Il paese di re Mohammed VI, sempre più polarizzato, è il Paese degli squilibri socio-economici
Il Marocco di re Mohammed VI, sempre più polarizzato, è il Paese degli squilibri socio-economici. Architetti di fama internazionale e finanziatori cinesi fanno a gara per attribuirsi la paternità delle Grandi opere. Mentre nel Rif berbero non si placa la rabbia del movimento Hiraq. Come convivono baraccopoli e parchi industriali? Pescatori poveri e super lusso? Questo è un ‘grande salto’ dalle bidonville di Casablanca ai villaggi del Rif, dal Mall più grande d’Africa alle coste berbere.
Morocco mall a Casablanca
Col suo perimetro elicoidale, tre piani di megastore su 250mila m² di superficie, palme vere e un gigantesco acquario (40 specie di pesci), il Morocco mall di Casablanca è il secondo centro commerciale più grande d’Africa.
Un transatlantico Dubai style in pieno deserto. Sale ristorante da mille e una notte, più di 600 brand di gran lusso. Cinema multisala. Camere d’hotel, hall per i ricevimenti.
L’architetto che l’ha ideato è italiano e si chiama Davide Padoa. Ha firmato anche altre opere faraoniche con la Design International: è suo il Cleopatra Mall de il Cairo per i turisti del Golfo.
“Il sito per il Mall di Casablanca presentava già una forma allungata – racconta Padoa, ricordando di come dal deserto delle corniche marocchine ha avuto per la prima volta ‘la visione’ a forma di otto – Così ho immaginato qualcosa di cui si potesse vedere l’inizio ma non la fine. Mi è venuta l’idea di disegnare una facciata curva e lunga, dove il centro della curva è lontano dal mare, e camminando lungo l’edificio non vedi la fine”.
Lui la chiama ‘idea filosofica dell’infinito’. Ma di infinito questo transatlantico su terra ferma possiede soprattutto l’impronta ecologica.
Tuttavia le trovate dell’architetto dal gusto ‘emirico’ sono perfettamente in linea con gli sfarzi architettonici di un Marocco che vuole stordire i sensi.
Modificando anche la skyline delle città imperiali. I nuovi materiali vanno dal cemento ai marmi alle plastiche. “Conobbi Re Mohammed VI ad un evento privato – ci racconta Padoa in una intervista – organizzato da Madam Selwa Akhannouch, durante la fase conclusiva del progetto. Per il gruppo Aksal abbiamo in seguito progettato altri tre mall, uno a Rabat, uno a Marrakech e uno a Tangeri. Ma Aksal è tuttora alla ricerca di finanziamenti per poterli sviluppare”.
Padoa insiste sull’estetica: “Sono stato profondamente colpito dalla ricerca del bello della signora Selwa, e dalla sua sete di design di qualità”.
A fargli compagnia, nel firmamento delle archistar amiche, c’è Rachid Andaloussi, che firma CasArt, il nuovo Teatro a Casablanca, il più grande del Marocco. Sorge su una superficie di 25mila m2 e lo spazio all’aperto può contenere 35mila persone.
Le sale interne sono tre e quella degli spettacoli teatrali ospita 1800 persone. Niente a che vedere col Mall: il teatro di Casablanca si ispira comunque ad altri criteri.
Predominano il bianco, il legno, le terre. Gli architetti parlano di «un dispositivo scenografico urbano trasformabile”.
Eppure la città è completamente trasformata rispetto agli anni Novanta. Distrutte alcune icone architettoniche (come la villa Mokri e il teatro municipale). Costruiti hotel, parchi industriali e torri. A ribadire la grandezza del regno.
“L’organizzazione delle nostre città racconta quello che siamo, come condividiamo il nostro spazio. E che tipo di cittadini saremo un domani – spiega la scrittrice marocchina Leila Slimani – E’ evidente che la cultura popolare ha abbondonato le città in Marocco. I soldi, il consumo, l’ostentazione sono diventati i principali svaghi”.
A goderne sono soprattutto i molto ricchi e le classi medio-alte. Mentre nelle bidonville di Casablanca e Rabat le famiglie vivono ancora in cubetti di muratura e lamiera.
Largo ai sino-marocchini
Ma chi finanzia tutto lo sfarzo delle grandi opere? Mohammed VI ha stretto già da qualche anno un sodalizio finanziario abbastanza solido con banche e mecenati cinesi.
Il sito istituzionale di Morocco World News non manca di segnare la cronaca di ogni stretta di mano con il partner asiatico.
