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Roma di Chiese e soprattutto di Teatri

Lo scarno titolo non rende appieno la ricchezza del libro, il quale è diviso in due parti ben distinte: la storia del teatro a Roma, inteso sia come struttura fisica che come espressione artistica, e uno schedario sistematico, esauriente e aggiornato di schede dei singoli teatri. La prima parte è organizzata in ordine cronologico, la seconda è divisa per ordine alfabetico e completata da un indice analitico. L’autrice è già nota come artista e curatrice di mostre (1) e per una serie di monografie di arte e altro, tra cui citiamo: I mosaici a Roma dall’antichità al Medioevo, Santa Maria in Montesanto, Il vino a Roma e nel Lazio, Sciamè. Alchimia del rosso, Il canto della terra, L’ essenza della solitudine, Dolores Prato, Vostra Veronica. In questo libro appena uscito Stefania Severi ripercorre non solo la storia degli edifici teatrali dall’antica Roma a oggi, ma anche degli autori, artisti, impresari e promotori che hanno reso possibile una continuità culturale che supera i duemila anni. E naturalmente si parla anche del pubblico, il vero protagonista delle fortune e sfortune della scena romana, dove la storia del teatro presenta caratteristiche uniche: da un lato c’è l’origine sacrale dello spettacolo – pagana o cristiana non importa – e dall’altro la coesistenza da sempre di espressioni di cultura alta insieme a spettacoli plebei, popolari, con curiose ibridazioni fra i due registri – sarcasticamente commentati nei sonetti del Belli – dovute alla particolare struttura sociale romana: la Chiesa condizionava la durata della stagione teatrale (iniziava a dicembre, ma per la Quaresima i teatri erano chiusi) ma promuoveva le sacre rappresentazioni e lasciava una certa libertà al teatro popolare o aulico che fosse, purché non si discutesse di politica o di religione. Ma nei teatri come nei palazzi convivevano, sia pur in settori diversi, nobili e plebei, borghesi e “generone”, senza quella separazione di casta presente in altre società anche italiane. I viaggiatori stranieri notavano da un lato la grande passione dei romani per il teatro a tutti i livelli, ma dall’esterno vedevano i romani come parte stessa dello spettacolo, fosse per la prima di un’opera lirica o per una processione della Settimana Santa (2). Nell’antica Roma il pubblico non pagava (panem et circenses..) e i teatri col tempo erano divenuti monumentali. Il teatro di Ostia antica ancora è attivo, gli altri – teatro di Pompeo, di Marcello, di Traiano – restano monumenti a memoria di fasti passati. Il medioevo vede sacre rappresentazioni, cerimonie, cortei e processioni registrate da precisi cronisti e cerimonieri come il Burcardo, ma col Rinascimento e il Barocco rinasce il teatro laico, patrocinato dalle famiglie nobili, le quali inseriscono fino a due secoli dopo un teatro privato nei loro palazzi, mentre ben presto l’iniziativa privata si adegua alla domanda e diversifica l’offerta, che va dal dramma e melodramma alla commedia, dall’aulico alla farsa popolare, dal teatro di parola al mimo e ai burattini. Giustamente l’autrice parla in questo senso di “sistema teatrale”, data la quantità e la diversificazione dell’offerta romana, col suo ampio spazio per nobili mecenati e impresari privati, attori e cantanti professionisti e confraternite di dilettanti, primedonne, gigioni, musicisti, artisti di scena e artigiani. Alla fine di ogni secolo è riportato l’elenco dei singoli teatri con la data di apertura. Se manca l’asterisco la struttura è ancora aperta alla scena. Se l’Apollo non esiste più, alcuni sono ancora in attività, magari con repertorio diverso. Penso al teatrino di palazzo Altemps, al teatro Argentina ora di prosa ma nato lirico (vide la prima del Barbiere di Siviglia), ma anche all’Oratorio del Borromini. Pur nella relativa stasi dello Stato Pontificio, la vita teatrale romana ha sempre avuto un grande impulso creativo e una grande popolarità

