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Migrazione: Europa, Europa

MP Migrazione Europa EuropaFateci caso, l’asse franco-tedesco comprende bene o male l’area geopolitica del Sacro Romano Impero, mentre tutti i paesi afferenti al “gruppo di Visegrad” – nessuno escluso – hanno fatto parte integrante dell’Impero Austro-Ungarico, compreso il Lombardo-Veneto da cui è partita la Lega. Che dire? Il Sacro Romano Impero era una potenza continentale poco interessata al Mediterraneo e ai paesi che vi si affacciano, tant’è vero che per secoli quattro minuscole Repubbliche marinare hanno potuto gestire da sole il traffico con l’Oriente. Da parte sua l’Impero asburgico ha dovuto combattere trecento anni per frenare l’avanzata dell’Impero Ottomano islamico, e solo lo storico Franco Cardini è convinto che i Turchi dopo Vienna si sarebbero fermati o addirittura sarebbero tornati indietro. Seminomadi sì, ma sempre potenza militare e demografica. Ce lo ricorda oggi proprio il presidente Erdogan, che ha convinto il suo popolo che i nomadi devono obbedire solo al Capo. Ma scendiamo giù nel Mediterraneo: come gli antichi Romani e come a suo tempo Giolitti nel 1911, anche noi abbiamo capito che non si possono tenere le coste della Libia senza controllare l’interno, anche se lo puoi fare solo con l’accordo con le tribù piuttosto che pattugliando a vuoto il deserto del Fezzan, come nel bel film del ventennio Lo squadrone bianco (1936).

Già, l’Italia. Per motivi storici quella che ai tempi di Roma antica governava il bacino del Mediterraneo – vista anche la sua posizione geografica – si direbbe che non si è mai più ripresa e senta ancora il complesso dell’invasione, tanto ben sfruttato dalle destre nazionaliste o meno. Ma non sarà certo un governo imprevisto e imprevedibile a risolvere quella che non è mai stata un’emergenza, quanto piuttosto un processo storico paragonabile solo alle grandi migrazioni del passato. Diciamolo: questa migrazione i governi precedenti l’avevano tollerata se non incoraggiata, abolendo di fatto le frontiere alla fine della Guerra Fredda. La cosa non deve stupire: anche se per motivi diversi, sia i cattolici che la sinistra internazionalista sono sempre stati estranei allo stato nazionale, i primi in nome dell’accoglienza cristiana e dell’ecumenismo, la seconda in nome dell’internazionalismo proletario e della ridistribuzione del reddito e delle risorse. Mentre i primi finora sono stati così coerenti da accettare anche l’ingresso (controproducente?) dei musulmani, una parte della sinistra europea sembra non abbia avuto il coraggio di andare fino in fondo, ripiegando su alleanze di governo o spinte elettorali di tipo nazionale (come in Francia e nel Regno Unito) e soprattutto senza esprimere i propri concetti in maniera chiara. Da qui una narrazione contraddittoria, travolta purtroppo da una crisi economica venuta da lontano ma durata dieci anni, la quale ha finito per mettere tutti uno contro l’altro; da una parte le classi medie impoverite, dall’altra gli ultimi e penultimi che vogliono la loro fetta di torta. Purtroppo a suo tempo si è molto discusso sull’impatto della globalizzazione sulle popolazioni migranti, ma non è stata analizzata adeguatamente la reazione delle società europee residenti messe di fronte al cambiamento.

E qui s’inserisce anche la paranoia, quella che si ripresenta puntuale MP Migrazione Europa Europa 1ad ogni ciclo economico gravido di sconvolgimenti sociali. Intendo analizzare una delle teorie più pericolose che girano in questi tempi: il mito della sostituzione etnica. In sostanza, ci sarebbe un preciso piano per sostituire gradualmente la stanca, invecchiata e decadente popolazione europea immettendo sangue fresco, possibilmente africano e musulmano. Non sarebbe una novità: nella storiografia germanica le invasioni barbariche sono tuttora considerate portatrici di nuove e giovani energie innervate nel decadente Impero romano, il quale soffriva esattamente delle stesse cose dell’Europa di oggi: crisi economica, crisi demografica, crisi militare. Ma qui il tutto è definito come il complotto di una élite di banchieri e finanzieri (per fortuna non più ebrei) che nelle chiuse stanze di un consiglio di amministrazione allocato chissà dove (ma sicuramente in un grattacielo) hanno elaborato il piano per cambiare il sangue al debole corpo della vecchia Europa e rilanciare in questo modo la produzione. Si sarebbe dunque pianificata la distruzione dei popoli europei attraverso l’attacco mirato e scientificamente perseguito alla natalità europea e grazie alla deportazione da Africa e Asia di milioni di individui sradicati che avrebbero imbastardito la razza e la cultura europea e distrutto l’identità, determinando così una massa informe di cittadini senza radici, senza patrimonio, origini, avi, tradizioni, legami comunitari e quindi facilmente assoggettabile da parte dei poteri finanziari e priva di ogni possibilità di resistenza.

