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Ucraina tra Sparta e Atene

Tutti mi chiedono che faranno ora i Russi, che nel frattempo hanno ampliato la loro offensiva militare in Ucraina e puntano alle grandi città. Se lo sapessi non starei qui ma al NATO College o consulente ben pagato di qualche istituto di ricerca, anche se va detto che proprio molti analisti di professione hanno sottovalutato la situazione e non certo da ora. Per il resto ho le stesse informazioni che hanno gli altri: frammentarie, parziali e partigiane, mentre i giorni precedenti all’attacco sapevamo tutto sullo schieramento di terra e di mare, ripreso dai satelliti e divulgato in rete. Davamo per scontato che i Russi avrebbero occupato e annesso il Donbass e forse qualcos’altro in Crimea, ma lasciando l’armata ai confini come deterrente e strumento di pressione politica, con reali risultati sul medio e lungo periodo. Ha sconcertato tutti dunque la decisione di scatenare un’invasione su larga scala di un paese che gravita da sempre fra due culture diverse ma che è fondamentalmente europeo. Il problema è culturale: nella nostra mentalità non ritenevamo più praticabile una guerra su larga scala; al massimo era prevedibile l’annessione delle due zone dove la minoranza russa aveva proclamato l’indipendenza dall’Ucraina, superando gli Accordi di Minsk in realtà mai applicati per la resistenza anche proprio del governo ucraino, restio a concedere un’autonomia alle zone del Donbass. Governo che si direbbe difficile da inquadrare in uno schema preciso: per Putin l’Ucraina non esiste, va liberata e denazificata, mentre per noi è un paese sovrano libero di scegliere da che parte stare, anche se non è chiaro quanto abbiano pesato nel 2014 le offerte e le pressioni statunitensi ed europee per quello che ancora oggi viene descritto più come un colpo di stato che un vero processo democratico. Tutto infatti parte da qui: dal momento in cui l’Ucraina non ha firmato l’accordo doganale con la Russia e si è invece orientata verso l’Unione Europea, sganciandosi dunque dalla tradizionale area di influenza russa, ma senza immaginare che gli statunitensi non erano disposti a impegnarsi in profondità. Biden poi come presidente si è visto di che pasta è fatto: Afghanistan docet.

E parliamo della NATO. Una volta caduto il Muro di Berlino (novembre 1989) i paesi prima aderenti al Patto di Varsavia si sono man mano smarcati con la fine dell’Unione Sovietica (1991) e all’inizio del nuovo secolo sono entrati nella NATO. C’era un accordo non scritto per evitare l’espansione a Est di un’alleanza nata proprio per contenere l’URSS, ma questo non è stato rispettato, col risultato di frustrare i Russi e proiettarli nella classica sindrome di accerchiamento. Fino all’ascesa di Putin la Russia e il suo esercito stavano comunque a pezzi e il presidente Eltsin era debole. Da parte statunitense si è quindi fatto l’errore di confondere l’Unione Sovietica con la Russia e non prevedere la futura rinascita di una nazione fortemente coesa, Ora, si dirà: ma un paese che occupa undici meridiani può sentirsi accerchiato solo perché la terra è tonda?  Ebbene, chi ritiene Putin un uomo misterioso e la politica estera russa ambigua, bene farebbe a studiare storia moderna. Dai tempi di Pietro il Grande (regnò dal 1682 al 1725) la strategia russa è sempre la stessa: sbocco al mare (Baltico e Mar Nero), colonizzazione e sfruttamento della Siberia, contenimento dell’Islam (all’epoca incarnato dall’Impero Ottomano) e creazione in Europa di una fascia di sicurezza a spese degli altri (baltici, polacchi, ucraini, tedeschi, etc.). La popolazione russa è concentrata verso l’Europa e la Russia è un paese europeo, invaso ora dagli Svedesi, ora da Napoleone, ora da Hitler. Niente di strano che da sempre venga tenuta frapposta una zona di stati cuscinetto neutrali o vassalli. Esattamente quello che l’espansione della NATO ha Est ha distrutto, creando solo frustrazione. Resta casomai da capire perché una faccenda così importante non sia stata mai messa per iscritto e affidata solo a promesse verbali o a note di ambasciata. Lo stesso Putin, se voleva negoziare o rinegoziare con la NATO, ha avuto vent’anni di tempo, né gli mancavano certo gli strumenti di pressione diplomatica per frenare l’aggressività statunitense da Bush in poi. In fondo, l’autodeterminazione dei popoli non vale solo per il Kosovo e la NATO aveva mantenuto il carattere di un’alleanza esclusiva, concettualmente ferma alla divisione tra Est e Ovest. Integrare la Russia nel sistema economico e politico europeo si è visto che non è facile, vista la sua struttura di potere, ma c’è stato comunque un periodo in cui si poteva fare certamente di più.