La cesura tra due epoche avviene quando nel 1870 Roma diviene capitale d’Italia, con la rapida trasformazione urbanistica e sociale delle sue strutture e del pubblico. Risale alla seconda metà del XIX secolo la costruzione di nuovi teatri. La gran parte dei teatri di fine secolo è attiva: il Costanzi per l’Opera, il Quirino, l’Eliseo, la Sala Umberto, il Salone Margherita, l’Ambra Jovinelli, tanto per citarne alcuni. Carente è invece il secondo dopoguerra, che ha visto solo ristrutturazioni e riconversioni spesso discutibili (la distruzione dell’Adriano per farne una multisala è emblematica) e soprattutto ha penalizzato la periferia continuando a concentrare lo spettacolo al centro storico, a parte gli introvabili teatri tenda. Ma dagli anni 60 ci immergiamo in nella realtà più difficile da schedare: l’esplosione del teatro sperimentale e dei “teatrini” – talvolta scantinati o locali recuperati – che renderanno Roma una delle città più vivaci d’Italia. “Uno, cento, mille teatrini” è più di uno slogan. Concentrati fra Trastevere e Testaccio ma non solo, pur in autentica povertà di mezzi diventano un mondo parallelo che per osmosi trasmette al Teatro Stabile nuovi linguaggi e rinnova un repertorio all’epoca fin troppo alimentato dagli abbonamenti del pubblico borghese. Ripercorrere con la Severi le vicende dell’avanguardia teatrale romana è divertente quanto difficile, ogni segmento essendo originale e non sempre documentabile con precisione. Non era il mondo dell’Effimero dell’assessore Nicolini – grande rinnovatore della periferia e inventore dell’estate Romana – ma ne ha preparato il terreno.

E il nuovo secolo come si presenta? Da un lato Roma con l’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano (2001) ha finalmente uno spazio adeguato a un capitale europea e l’offerta teatrale si è decentrata anche in zone prima culturalmente deserte, vuoi per intervento pubblico (Tor Bella Monaca, Quarticciolo, Corviale, circuito TIC, Teatri in Comune) che privato (Teatro degli Audaci, Il Globo fondato da Proietti), mentre i “teatrini”, decimati dalle nuove leggi di sicurezza e dall’età dei fondatori, sopravvivono o passano il testimone ai loro allievi, visto che proliferano le scuole di teatro a tutti i livelli. Passato il Covid, in questo momento il teatro non è in declino, a differenza delle sale cinematografiche che chiudono. Il motivo? C’è il desiderio naturale di vedere fisicamente l’attore e lo spettacolo dal vivo è un salutare  antidoto all’inflazione da immagini registrate e/o scaricabili.

Addenda: per contenere il prezzo (22 euro per 327 pagine) il libro è privo di illustrazioni. Per integrarne la lettura consiglio un sito completo di immagini, schede e indicazioni topografiche: https://www.info.roma.it/teatri_di_roma.asp


Note:

  1. https://www.exibart.com/artista-curatore-critico-arte/stefania-severi/
  2. Vedi p.es. Città teatrale. Lo spettacolo a Roma nelle impressioni dei viaggiatori americani 1760-1870, di Alessandro Gebbia, 1985.

Dizionario dei teatri di Roma
Stefania Severi
Edilazio, Roma, 2023. pp.327
Prezzo 22,00 euro