Intanto, l’attacco alla natalità gli europei se lo sono pianificato da soli: la denatalità è il risultato di una serie di fattori tutti interni alle società europee. In secondo luogo, è vero che una massa di “diversi” rompe equilibri consolidati, ma è anche vero che questo processo non nega affatto l’idea di Europa, la quale altro non è che il punto terminale di una serie di migrazioni che si sussegue da millenni. Lungi però dal diventare il nulla indistinto, questa entità diventa sempre qualcos’altro, formando nuove culture e nuove società che trasmettono e riesportano in forma anche aggressiva il prodotto finale. Basti pensare all’epoca dell’espansione coloniale. E in fondo il mito del ratto di Europa significa proprio questo: quello che entra da fuori si trasforma in qualcosa di ben diverso dall’identità originale. Altro che perdita d’identità, casomai è proprio il contrario. Come si vede, oltre che paranoico il discorso del complotto è superficiale.

MP Migrazione Europa Europa 2Altro punto debole della tesi è la puerile confusione tra economia e finanza. L’economia ha bisogno di spostare uomini, la finanza no. Una fabbrica ha bisogno di materie prime, di operai, di mercato, mentre la finanza oggi può spostare capitali senza neanche muovere un atomo di materia, meno che mai nell’epoca dell’internet e del digitale. E allora che senso ha trasferire milioni di uomini da un continente all’altro? In finanza nulla, mentre in economia è diverso: il vuoto non esiste e in genere l’ingranaggio si autoregola: laddove c’è lavoro ma servono altre risorse umane il vuoto viene colmato in breve tempo. Sull’integrazione degli immigrati si può e si deve discutere, non riducendo il problema ai contributi per le pensioni o semplificando gli attriti tra culture diverse, né adattandosi forzatamente a costumi estranei ai nostri per paura di un confronto: gli spostamenti di uomini portano anche conflitti. Pur tuttavia l’economia ha le sue leggi. Alla gente semplice invece piacciono i complotti: semplificano al massimo la realtà e trovano subito il colpevole. Persino una società democratica rappresentativa sente ancora il fascino della cospirazione di poche persone riunite al chiuso di una stanza dei bottoni. Peccato che non sia la realtà. Esistono invece le convergenze di interessi, ma non è detto che esse siano strutturate e programmate come uno pensa, anzi sembrano spesso portare a conseguenze inaspettate ed effetti collaterali non previsti. L’importante è dunque saper gestire il cambiamento. Ma per farlo bisogna prima capirne la dinamica.

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Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
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Un Mondo iniquo
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Partita a scacchi nel Mediterraneo: Il Poseidon

di Aldo Ferrara

Lo stato dell’arte nella situazione del Medio Oriente

Mentre il Presidente Trump sposta a Gerusalemme l’Ambasciata USA, con tutte le implicazioni politiche che ciò comporta, l’Alto rappresentante Ue Federica Mogherini si affretta a dichiarare di aver “… rassicurato sulla ferma posizione dell’Ue, che lo status finale di Gerusalemme come capitale futura di entrambe gli stati, sia decisa con negoziati che soddisfa(i)no le aspirazioni delle parti”. Lo zoom politico ci riporta dunque, dal triangolo del Nord-Irak curdo verso quel versante da decenni condizionato da eventi bellici. La nostra interpretazione geopolitica vede anche nel petrolio una delle cause, neanche nascosta,di quanto si apprende nei media.

Il petrolio genesi di nuovi equilibri nel MO

Lo scacchiere del mediterraneo orientale si arricchisce di un nuovo evento. Cipro, Grecia, Italia e Israele hanno concertato il progetto di un gasdotto idoneo a ridurre la dipendenza dell’UE dalla Russia.

dal sito IGI-Poseidon
Il novo gasdotto EastMed. Dal sito IGI-Poseidon

La progettazione e costruzione sono di competenza della IGI Poseidon, joint venture della società italiana Edison e della società greca Depa. Il gasdotto, denominato EastMed, al termine della costruzione avrà una portata di ben 16/20 miliardi di metri cubi di gas/anno dal bacino levantino. Avrà la sorgente nel tratto di Mediterraneo tra Libano, Israele e Cipro in direzione Grecia e Italia. L’anno di esercizio definitivo è fissato nel 2025. La sua portata a regime consentirà l’afflusso di gas & greggio pari al 5% del consumo annuale dell’UE, ma ciò significa anche compensare i 100 miliardi di metri cubi all’anno che l’UE acquista dalla Russia (Andrew Rettman, EuObserver.com, 6 dicembre 2017). Il gasdotto presenta costi elevati, pari a oltre 4 miliardi di euro, sia pure con un contributo della UE di 2 miliardi di euro in conto della sicurezza energetica. Beninteso, non è dato sapere i prezzi con cui gas e petrolio saranno immessi nel mercato. Con i suoi 1.900 km è, al momento, la più lunga pipeline sottomarina al mondo e quindi presenta pari problematicità di tipo ambientale, basti immaginare un lunghissimo tunnel in fondo al Mediterraneo a rischio quotidiano di sversamenti.