Come quella che ha portato a progettare, per un miliardo di dollari, ad est di Tangeri, una nuova città imperiale completamente high tech: “Il progetto si estende su 2mila ettari di terreno, oltre all’area residenziale collegata alla ferrovia e ad una rete di autostrade. Tra i primi progetti industriali previsti ci sarà quello dei bus elettrici e delle componenti aeronautiche”.
La mania dei mega-parchi industriali (ancora sulla carta però) sembra contagiare l’intero Nord Africa che si ‘golfizza’.
Ed appare anche la risposta più immediata del Re di Rabat alla povertà di zone a lungo trascurate come quella del Rif berbero.
“La Tangier Tech City di Mohammed VI sarà realizzata tramite un accordo con la Regione di Tangeri -Tetouan Al Hoceima, e il gruppo cinese Haite e la Bmce bank», afferma il ministro dell’industria e del commercio Moulay Hafid Elalamy.
In realtà queste opere hanno un dubbio impatto ambientale e un incerto effetto moltiplicatore del reddito.
Dalla povertà estrema e dal disagio dell’isolamento – come denunciano i pescatori poveri di al-Hoceima dopo la morte di Muchine Fikri – non se ne esce con i finanziamenti miliardari diretti all’industria e al turismo elitario.
Ma con la pazienza certosina delle cose ‘piccole’. Degli investimenti in scuole, ospedali, elettricità e piccole attività artigianali. Col microcredito, la promozione dei mercati e delle attività locali. E soprattutto con la formazione e l’istruzione dirette ai più giovani.
La strategia cinese invece punta ad altro. Sta ridisegnando le città africane (e anche i villaggi) con lo stesso criterio che ha adottato in patria. Ossia: trasferire la gente dalle campagne alle periferie.
“Negli ultimi nove anni – scrive l’Herald – la Cina ha pubblicato due documenti che spiegano la sua strategia in Africa. Pechino fa chiaramente sapere che non è interessata ad interferire con la politica interna degli Stati africani ma ha due priorità: la modernizzazione agricola e lo sviluppo industriale”.
Le grandi opere e il turismo d’elite si inseriscono in questo quadro.
In Marocco le periferie povere, come Sidi Moumen a Casablanca, restano grosso modo dove erano. Però tutto attorno crescono strade, autostrade e infrastrutture.
Questa modernità che costa, stride con la semplicità della vita rurale o periferica.
“Nei quartieri svantaggiati assistiamo ad una crescita folle, ad una vera follia speculativa e immobiliare”, spiega ancora Leila Slimani. “Gli edifici venuti su dalla terra, arrivano fino all’Oceano (il riferimento è appunto al Morocco Mall ndr.), la pianificazione territoriale de la corniche, la ferrovia e la ristrutturazione dei parchi, la creazione di tunnel e la riabilitazione della medina, lo sviluppo di enormi centri commerciali: la città cambia faccia ad un ritmo folle”.
Trappole per topi in bidonville
Molti altri mondi, quelli delle periferie dolenti, sono lasciati a se stessi, nascosti e invisibili agli occhi; sono le bidonville appena fuori città o ai suoi margini.
Come Al Manzah, tra le 500 baraccopoli di Casablanca. “Sovrastate da palazzi alti cinque piani, le famiglie vivono schiacciate dentro quelle che sembrano delle gabbie di legno per conigli ricoperte da lastre di metallo all’altezza delle loro teste. Il percorso, a tratti, è così stretto che siamo costret¬ti a camminare in fila indiana mentre ci facciamo largo tra i rampicanti sparsi un po’ ovunque”, scrive Andrew Connelly per Cafè babel.
“Nonostante il governo affermi che ci sia stato un ‘significativo progresso’ nella bonifica dei bassifondi – scrive Connelly – si stima che, solo a Casablanca, ci siano ancora più di 111mila famiglie stipate in oltre 500 baraccopoli. Se un giorno una rivoluzione prendesse piede nel paese, i distretti come Sidi Moumen sarebbero il focolaio della rivolta”.
Il 16 maggio 2003 Casablanca venne mutilata da un attentato kamikaze multiplo ad opera di cinque ragazzi tra i 20 e i 25 anni. Che ne feriscono la terra, le coscienze e i sogni. I protagonisti di quest’atto terroristico che uccide 41 persone è rivolto contro i simboli dell’Occidente.
I kamikaze vengono tutti da Sidi Moumen, agglomerato di baracche in lamiera e legno o muratura, a ridosso di un’enorme discarica. Fetidi effluvi e immondizie disseminate ovunque. Puoi non vederli se sei in città. E della città puoi non accorgerti se sei dentro Sidi Moumen.