Scritture misteriose e Intelligenza artificiale

Gli archeologi in genere sono molto gelosi del loro mestiere e non gradiscono intrusioni, ma il problema è mal posto: decifrare scritture antiche è compito del filologo, mentre loro devono preparare e ordinare il materiale, come fece negli anni ‘50 John Chadwick (archeologo) nei confronti di Alice Kober (latinista) e Michael Ventris (architetto, paleografo e crittografo). Ventris decifrò in modo convincente la c.d. Lineare B cretese dimostrando che era un greco arcaico, eppure in certi ambienti ancora si sente dire che Ventris era un dilettante. Tale era Schliemann, mentre invece Ventris lo definirei più correttamente un professionista prestato all’archeologia. Né era un dilettante Giovanni Maria Semerano, bibliotecario e filologo, morto nel 2005. Non ha mai avuto una cattedra universitaria e ha subìto l’ostilità di un archeologo come Salvatore Settis, ma la sua interpretazione p.es. delle c.d. Lamine di Pyrgi (documento etrusco bilingue) è per certo più convincente di quella di Pallottino, che pur ha il merito di aver messo ordine nel Corpus Inscriptionum Etruscarum. Semerano era un grande conoscitore delle lingue semitiche come l’accadico (sorta di assiro-babilonese) e metteva in dubbio l’esistenza dell’ Indoeuropeo, mito politico oltre che linguistico. E soprattutto, ha messo in collegamento lingue diverse tra loro.

Nel frattempo il mestiere di filologo si è arricchito delle potenzialità offerte dall’Intelligenza artificiale (IA). Nel 2022 sono stati decifrati i simboli della scrittura del Regno di Elam, una delle culture più antiche del mondo, esistita in Persia nel III millennio a.C. e conquistata dall’Impero Persiano nel VI secolo a.C. , ma di cui sono rimasti solo una quarantina di testi scritti. E ora l’Università di Bologna ci prova col cipriota-minoico, una scrittura sillabica indecifrata usata nell’isola di Cipro durante la tarda età del bronzo. Ma nel frattempo sempre con l’aiuto dell’IA si cerca di mettere ordine nelle tavolette cuneiformi assiro-babilonesi ( progetto Electronic Babylonian Literature). I testi antichi non si presentano regolari e ben ordinati come nei libri di scuola e le varianti grafiche sono infinite, per cui analizzare grandi insiemi di dati è un lavoro improbo e ora gli algoritmi di apprendimento automatico “imparano” analizzando enormi insiemi di dati. Qualsiasi lingua può cambiare solo in determinati modi essendo una macchina logica, ma per le lingue antiche non puoi interagire coi parlanti e hai comunque un numero di testi non sempre enorme. Nel caso della scrittura cuneiforme, ora grazie agli sviluppi dell’IA, i computer vengono addestrati a leggere e tradurre i segni grafici e soprattutto a rimettere insieme tavolette frammentate per ricreare antiche biblioteche e, quando è possibile, ipotizzare frammenti di testo mancanti. Nel caso poi di una documentazione scritta abbondante, come quella in greco antico, ancora meglio: l’enorme quantità dei dati (più di tre milioni di parole di iscrizioni risalenti dal 600 a.C al 400 d.C.) ha incoraggiato i ricercatori dell’Università di Oxford a sviluppare Pythia (la sacerdotessa indovina dell’oracolo di Apollo a Delfi), un software che ha sbaragliato i pur bravi studenti di Oxford, riuscendo a completare quasi tremila iscrizioni con un tasso di errore pari al 30% (contro il 57,3% degli studenti) in pochi secondi. Da qui poi una revisione delle datazioni di molte epigrafi. Che dire? Speriamo che questa procedura venga presto applicata al CIL, il Corpus Inscriptionum Latinarum.