Le implicazioni politiche

È il tragitto del nuovo gasdotto che induce a riflessioni di ordine geopolitico. Il tragitto sembra evitare le coste turche, quasi a conferma che il fascio degli oleodotti che attraversa quella nazione sia considerato a “rischio politico”. Inoltre questo gasdotto sembra la risposta politica al suo omologo del Nord, il North Stream II, il cui tragitto evita accuratamente le coste del Nord Europa, specie quelle polacche e danesi nella sua traiettoria verso lo sbocco tedesco, nel distretto di Greifswald.

La seconda considerazione riguarda i Paesi promoters. Appare evidente che nella situazione attuale del MO, nessuno dei Paesi promotori avrebbe sviluppato questo progetto, senza l’approvazione tacita o esplicita dell’amministrazione statunitense. Inoltre si evidenzia come sia interessata anche l’Italia in questo progetto. Il gasdotto, infatti, dopo aver percorso l’intero Mediterraneo orientale in senso trasversale, dovrebbe sfociare nelle coste pugliesi.

È prevedibile dunque una nuova sollevazione della popolazione già in lotta per la foce del gasdotto TAP nella spiaggia salentina di S. Foca.

La terza considerazione è che appare improbabile che il Governo italiano non ne fosse a conoscenza. Tuttavia l’Ente nazionale di riferimento, l’ENI, non è interessata nel progetto, affidato a una struttura, la IGI Poseidon, società in joint al 50% tra Edison e la greca Depa. Il beneplacito arriva indirettamente da una dichiarazione governativa italiana. Il ministro dell’industria italiano, Carlo Calenda ha dichiarato a Roma: “Siamo la seconda economia manifatturiera in Europa, la diversificazione e la qualità delle nostre fonti energetiche sono fondamentali per il Paese e la sua competitività”. Il ministro, che nella compagine governativa attuale è forse colui il quale gode di maggior credito, sembra quasi voglia dire: Diversifichiamo le fonti e con esse le industrie italiane coinvolte… Ciò significa che il ruolo dell’ENI resta universale, ma per questo progetto forse era più adatta una Compagnia privata, quasi che questa possa essere sganciata dagli obblighi internazionali italiani.

Che sia un’operazione ormai decisa lo dimostra la firma apposta a un memorandum d’intesa sul progetto EastMed, a Nicosia, martedì 5 dicembre 2017, dai ministri dell’Energia cipriota, greca e israeliana con l’ambasciatore italiano a Cipro, in previsione di un accordo intergovernativo per il prossimo anno:

Il Progetto

…”La capacità di progettazione del progetto è stata aggiornata fino a 20 miliardi di metri cubi all’anno, al fine di consentire il trasporto di più fonti di gas, dalla Turchia / confine greco e dalla regione del Mediterraneo orientale.

La strada Il punto di partenza dell’oleodotto è la stazione di compressione, situata nell’area di Florovouni a Thesprotia (regione dell’Epiro) dove si prevede che sia collegata ad altre infrastrutture di approvvigionamento di gas come EastMed e / o IGI Onshore.

Dalla stazione di compressione, il gasdotto continuerà verso l’approdo greco da dove attraverserà la piattaforma greca, discenderà il pendio nel bacino settentrionale dello Jonio, ascenderà il versante italiano e infine raggiungerà la terraferma italiana, a est di Otranto.

Il gasdotto proseguirà poi fino alla stazione di misurazione entro i confini del comune di Otranto, dove sarà collegato al sistema nazionale di trasporto del gas nazionale.

Stato europeo Lo sviluppo del progetto Poseidon è coperto da un accordo intergovernativo tra la Grecia e l’Italia, ratificato dai parlamenti competenti.

Nel 2015, a seguito del contributo del progetto agli obiettivi europei, il gasdotto Poseidon è stato confermato come Progetto di interesse comune (PCI), incluso dalla Commissione UE nella seconda lista PCI tra i progetti del Corridoio meridionale del gas.