“Potevi passeggiare per il nostro quartiere senza nemmeno accorgerti che esisteva. Un alto muro merlato in terra battuta lo separa dal boulevard dove un flusso ininterrotto di macchine fa un rumore infernale. In quel muro avevamo cavato fessure simili a feritoie dalle quali potevamo contemplare a piacere l’altro mondo”.
Inizia così Il grande salto, bellissimo romanzo di Mahi Binebine, ambientato per l’appunto a Sidi Moumen. Lo scrittore immagina di penetrare nelle vite e nei sogni dei protagonisti di quell’azzardo verso la morte. Che distruggerà alcune vite, oltre alle proprie.
E così si dipana la storia – a tratti commovente, lucida, intima – di Yashin (che racconta in prima persona), Nabil, Hamid e gli altri.
Sono le stelle di Sidi Moumen, un giorno reclutate dagli emiri (fondamentalisti islamici che li seducono e li spingono alla morte).
L’autore tradisce una conoscenza non solo dei luoghi, ma delle dinamiche sociali e psichiche: un preziosissimo indizio per interpretare tutti ‘i grandi salti’. Anche quelli delle città europee, tra giovani radicalizzati e in cerca di Paradiso. Istruiti a distanza tramite internet e i social.
In ogni bidonville che sia vicina o lontana dall’Europa, si fa l’abitudine alla barbarie. Alla bruttezza fisica, estetica e morale. E’ un’abitudine anche alla morte e alla violenza. Perché porta con sé la normalità della mancanza di dignità.
Però è anche un’occasione di condivisione e amicizia. Di destini comuni. Per i ragazzini, i giovani senza famiglia e quelli che hanno famiglie spezzate, la baraccopoli è destino collettivo. Su questo fanno perno i progetti di sviluppo rivolti alle periferie marocchine.
E su questo fanno perno pure i seminatori di morte. Sono due forze educative in concorrenza che puntano allo stesso obiettivo: i piccoli.
“Il miracolo di Sidi Moumen – dice il protagonista de Il Grande Salto – è la strana facilità con la quale ci si adattano i nuovi arrivati. Provenienti da campagne inaridite e da metropoli voraci, cacciati da un potere cieco e dai benestanti sanguisughe, scivolano nel calco di una rassegnata disfatta, si abituano al lerciume, si spogliano della loro dignità, imparano a cavarsela, tirano a campare”. Ma anche: «nonostante la fame dispieghi i suoi tentacoli, serrandogli il collo fino a soffocarli, a Sidi Moumen non uccide, perchè la gente divide ciò che possiede. Perché le persone misurano a vicenda la loro comune disperazione”.
Parola ai ribelli del Rif
E la disperazione più grande, oltre alle baraccopoli del Marocco più centrale, sta nel nord berbero. Da sempre trascurato.
Lo scorso 24 ottobre il re ha licenziato tre ministri per via dei ‘ritardi’ nello sviluppo dell’area del Rif, che da un anno esatto è in protesta permanente. Si tratta evidentemente di un capro espiatorio per placare gli animi dei rivoltosi. Ma non basta a fermare il movimento Hirak.
Nawal Ben Aissa è diventata un po’ la portavoce ufficiale del movimento sociale spontaneo hirak, da quando l’altro leader carismatico Nasser Zefzafi è stato arrestato con l’accusa di sobillare il popolo e dividere la comunità islamica.
Trentasei anni e quattro figli, capelli biondi e lisci, niente velo, Nawal è l’eroina del Rif. Sulla sua maglietta bianca è ritratta l’immagine dell’eroe degli anni ’20: Abdelkarim e-Khattabi.
Le forze dell’ordine al soldo di re Mohammed VI, che con l’arresto di Nasser e di molti altri pensavano d’aver interrotto il crescendo di contestazioni, si ritrovano tra le mani un osso ancora più duro.
Gli attivisti di hirak (sostanzialmente gli abitanti berberi dei villaggi, dagli studenti ai pescatori; dalle donne con figli ai blogger ai disoccupati) dal 28 ottobre scorso (giorno della morte del pescatore Mouhcine Fikri) riempiono le piazze con le loro rivendicazioni.
Chiedono “sanità, scuola e acqua. Cibo e case”. Il movimento nasce spontaneamente subito dopo la morte di Mouhcine, rimasto rimane stritolato dai meccanismi del veicolo della nettezza urbana.