Biancaneve senza i Nani

La Disney, sempre attenta al vento che tira, ha deciso di eliminare i nani dalla prossima riedizione di Biancaneve, i quali saranno sostituiti da una folla di esseri mitologici e fantastici, si suppone scelti in base al Manuale Cencelli del politically correct. Questo mentre in Sud America le chiese evangeliche e pentecostali non gradiscono il  film Barbie perché troppo inclusivo con i LGBTQ+ e altre forme di modernità sociale. Inutile chiedersi se quello che va bene a Los Angeles possa esser assorbito allo stesso modo in Brasile o in Italia: il mondo non cammina in sincrono. Piuttosto, voglio difendere i nani e il loro apporto alla creatività. A differenza di altri “diversi”, ai nani è stato sempre data la possibilità di esprimersi, anche se in un contesto grottesco, distopico. Nel circo equestre il nano ha un proprio spazio creativo, pur se egli è accettato come “monstrum”, campione di bizzarria della natura. E’ un nano l’egiziano Bes, visibile a Roma nella Porta Magica di Piazza Vittorio. Sono assimilati ai nani i Pigmei degli affreschi pompeiani (anch’essi realmente esistenti, anche se non combattono contro le gru). E’ piena di nani la pittura del barocco spagnolo e italiano, da Bronzino al Guercino per arrivare a Goya quasi due secoli dopo. Ed è proprio nella cultura iberica che il nano resta un’immagine persistente, a metà tra arte e perversione. Il governo spagnolo ora vuole abolire la “corrida comica”, una corrida incruenta tra vitelli addestrati e nani vestiti da toreri, un vero residuato bellico del barocco. Ma i nani si sono opposti alla decisione del governo: con quello spettacolo popolare ci guadagnano bene e sono famosi. Anni fa ho visto un documentario in argomento e qualcosa c’è pure su Youtube: fa impressione la serietà con cui i nani entrano nella loro parte di toreri e allo stesso tempo ci si chiede che razza di pubblico paghi ancora il biglietto per questi arcaismi culturali.

E passiamo al cinema. I nani non sono solo macchiette o sono presenti nella pornografia come espressione di una sessualità distorta e perversa, ma sono stati anche protagonisti di un film d’autore. Sto parlando di un film di Werner Herzog, più estremo degli altri: Anche i nani hanno cominciato da piccoli. E’ un film del 1970 e il regista aveva solo 27 anni; fu presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al 23º Festival di Cannes, in mezzo a feroci polemiche: tutti gli attori non professionisti erano nani e la vicenda si svolge in una sorta di colonia penale o microuniverso chiuso dove la rivolta fallisce e la ricaduta sugli altri è caratterizzata dalla violenza. Il film è interpretabile in vario modo: ribellione, fallimento politico, autodistruzione, ma dal canto suo Herzog non ha mai voluto dare un’interpretazione univoca al film, per lui la sceneggiatura di un film non è in alcun modo legato alla trattazione di un “tema” ma solamente alla narrazione di una storia. Una storia tuttora inquietante.

Poznan: l’arte contemporanea secondo Molski

Poznan è una dinamica città polacca equidistante tra Berlino e Varsavia, incrocio di correnti culturali diverse e per questo molto attiva. La Molski gallery & collection – una galleria d’arte contemporanea  – è nata nel 2022 dalla passione di collezionare opere d’arte e dal desiderio di condividere l’arte con un pubblico più ampio su iniziativa del suo proprietario, Michał Molski – esperto e collezionista di arte contemporanea polacca, capace di rappresentare una combinazione dei più importanti artisti polacchi della seconda metà del XX secolo con i principali artisti polacchi di oggi. Il programma autoriale della galleria si concentra sulla creazione di un dialogo intergenerazionale. La mostra inaugurale intitolata. “Collection of Contemporary Art” ha presentato opere dei classici, cioè Krasinski, Stażewski e Tarasin, che corrispondevano a opere di artisti di grande talento della generazione più giovane, cioè Misiak, Berdowska e Starowieyski. La combinazione di arte classica con opere create negli ultimi anni è diventata dunque un’avventura estremamente interessante e stimolante. Durante lo scorso anno si è stabilita una collaborazione con molti artisti eccezionali come Mariusz Kruk, Michal Misiak, Sebastian Krzywak, Dominik Lejman e Kinga Popiela.

Nell’ottobre 2022 è stata organizzata la mostra personale di uno degli artisti più importanti dell’arte contemporanea polacca – Mariusz Kruk – dal titolo “Ci sono due tipi di bellezza, bellezza (a) e bellezza (b)”. Erano esposte più di 40 opere tra assemblaggi, oggetti pittorici, disegni e sculture – realizzati negli ultimi cinque anni. Per la prima volta, sono state giustapposte le opere di tre cicli – precedentemente presentati nelle seguenti quattro mostre: “Pion” (Arsenal City Gallery, Poznań 2017), “Symbiosis of oppostos” (MAK Gallery, Poznań 2020), “Co-sound of meanings” (Arsenal City Gallery, Poznań 2020), “/ arI sz kRU” (White Gallery, Lublin 2022) e opere realizzate appositamente per la mostra presso MOLSKI gallery&collection.