Il gasdotto Poseidon è stato incluso anche nell’ultimo piano di sviluppo decennale (TYNDP), in linea con l’obiettivo degli ENTSOG (European Network Transportation System Operators) di creare un mercato unico europeo per il gas e una rete di trasmissione affidabile e sicura in grado di soddisfare le esigenze attuali e future dell’Europa.

Il gasdotto Poseidon ha beneficiato di sovvenzioni europee di ca. 9 milioni di euro attraverso i programmi del piano europeo di ripresa economica (EERP) e dell’energia transeuropea delle reti (TEN-E).”

Conclusioni

Sotto il profilo politico, è un progetto che non riduce certo le frizioni tra UE e la Russia. Ciò porterà a un’ulteriore divaricazione tra Paesi dell’Europa tradizionale e Paesi europei dell’Intermarium di Visěgrad, che sostengono l’indipendenza energetica da Gazprom e Rosneft, le principali aziende della distribuzione dell’oil di matrice russa.

Se queste sono le caratteristiche tecniche dell’oleodotto, ben altre sono le perplessità che suscita.

In primis, il ruolo cardine di Israele in questo progetto può riaprire nuove frizioni politiche, nell’ambito della UE, specie nei rapporti con la governance palestinese. Si pone anche una questione politico-giuridica: affidare a paesi non Membri UE la gestione della distribuzione dell’energia non rientra nel piano Energia 2009 e ripropone, come nel caso North Stream II, la questione degli oleodotti off-shore.

Anche sul piano ambientale pioveranno le critiche: un oleodotto che attraversi l’intero Mediterraneo per ben 1900 km pone problematiche di salvaguardia che metteranno a dura prova i rapporti tra Cipro e Grecia. Peraltro non sarà risparmiato il versante italiano dove i Comuni salentini, riorganizzati in Comuni per la Costituzione, cercano di impedire, a suon di ricorsi, lo sfocio della Trans –Adriatic Pipeline (TAP), a S. Foca, e medesimo comportamento potrebbero avere verso il futuro possibile sfocio del Poseidon nei pressi di Otranto.

Fonti:

Rettmann A. EU states and Israel sign gas pipeline deal,  EuObserver, 6 dic. 2017

IGI Poseidon sito http://www.igi-poseidon.com/en/poseidon

su Frontiere
Articolo originale

 