Da quel momento in poi è stata guerra aperta nel Rif. Gli altri pescatori e poi tutti gli abitanti del villaggio ogni giorno manifestano contro un governo che chiamano ‘corrotto’. E’ come se si fosse aperta una voragine e data la stura al risentimento popolare.
Il re è nudo. L’imam pure
Sono due le parole forti che stavolta accendono gli animi delle fazioni in Marocco. Una è la parola fitna (che sta per dissenso, litigio o anche scontro teologico). E’ l’accusa rivolta dal re a Nasser Zefzafi e agli altri ribelli di hirak.
Vuol dire molte cose questa parola e soprattutto colora la rabbia di una sfumatura religiosa. I rivoltosi di hirak non risparmiano infatti le critiche agli imam. Sono molto religiosi anche i ribelli. Basti pensare allo stesso Nasser che per certi versi è di un tradizionalismo quasi talebano.
Ma il loro integralismo li porta a contestare in moschea gli imam che pensano che le moschee “siano più di Dio che dei poveri”, come ha gridato Nasser Zefzafi alla folla poco prima d’essere arrestato.
Contestano un’autorità, quella del re, che per statuto sarebbe discendente di Maometto ma che, dicono loro, fa solo i propri interessi.
Per i berberi del Rif un re che non guarda al bene dei suoi sudditi e un’autorità religiosa che predica senza tener presente le reali richieste della gente povera, non sono “rispettabili” da un punto di vista coranico.
Ed ecco che si tirano addosso l’accusa di fitna. Nasser Zefzafi critica il makhzen, l’amministrazione reale, e fa da stimolo all’identità rifaine attraverso video postati su facebook.
Il governo marocchino lo accusa di mettere «a repentaglio l’integrità territoriale del Paese e di ricevere fondi dall’estero per i suoi scopi». Questa loro rivendicazione è molto azzardata, rischiosa. E nuova.
Ma è anche un’arma a doppio taglio. Perché consente al governo di metterli più facilmente sotto accusa.
“Quando i manifestanti reclamano ospedali e scuole e attaccano la corruzione governativa, le autorità marocchine difficilmente possono fermarli. – spiega Pierre Vermeren, ricercatore dell’université Paris-I-Panthéon-Sorbonne – Ma l’accusa di fitna invece può consentire allo Stato di intervenire. Dice implicitamente che i rifaine sono dei cattivi musulmani, corrotti da un islam rigorista”.
Non lascia indifferente un credente islamico questa onta di dividere e sostanzialmente creare malumori e rotture all’interno della comunità dei credenti.
Imzouren: città fantasma dopo il terremoto
Ma c’è quell’altra specialissima parola che è hogra. Umiliazione. E i ribelli la usano assai spesso.
E’ l’umiliazione subita storicamente dal Rif prima negli anni di rivolta anticoloniale e poi subito dopo, con una monarchia (quella di Hassan II) che ha sempre marginalizzato e non amato questa regione del nord berbero.
Hogra che è andata avanti fino al 2004, quando un terremoto ha distrutto parte della cittadina di Imzouren, e ucciso 600 persone e però non ha mai visto una seria ricostruzione.
Hogra del 2011 con la primavera marocchina, messa a tacere da un re riformista che ha prontamente prodotto una Costituzione per certi versi più garantista della precedente.
E infine la hogra dei pescatori poveri del 2016. Il ribelle ventiduenne Nasser dice: “Noi abbiamo tre cose sacre: dhamwath, dhamghath, dhasghath», ossia la nostra terra, le nostre donne e i nostri diritti.
E questi ultimi sembrano proprio messi da parte. Ma l’umiliazione non è solo quella di Al Hoceima. C’è anche Imzouren che fa appello alla sua Storia e non è più disposta a subire.
Cittadina piccola e arida, che sorge a quindici chilometri da Al Hoceima. Negli ultimi mesi le proteste si sono estese anche qui, sebbene la stampa ne abbia parlato meno.
La foto simbolo di questo villaggio-fantasma è lo scheletro di un ospedale. Quello che dal 2004 avrebbe dovuto essere portato a termine e invece è rimasto fermo. Come un segno indelebile. Ne parla la stampa locale, tra gli altri il Courrier Picard e Desk, che dedicano dei reportage ai moti di giugno.
I giovani manifestanti si fanno ritrarre davanti alla carcassa del grande ospedale mai terminato: «è così da tantissimi anni», dice Mohammed, poco più che ventenne. I lavori sembrano essersi arenati. Fermi ad un punto morto. Il bianco della facciata nel frattempo è diventato grigio.