Nel marzo di quest’anno si è vista la prima mostra retrospettiva di Jan Tarasin a Poznań in quasi 20 anni, intitolata “Jan Tarasin. Sequenze di significato”. I 22 dipinti raccolti da varie fonti hanno formato una narrazione che mostra come lo stile di Tarasin sia cambiato nei decenni successivi. L’attenzione è stata richiamata sul sottile processo di scarto dei singoli elementi a favore di quelli successivi, che sono stati arricchiti di contenuto, significato e forma precedentemente non correlati.

Nel maggio di quest’anno, in collaborazione con la Magdalena Abakanowicz University of Arts di Poznan, nello spazio della galleria è stata presentata un’installazione video intitolata “Monk. “Monk” di Dominik Lejman, che è stata accompagnata da una presentazione di opere scultoree selezionate dalla collezione di artisti come Magdalena Abakanowicz e Andrzej Szewczyk. Come si vede, la galleria Molski si sta sviluppando in modo molto dinamico nel mercato emergente dell’arte polacca, con l’obiettivo non solo di promuovere l’arte polacca sia in Polonia che all’estero, ma anche di creare sinergie internazionali con artisti e istituzioni artistiche, missione diventata un’avventura molto stimolante.


MOLSKI gallery&collection
Contemporary art gallery

Poznan (Polonia)


Nella selva del Verano

Il cimitero del Verano è immenso e bellissimo. Soprattutto nelle sue parti monumentali è un’enciclopedia di stili e di arti minori da tutelare, e infatti dipende dall’Ufficio Monumenti Moderni della Sovraintendenza di Roma Capitale e sono anche previsti itinerari e visite guidate. Solo che è più facile sapere dove è sepolto Trilussa o Paolo Stoppa o Enrico Toti che non il caro estinto. Mi ero riproposto di trovare la tomba di famiglia, comprata nel lontano 1912 dal mio bisnonno e situata nella zona del Pincetto Nuovo, la parte in collina che si vede dall’inizio della via Tiburtina. L’impiegato mi ha gentilmente stampato le coordinate della tomba, senza però sapermi dire altro. Mi ha comunque dato la mappa del Verano, dove le varie zone sono numerate. Tutto facile? No. Nella stampata si parlava di “Viale Circonvallazione, loculi esterni”. Ebbene, sul terreno non c’è nessuna indicazione topografica con questo nome. In più, mi sono presto accorto che settori diversi ripetono la stessa numerazione, così ci sono due 31, due 140. In più, i numeri sono spesso cancellati o poco leggibili e – dulcis in fundo – ho scoperto che la tomba di famiglia era a terra e non a loculo. Ma per trovarla mi sono dovuto rivolgere a un paio di giardinieri pratici della zona, altrimenti avrei vagato ancora per sepolcri e sterpaglie. In realtà mi avevano fermato, insospettiti dal mio girovagare. E qui purtroppo va detto che in certe zone il Verano è una savana piena di zanzare. Ha sicuramente piovuto molto, ma l’incuria è impressionante, sia perché molte famiglie si sono estinte, sia perché l’AMA non riesce a garantire una manutenzione ordinaria decente. Fa impressione vedere tombe monumentali avvolte da vegetazione infestante o in totale rovina. Ma un intervento pubblico deve distinguere tra restauro conservativo e manutenzione ordinaria, la quale in questo momento è carente per mancanza di organici e di organizzazione. Un vero peccato, perché il Verano fa parte della cultura romana ed è un luogo pieno di arte. Sarebbe anche auspicabile che sorgano associazioni culturali che adottino una serie di sepolcri da restaurare o manutenere.