Mediterraneo, una storia di conflitti

Sulla storia del Mare nostrum c’è una stupenda letteratura: dall’opera di Pirenne a quella di Braudel passando per Matvejevic, Quilici e Cardini (1). Questo breve libro di Luciano Canfora (2016) in meno di cinquanta pagine li sottende e aggiunge di suo. Era in realtà il testo di una conferenza – un po’ come le Lezioni americane di Calvino – e in fondo, diciamolo, i piccoli libri sono sempre i migliori: leggibili, concisi, razionali.
Intanto, il Mediterraneo è un mare chiuso dalle colonne d’Ercole; il canale di Suez prima non c’era, al punto che nella geografia di Tolomeo l’oceano Indiano era visto come chiuso e simmetrico. Platone però affermava (2) che il Mediterraneo è solo una piccola parte della terra, in cui “abitiamo come formiche o rane attorno allo stagno”, dimostrando dunque di vedere molto più in là degli altri. Ma quando è stato unificato il Mediterraneo? Un primo tentativo lo fanno i Greci di Siracusa per eliminare i Fenici dalla Sicilia, seguiti dagli Elleni ateniesi che cercano di conquistare Siracusa (3). Ma Atene e Sparta possedevano risorse limitate: una aveva la flotta, l’altra la fanteria. Con la prima si possono esigere tributi dai porti, con la seconda si tiene il terreno, ma per governare sul serio ci vuole un Impero. La risposta è quindi ovvia: il Mediterraneo diventa un lago quando Roma prima unifica prima l’Italia e poi elimina Cartagine e trasforma lo spazio intorno alla penisola in Mare nostrum. Quando discuto con uno straniero non è facile spiegare per quale motivo l’Italia è da secoli e anche oggi luogo d’invasione invece che padrona di un mare nel quale occupa una posizione assolutamente centrale. E l’ultima figuraccia risale a ieri, quando il nostro vuoto politico è stato occupato dalla Francia di Macron. Ma le invasioni sono di antica data: il Mediterraneo è come un ampio anello le cui rive e isole sono state raggiunte prima o poi da tutte le migrazioni afro-asiatiche. “Rodon”, la rosa, è una parola che i Greci hanno trovato sul posto, e chissà quante altre. Se l’Europa è un concetto medievale, il ratto di Europa è ancestrale: come a dire che ciò che vien da fuori, una volta varcati i Dardanelli diventa altro. Ma proprio sul Bosforo – a Troia – si svolge la guerra più antica di cui abbiamo testimonianza grazie a Omero. L’Iliade è la guerra degli Achei – Elleni, non asiatici – contro i popoli d’Anatolia. Gli stessi Elleni secoli dopo bloccheranno i Persiani di Serse e i loro discendenti romanizzati saranno sconfitti e occupati per sempre dai Turchi solo nel 1453, quando cade dopo mille anni l’Impero Romano d’Oriente. Alessandro Magno aveva orientalizzato il proprio potere per proiettarlo in Asia ma il suo impero fu breve, mentre l’impianto fondato dall’imperatore Costantino si dimostrò ben più solido e duraturo. Questo per dire che il Mediterraneo presenta una frattura originaria che non contrappone solo nord a sud, ma piuttosto ovest contro est. Canfora nota con preoccupazione la recente, progressiva egemonia della Turchia di Erdogan su Siria, Egitto e Libia, sviluppata ora appoggiando l’Isis, ora proponendosi nella mediazione fra le parti in conflitto (è di oggi il vertice di Tunisi), e la vede come una costante: al mare cercano di arrivare i popoli che scendono dalle aride montagne, mentre i popoli civilizzati cercano sempre di combattere i barbari, anche se prima o poi l’esito è scontato. Anche la guerra moderna vive di proiezione ancestrale, e non importa se non sappiamo più combattere e apriamo la porta all’invasore: è il principio quello che conta, la memoria è indelebile. Ovviamente parlo per metafore, quindi nessuno si offenda.
La frattura tra nord e sud si deve invece all’espansione dell’Islam, e qui la tesi di Pirenne, anche se formulata nel 1939, resta valida, nonostante il revisionismo di Cardini, il quale sembra rimuovere il concetto stesso di conflitto per trasformarlo in uno scambio tra culture diverse. E’ vero che certi traffici non si sono mai interrotti del tutto, ma la storia del Mediterraneo è una storia di guerre, di uomini finiti in fondo al mare e di rotte commerciali da difendere o sfruttare a tutti i costi. I secoli bui si devono anche all’interruzione del flusso di cultura e merci tra Oriente e Occidente, come la rinascita segue la ripresa dei flussi arabi che dall’Oriente tornano in Spagna, fin quando i Turchi – musulmani ma alieni – s’impongono prima su Baghdad e poi su Bisanzio. Una storia di lacerazione, ma anche d’incroci e scambi di ogni genere. L’essenza del Mediterraneo è la mescolanza, come diceva il compianto Pino Daniele.
A ricomporre l’unità del Mediterraneo sarà nel secolo XIX il colonialismo europeo: Marocco, Algeria e Tunisia diventano francesi, la Libia italiana, l’Egitto inglese. Ma è un dominio che dura poco più di un secolo, e si dimostrerà per quello che era: superficiale. Come un secolo – dal 1918 a oggi – dura l’assetto del Medio Oriente, seguìto alla dissoluzione dell’Impero Ottomano (accordi Sykes-Picot) e la nascita di nuovi stati. Fino all’attuale rinascita del Califfato o Daesh che sia, che spazza i confini geometrici tirati sulla carta con squadra e compasso. E una storia non finita, visto che ora si prevede il riflusso dei guerrieri verso la Libia e l’Africa subsahariana. L’autore ovviamente non è un indovino, quindi non può dire come andranno le cose. Fa comunque un’ultima osservazione: la Siria – tirannide minacciata da ben altra tirannide – è il paradigma della fine di un progresso laico, di quel nazionalismo militare modernista che aveva avuto nell’Egitto di Nasser il suo più ambizioso protagonista. Sogno infranto – aggiungo io – dall’unico stato realmente moderno e “occidentale”: Israele.
Infine, è inquietante pensare a una frase di Braudel, già citato: “L’unico destino dell’Africa è invadere l’Europa. L’unico destino dell’Europa è accoglierla”. E’ solo questione di tempo? In mancanza di una vera politica, sicuramente.

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Mediterraneo, una storia di conflitti.
Della difficile unificazione politica del mare nostrum in età classica (e oggi?)
Luciano Canfora
Editore: Castelvecchi (Irruzioni), 2016, pp. 43.
Prezzo: € 5,00
EAN: 9788869447129

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NOTE
1. Maometto e Carlomagno / Henry Pirenne, 1939 e ristampe; Il Mediterraneo : lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizione / Fernand Braudel ; con la collaborazione di Georges Duby, 1987; Breviario mediterraneo / Predrag Matvejevic ; introduzione Claudio Magris, 1988; Mediterraneo / Folco Quilici, 1980; Incontri (e scontri) mediterranei : il Mediterraneo come spazio di contatto tra culture e religioni diverse / Franco Cardini, 2014. – sono cinque libri di cui non si può fare a meno, che e offrono una scelta di documenti e opinioni affascinanti.
2. Fedone, 109 b
3. “Greci” erano chiamati esattamente gli Elleni che avevano colonizzato la Magna Grecia, come dire “Americani” invece che “Inglesi”. Se volete far felici i vostri amici greci, chiamateli sempre “voi Elleni”.