Ricordando la toponomastica di questo villaggio di 40mila persone i giornali scrivono che “è un aggregato di costruzioni cubiche disperse all’interno di un paesaggio roccioso ai piedi delle montagne”.
Ed in effetti guardando i video postati su youtube e le foto, Imzouren somiglia davvero ai martoriati centri abitati di certi Paesi arabi bombardati.
Una città fantasma, un po’ per via del terremoto di 13 anni fa che l’ha rasa al suolo, per vedere ricostruita in fretta e furia solo la periferia trasformata in bidonville; un po’ perché i suoi abitanti in effetti sono emigrati in gran parte nei Paesi Bassi decenni fa.
“Qui noi rifiutiamo l’umiliazione”, dice il militante Nabil. “Il sangue di Moulay Mohand scorre ancora nelle nostre vene”.
Eccolo di nuovo evocato Moulay Mohand, ossia Abdelkarim e-Khattabi, a capo dell’armata insurrezionale del Rif che nel 1920 sconfisse l’invasore spagnolo. Quest’uomo è ancora l’eroe dei berberi. Le magliette indossate dall’alter ego donna di Nasser, lo dimostrano.
E’ vivo e vegeto nei loro discorsi e negli slogan di piazza. E’ l’uomo che sconfisse l’umiliazione e che riscattò un popolo. Anche se poi quel popolo subì un’atra sconfitta.
Vittoria ed eredità delle Primavere
Il timore numero uno di Mohammed VI è che questi moti siano manipolati dall’esterno.
L’ossessione dei re (e dei dittatori) infine è sempre la stessa: colpo di Stato, rivoluzione, e nel caso di quelli del Nord Africa, complotto internazionale. Deposizione. Sovvertimento dell’ordine. Cambio di regime.
Ma ci sono ragazzi accusati anche di altri reati come Ilyas Moutaoukil. La cui storia è raccontata da Liberation che intervista l’avvocato Rachid Belaali, 54 anni.
“L’avvocato punta il faldone rosa più voluminoso. E’ il dossier di Ilyas Moutaoukil. Perché lui? E’ un’artista di 32 anni, vicino a Zefzafi, fa teatro, si occupa di fotografia. Non ce ne sono molti come lui ad Al Hoceima”.
È perseguito per “incitamento a commettere crimini”. Tra gli arrestati infatti ci sono persone comuni. Ci sono blogger. Artisti. Semplici studenti. Disoccupati. E li si spaventa in ogni modo. Ma loro resistono e soprattutto non cedono alla tentazione della violenza. Questa è un’eredità delle Primavere.
Forse è anche la certezza che se reagissero a rimetterci sarebbero i primi.
La ribellione del Rif è anche la dimostrazione del salto di qualità compiuto da un popolo insoddisfatto: nel 2003 Sidi Moumen aveva reagito all’umiliazione producendo kamikaze. Nel 2016 e 2017 Al Hoceima reagisce alla hogra producendo ribellione. Senza violenza e senza esplosioni.
Certamente i giovani di Al Hoceima, pescatori poveri come Mouhcine Fikri, conducono vite meno disperate di quelle delle Stelle di Sidi Moumen.
Strette dentro confini angusti che non lasciano spazio alla redenzione. Però hanno anche fatto una scelta consapevole di civiltà. Coraggio che non può non essere messo in continuità con il significato epocale delle Primavere arabe.
Quei moti di piazza, con l’epilogo che sappiamo, sono tutt’ora uno spartiacque eccezionale. Dalla paura alla redenzione.
Dalla rabbia cieca alla richiesta lucida. Dalla visione di un futuro nero al coraggio di dire no per un futuro più sfumato. E di rivendicare con le parole.
I giovanissimi di Sidi Moumen non avevano alternative che gli emiri (i fondamentalisti che li iniziarono al suicidio terrorista) per uscire dalla fogna. Oggi, quelli delle regioni berbere e anche delle bidonville cittadine, hanno un orizzonte meno oscuro davanti.
E’ l’eredità più grande e vincente lasciata dai compagni tunisini, egiziani, yemeniti, siriani.
Oggi i ragazzi che hanno fatto quest’altro salto, assaggiando il gusto della sana rivolta di piazza, sanno che dall’altra parte non li aspetta il vuoto.
Spesso c’è la morte (non voluta e non ricercata però). Ma ancora più spesso li attende la visione del “re nudo”. Che toglie sacralità al monarca e rende tutta la bellezza del reclamare a pieno diritto la giustizia a lungo desiderata.
tratto da Q CODE Magazine
del 04/11/2017