si trovano molti libri sull’Islam. Niente di strano: per i Nazisti l’Induismo era la religione dei filosofi, il Cristianesimo la religione degli schiavi e l’Islam la religione dei guerrieri. Durante la 2a G.M. guerra fu inquadrata persino una divisione SS reclutata esclusivamente tra i musulmani bosniaci. Da parte italiana a suo tempo abbiamo favorito l’islam in Africa Orientale per indebolire il peso del clero copto abissino. In più, abbiamo regolarmente pagato lo stipendio agli imam arruolati come cappellani militari delle nostre truppe coloniali di religione musulmana, soprattutto libiche e somale. Ma in Italia abbiamo sempre la memoria corta.

Dighenìs Akritas – l’epopea bizantina

Nel mio precedente articolo avevo citato tra i poemi epici cavallereschi “islamicamente scorretti” anche il Dighenìs Akritas (in greco: Διγενής Ακρίτας) , ben sapendo che da noi il testo è ignoto. Proprio per questo ne voglio parlare, sperando di stimolarne la lettura. Si tratta di un testo bizantino anonimo del XII secolo, scritto in greco medioevale, a metà tra narrazione popolare ed epica classica, con forti connotazioni romanzesche e alcuni tratti originali rispetto all’epica cavalleresca occidentale. Le vicende si svolgono nel X secolo o appena dopo nelle zone di frontiera tra Anatolia e Siria – più o meno dove si combatte anche adesso – presidiate all’epoca dagli akritai, a capo di soldati-contadini cui veniva assegnata la terra in cambio dell’obbligo di difenderle dai saraceni. Questi distretti militari di frontiera– i c.d. themi – erano un’eredità del Limes romano e nei Balcani il sistema perdurò sia sotto i Veneziani che con gli Austriaci – le c.d. krajne, o distretti militari di confine presidiati dai “Grenzer”, i presidiari, legati alla terra quanto alla difesa contro gli i Turchi ottomani. Il generale Boroevic’, detto il Leone dell’Isonzo e nostro nemico nella prima G.M., era per l’appunto un Grenzer, il che significava – come ai tempi di Bisanzio – un uomo duro, coraggioso e lontano dalle manovre di corte. All’epoca dell’Impero Romano d’Oriente gli akritai dovevano tenere la lunga frontiera aspettando l’arrivo dell’esercito regolare, oppure impegnando il nemico con scorrerie di ogni tipo. Il confine era vago e costituiva una estesa palestra per incursori, essendo guerriglia e scorrerie all’ordine del giorno. Ma alle guerre si alternavano anche lunghi periodi di pace e conflitti di bassa intensità, come ai tempi del Limes romano, di cui Bisanzio era erede.  Frequenti erano gli scambi culturali e matrimoniali tra guarnigioni e popolazione locale, anche se l’Islam era incompatibile con la Croce. Ma all’epoca i bizantini non erano ancora sulla difensiva, anzi riconquistarono ampie zone della Siria e dell’attuale Libano. E gli akritai erano i difensori e ri-colonizzatori delle terre tolte alla Jihad, anche se – come vedremo – erano molto indipendenti dal potere centrale e lontani anni luce dallo spirito della ricca e intricata Bisanzio. Il poema fu composto e diffuso negli ambienti che lo avevano creato, per poi diventare di moda a corte e anche da noi: Boccaccio conosce il testo, lo chiama l’Arcita e nella Teseida ne sfrutta alcuni spunti romanzeschi. Ma entriamo nella trama del poema.

Intanto il nome. Dighenìs significa dalla doppia stirpe, e infatti l’eroe è figlio di un emiro arabo che invade la Cappadocia e rapisce la figlia di un generale bizantino. L’emiro accetta poi di convertirsi al cristianesimo insieme alla sua gente e di stabilirsi nella Romània (le terre dell’Impero Romano d’Oriente), prendendo in moglie la figlia del generale. Si ha così la riconciliazione tra i due popoli, e dal matrimonio nasce il nostro eroe. Nella seconda parte del poema se ne narrano le gesta. Uomo di frontiera per nascita e funzione, si rivela subito un capo coraggioso e intraprendente quanto alieno se non ribelle al Basileus, che gli ha delegato la difesa della frontiera. Lui non ama essere fedele al suo Imperatore, anzi è totalmente avulso dalle gerarchie e così amante della propria libertà che si dissocia da ogni legame con Bisanzio e continua la sua vita seguendo un individualismo sfrenato; in questo senso non sarebbe fuori posto in un film di Clint Eastwood. Dighenìs non ha un codice etico come i cavalieri Franchi e alcune sue gesta sono al limite, come la sua identità: rapisce la sua futura sposa, figlia di un generale, ma dopo aver vinto tutti i suoi fratelli ne chiede la mano al padre. Sarà un’unione felice, anche se un paio di volte tradirà sua moglie, fra un’incursione e l’altra. In una vince ma s’innamora della seminuda amazzone Maximò e la ama. In un’altra riconsegna a un guerriero saraceno la fidanzata sedotta e abbandonata e lo obbliga a sposarla, ma non prima di averla violentata: la frontiera non è luogo per gentiluomini. Ma le sue grandi doti guerresche e le sue gesta non rimangono sorde all’orecchio del Basileus. L’Imperatore tenta di conoscere questo grande guerriero, l’akrita che combatte al confine dell’Impero, ma Dighenìs non accetta mai di incontrarlo, anzi, lo sfida a duello, ovviamente declinato. Ma il nostro eroe affronta anche imprese, retaggio della mitologia classica: vince un drago che si era trasformato in un bellissimo giovane e aveva tentato di violentare la moglie. Poi è il turno di un leone che l’akrita vince, come Heracles, uccidendolo con un colpo di clava. In intimità con la moglie, viene sorpreso da un gruppo di predoni, da sempre presenti ai valichi. Digenis li sconfigge tutti poi sfida i loro migliori guerrieri a duello, vincendo ancora una volta. Come si vede, l’epica si lega alla tradizione romanzesca alessandrina, il che suggerisce un pubblico “generalista”, amante delle gesta guerriere ma anche di quelle erotiche, cui ben si presta un eroe “borderline” in tutti i sensi. Curioso il finale, almeno dopo tanta azione: dopo aver vinto tutti i suoi nemici, Dighenis costruisce un lussuoso castello sulle rive dell’Eufrate, dove trascorre pacificamente i suoi ultimi giorni insieme alla moglie, e la sua morte sarà celebrata in tutto l’Impero. Impero che è durato mille anni, ma è ancora vittima di un doppio pregiudizio: quello cattolico e quello dello storicismo germanico, unicamente proteso a magnificare il Sacro Romano Impero.

La traduzione migliore e più recente del poema, con testo a fronte e ampio commento, è del 1995 e si deve ai tipi dell’editore Giunti, a cura di Luigi Odorico.