Migrazione: Non bastano le pacche sulle spalle

Per anni l’Europa non ha mostrato interesse alla questione migratoria che coinvolgeva le “frontiere” del Mediterraneo, poi sono cominciati i rimproveri per il poco impegno italiano nello schedare e nel non riuscire a tenere quei fuggitivi in Italia, nel rispetto della convenzione di Dublino, ma solo da poco si è inaugurata l’era delle pacche sulle spalle, dei ringraziamenti per il lavoro svolto.

Ora però sarebbe opportuno andare oltre la semplice rassicurazione del presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker nell’affermare che l’Italia può “continuare a contare sulla solidarietà europea” sul fronte della crisi dei migranti.

Un piccolo passo è stato compiuto da Macron, europeista e sovranista, con la sua critica ai paesi dell’est che hanno confuso l’Unione europea come un emporio dove fare la spesa senza pagare la merce acquistata, mostrando cinismo nel trattare la questione dei rifugiati.

Il presidente francese pone comunque dei distinguo tra i profughi dalle violenze e quelli della carestie, come se morire di fame e sete non fosse una violenza pari a quella di trovarsi vittime di conflitti, solo per ribadire, come aveva fatto Hollande, che la Francia si attiene al nuovo trigono del motto della Rivoluzione francese in “Liberté, Égalité, Telibecchitè”, trovando la Fraternité obsoleta, chiudendo da tempo le frontiere.

Con il vertice di Parigi tra Italia, Francia e Germania, il ministro degli interni italiano ha posto la questione di un codice per le Ong impegnate nel Mediterraneo, oltre ad indirizzare le navi su altri porti per lo sbarco dei migranti ed a maggiori pressioni sui paesi europei non impegnati nella ricollocazione.

Un vertice quello parigino che si è posto come preparatorio a quello del G20 a Amburgo, ma soprattutto all’incontro informale dei ministri dell’Interno dell’Unione a Tallinn per superare le minacce italiane di chiudere i porti italiani alle navi straniere, con una revisione del Trattato di Dublino.

Mentre l’Italia minaccia la chiusura dei porti, Francia e Spagna, insieme ad altri paesi che non si affacciano sul Mediterraneo, sprangano i loro approdi e l’Austria mette in scena un spot elettorale, poi rientrato, con il voler schierare i blindati sulla frontiera del Brennero, come dimostrazione di tanta ammirazione e empatia per lo sforzo italiano.

Anche l’avvertimento del commissario alla Migrazione Dimitris Avramopoulos sul “Ricollocarli o ci saranno sanzioni” gridata contro l’Ungheria, la Polonia e la Repubblica Ceca, pronto a proporre l’apertura di procedure d’infrazione, rimane solo una vaga minaccia.

A Berlino, al vertice preparatorio del G20, il primo ministro italiano Paolo Gentiloni ringrazia “i leader per la solidarietà e la comprensione per le difficoltà che dobbiamo affrontare in comune”, ma aggiunge anche che dopo tante espressioni di solidarietà è ora di passare ad un aiuto più concreto.

Il concreto aiuto che l’Italia si aspetta, viene specificato dal ministro degli interni Marco Minniti, in un maggiore coinvolgimento europeo nell’ospitalità dei profughi e nell’impegno di guardare all’Africa come soluzione e non come fonte del problema. Minniti all’incontro di Tallinn non ha commosso nessuno e vedere l’Africa come una risorsa rimane difficile con una Libia ufficialmente divisa in due governi e centinaia di tribù e milizie, oltre al fatto che la Cina si è radicata proprio negli stati africani da dove proviene gran parte della migrazione.

La Cina ha fatto dell’Africa, in questi ultimi decenni, un suo territorio d’oltre oceano, con gli enormi scambi di dare avere che difficilmente portano del benessere alle popolazioni native che continuano a migrare, anche per la cessione dei terreni più fertili alle compagnie cinesi, oltre ai conflitti per territori e ricchezze.

Tra pacche sulle spalle, tante parole d’incoraggiamento, ma soprattutto risatine di arroccamenti europei e porte chiuse, interviene Emma Bonino affermando che siamo stati noi a offrire i nostri porti, nell’ambito dell’operazione europea Triton, per gli sbarchi, ed ora è complicato disfare quell’accordo.

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Africa: Attaccati al Potere

Africa Attaccati al Potere-velazquez-papa-innocenzo-xIl cammino per una Democrazia diffusa in Africa è pieno di insidie, indire delle elezioni non significa che poi i risultati possono essere accettati pacificamente da tutte le parti.

In Gambia si è prolungato il balletto del “me ne vado” o “resisto” del presidente uscente, Yahya Jammeh, che dopo aver governato per 22 anni in modo autoritario, sembrava volersi farsi da parte dopo il risultato a lui sfavorevole, ma ecco che annuncia di non accettare il responso delle urne e il CEDEAO (Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale) si attiva per convincere il presidente ghanese a lasciare il potere.

La risposta di Jammeh, a due giorni dell’insediamento del presidente eletto Adama Barrow, si annuncia decretando lo stato di emergenza e l’Onu risponde con l’autorizzare l’Ecowas a intervenire militarmente per affermare la legittimità delle elezioni ed ecco che, sotto la pressione internazionale, Jammeh dichiara alla televisione di stato che lascerà il potere, prima però deve decidere dove andare, magari trasferirsi in Mauritania o Qatar, anche il Marocco si è offerto a dargli ospitalità, ma la sua meta finale è stata la Guinea Equatoriale, portando via con sé auto e preziose suppellettili su di un aereo cargo fornito dal Ciad, per un esilio dorato, garantito da una “buona uscita” di una decina di milioni di dollari delle casse dello Stato, e soprattutto lontano da qualsiasi commissione d’inchiesta che possa indagare sulle violazione dei diritti umani del padre-padrone del Gambia.

Mentre si consumava la sceneggiata di Jammeh che poteva portare ad un conflitto regionale, Adama Barrow, il nuovo e terzo presidente del Gambia, prestava giuramento nell’ambasciata del suo paese a Dakar (Senegal), un escamotage per non considerarsi in esilio.

Ora la situazione in Gambia, anche se Adama Barrow si è insediato, non è tranquilla con la difficile convivenza tra i soldati “fedeli” a Jammeh e le truppe dell’ECOWAS CEDEAO che sfocia in un continuo fronteggiarsi con scambio di colpi mentre le prigioni ospitano ancora gli oppositori della precedente amministrazione. Amnesty International chiede di indagare sulla morte di Solo Sandeng, esponente del Partito Democratico Stati (UDP), avvenuta dopo l’arresto e invoca la libertà per tutti i manifestanti fermati mentre chiedevano riforme elettorali, per una prova delle urne e della democrazia.

Un altro “attaccato” alla poltrona è il presidente Joseph Kabila, della RD Congo, che non sembra neanche voler indire le elezioni mentre il 92enne Mugabe si candita a succedersi, nel 2018, alla guida dello Zimbabwe.

La famiglia Kabila, in oltre dieci anni, ha creato un impero economico Africa Attaccati al Potere Kabila REUTERS1885896_Articoloche abbraccia tutti i settori dell’economia congolese e perché allora rischiare di perdere il potere sul Congo detto democratico e il controllo sull’estrazione dell’oro, diamanti, rame, cobalto e quant’altro è celato sotto la terra congolese, dando l’addio alla gratificante consuetudine di utilizzare una nazione come personale bancomat?

In Ciad il Presidente Idriss Déby per non lasciare la poltrona conquistata nel 1990 con un colpo di stato e consolidata nel 1996 con elezioni “costituzionali”, ha rimosso nel 2005 la limitazione a due mandati per poter mungere “ad libitum” le casse. Nell’aprile del 2016 è stato confermato per un quinto mandato per garantire la stabilità nell’area e combattere, grazie ai soldati della forza interregionale africana e le truppe francesi di stanza nel Ciad, i miliziani jihadisti che scorrazzano a nord sul confine libico, mentre imperversano a sud-ovest, tra Niger e Nigeria, gli integralisti islamici di Boko Haram, ma anche a est il confine con il Sudan non si può definire tranquillo.

Ancora più ad est è l’Eritrea ad essere governata con pugno di ferro da Isaias Afewerki, primo e unico presidente dal 1993, due anni dopo che il paese del Corno d’Africa conquistò l’indipendenza dall’Etiopia, che un rapporto della commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, pubblicato l’8 giugno 2016 a Ginevra, lo ritiene autore di numerosi crimini contro l’umanità, come la riduzione in schiavitù della popolazione non solo per servire sotto le armi la dittatura, reclusione, sparizioni e tortura oltre a persecuzioni, stupri e omicidi.

Sulle coste del Mediterraneo è Abdelaziz Bouteflika che, nonostante le sempre più insistenti voci sul suo precario stato di salute, ad essere presidente dell’Algeria dal 1999 e a non voler scendere dalla poltrona, ma è forse solo il Fronte di Liberazione Nazionale, il suo partito, a detenere il potere e decidere i cambi di dirigenza. Le elezioni del 4 maggio potranno dare un’indicazione sulla stabilità dello stato tra i più estesi dell’Africa, e il decimo del mondo, come “baluardo” alla diffusione di un islamismo integralista.

Anche in Tanzania non è il presidente a avere una continuità, ma il Partito della Rivoluzione che dal 1964, anno della fusione di Tanganika e Zanzibar, non ha permesso ad altre formazioni politiche di intromettersi nella gestione del potere.

Pierre Nkurunziza, in Burundi, ha giurato nel 2015 per il terzo mandato come Presidente, in elezioni giudicate non regolari dagli osservatori internazionali, che hanno causato veri e propri scontri tra l’opposizione e i governativi, portando l’allora segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon a recarsi nel paese africano per avviare un dialogo. Una crisi politica che vive a tutt’ sospesa nella speranza di una ripresa di dialogo tra governo e oppositori.

Nel vicino Ruanda è Paul Kagame, presidente dal 2000, ad annunciare la sua candidatura per un terzo mandato alle elezioni del 2017. L’accesso ad un terzo mandato possibile con la modifica costituzionale, ottenuta con la vittoria del referendum popolare, del 18 dicembre scorso, così non potrà solo rimanere al potere per altri dieci anni, ma potrà successivamente ricandidarsi ancora per altre due volte! Quindi Kagame potrebbe rimanere al potere fino al 2027, forse fino al 2034, diventando praticamente un presidente a vita. Ecco chi ha ispirato il turco Erdogan a plasmare la costituzione, ma forse lo si può perdonare nel suo farsi re, visto il ruolo svolto nella conclusione del genocidio ruandese del 1994 e, anche se non sempre positivo, nella seconda guerra del Congo.

Charles McArthur Ghankay Taylor ha governato sulla Liberia per soli sei anni, ma in compenso ha fatto danni non solo nel suo paese, ma ha messo lo zampino anche nella Guerra Civile nella vicina Sierra Leone per assicurarsi i blood diamonds (diamanti insanguinati) e per questo venne dimissionato nel 2003 per poi essere il primo ex presidente africano ad essere condannato dalla Corte Speciale per la Sierra Leone (SCSL) e dalla Corte per i Crimini internazionali de L’Aia, con sentenza definitiva 2013, a cinquant’anni di reclusione.

Il destino di Charles Taylor potrebbe essere condiviso dall’attuale presidente sudanese Omar Hasan Ahmad al-Bashīr, accusato dalla Corte Penale Internazionale per i crimini in Darfur, e sulla cui testa pende una mandato di cattura internazionale. Al-Bashīr, presidente del Sudan dal 1989, ha potuto contare su di una sorta di sbadataggine o magari della negligenza di altri governi non solo africani per sfuggire al mandato di arresto per crimini di guerra e contro l’umanità emesso nel 2009 e da difese fantasiose come quella di Erdoğan basata su “un musulmano non può compiere un genocidio”.

In Mauritania Mohamed Ould Abdel Aziz è stato confermato, dopo un colpo di stato, presidente dal 2009 e nuovamente nel 2014. Ora si appresta ad indire un referendum costituzionale magari non solo per abolire il Senato, modificare la bandiera e l’inno nazionale, ma anche per trovare un escamotage per prorogare la sua presenza alla guida del paese, anche se privilegiando l’etnia arabo-berbera a cui appartiene lo stesso Abdelaziz, discriminando le etnie africane, puntando sul fatto di aver garantito sino ad ora la sicurezza del paese nonostante si trovi al centro di un’area instabile, come dimostrano le vicissitudini del vicino Mali, dove operano jihadisti di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, formazioni indipendentiste Tuareg e criminalità comune.

Per fortuna l’Africa non è solo di governanti intenti a fare soldi e conservare ad ogni costo la poltrona, ma anche di presidenti come il namibiano Hifikepunye Pohamba che, allo scadere del suo mandato nel 2015, si è aggiudicato il premio Mo Ibrahim per il suo buon governo. Il premio è stato istituito nel 2007 dalla fondazione del milionario sudanese Mo Ibrahim ed è una speranza per Africa democratica.

Africa Attaccati al Potere Jose-Eduardo-dos-Santos-008Un altro esempio di responsabilità può essere il presidente Jose Eduardo dos Santos che, confermato nelle ultime elezioni del 2012 in Angola con il 75 per cento dei voti, ha dichiarato di non volersi presentare alle prossime elezioni di agosto, nominando come successore Joao Lourenco. Una decisione presa dopo 37 anni al potere iniziati 1979, con la morte di Agostinho Neto

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