Torniamo dunque un passo indietro. Dopo la Caduta del Muro (1989) l’Unione Sovietica si dissolve e al suo posto rinasce la Russia, mentre i paesi legati al Patto di Varsavia si rendono indipendenti dall’alleanza nata nel dopoguerra per contrastare la NATO. Tutto questo avviene negli anni ’90 del secolo scorso, in un momento di particolare debolezza per la Russia e la CSI (Confederazione di Stati Indipendenti) intorno al nucleo centrale. In questo contesto molti paesi dell’Europa Orientale chiedono di aderire sia all’Unione Europea (che a tutt’oggi conta 27 membri) che alla NATO (attualmente 30 membri, di cui 22 nella UE). Ma se la UE è un’unione politica ed economica, la NATO ha funzioni essenzialmente militari e l’articolo 5 prevede l’aiuto reciproco fra paesi membri in caso di attacco anche a uno solo di essi. E’ chiaro a questo punto perché le tre Repubbliche Baltiche o la Polonia hanno aderito alla NATO: non per invadere la Russia, ma per difendersi dai Russi. Neanche strano che Putin non voglia l’ingresso dell’Ucraina nella NATO: finché ne resta fuori essa deve difendersi da sola, né c’è proporzione tra i due eserciti, come si è visto in queste ultime settimane. La Russia negli ultimi quindici anni ha investito molto sul rinnovamento e lo sviluppo delle sue forze armate, e soprattutto ha reagito nei tempi lunghi alla situazione di inferiorità in cui gli statunitensi l’avevano costretta. Non si può dunque comprendere la situazione attuale senza capire che la graduale estensione della NATO è stata sentita dalla Russia come una minaccia alle proprie frontiere, non più separate dall’Europa occidentale da una zona di stati-cuscinetto, di fatto vassalli. Ma se l’Unione Sovietica era finita, la Russia aveva invece le forze per rinascere, era solo questione di tempo. Sicuramente meglio sarebbe stato garantire una fascia neutrale, inserita nell’UE ma non nella NATO, oppure trasformare la NATO in un’Alleanza per la Sicurezza, inclusiva invece che esclusiva. Questo avrebbe meglio indirizzato gli sforzi, p.es., contro il pericolo islamista, con il quale i Russi devono confrontarsi sul terreno delle repubbliche asiatiche ex-sovietiche.

E passiamo ora all’Ucraina. Negoziati o meno, i Russi stanno distruggendo un paese con cui dovranno comunque convivere, non fosse altro perché metà delle famiglie ucraine ha parenti russi. Sicuramente pensavano di fare una guerra lampo, ma – come scrive Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale (1928) “Non si aspettavano di trovare tanta resistenza”. Sempre la stessa storia: a Budapest (1956) o a Praga (1968) i carri armati russi entrarono da liberatori, salvo accorgersi che buona parte della gente la pensava diversamente. E se vogliono entrare in Kharkiv (già Kharkov: nella seconda GM ci hanno combattuto quattro battaglie!) o in Kiev (o Kjiv?) i soldati sanno che combattere strada per strada in città con uno o due milioni di abitanti è una rogna che può durare mesi e si traduce in una snervante guerriglia urbana. L’esercito ucraino è molto inferiore per qualità e quantità a quello russo, ma l’Ucraina è enorme e capace di resistenza diffusa. Si è anche parlato molto di guerra partigiana, ma su quello esprimo qualche dubbio: organizzarla richiede capacità superiori a quelle di un esercito regolare e infatti ha funzionato dove un forte partito nazionalista o comunista stava già sul terreno, o dove – penso alla Jugoslavia di Tito – una parte della difesa territoriale era stata organizzata per tempo decentrando i depositi di armi e carburante in luoghi meno accessibili e addestrando sistematicamente i riservisti su base locale. Distribuire armi o tenerle nei depositi di caserma da sola non basta se la gente non sa usarle o se i Russi sanno già dove cercarle. E sicuramente agiscono da mesi agenti infiltrati o collaboratori fidati.

Detto questo, un’ultima considerazione. Si può vincere sul piano militare, ma perdere sul piano strategico. Putin non può permettersi una guerra prolungata: la Russia ha un PIL inferiore a quello dell’Italia e la colonna di mezzi corazzati e logistici lunga 60-65 km che sta puntando su Kiev in tre giorni di autonomia consuma da sola qualcosa come 2 milioni di litri di carburante, più olii lubrificanti, viveri e munizioni. I russi che manifestano per la pace in quaranta città sanno bene che presto dovranno rifare le file per il pane come ai tempi sovietici e anche per questo stanno in piazza. Dico “anche” perché nessun russo percepisce gli ucraini come stranieri, mica sono ceceni o abkhazi. Quindi tutti hanno interesse al negoziato, anche se ci si poteva arrivare con meno spesa, lacrime e sangue. Tutti hanno bisogno di una soluzione onorevole. E se Putin cadrà (magari per la rivolta degli oligarchi), è perché l’Unione Europea ha dimostrato maggiore compattezza e sa diversificare le armi e gli strumenti di pressione. Nessuno se lo aspettava, ma sottovalutare le democrazie è un classico dei regimi monocratici.

Infine, una parola sui profughi. L’Italia è il paese europeo dove vive la più estesa comunità ucraina, in maggioranza lavoratori e lavoratrici di basso rango (le donne sono l’80%). Si spera che saremo capaci di accogliere degnamente le migliaia di profughi che fuggono realmente da una guerra. Finora si è registrata una grande empatia con il popolo ucraino, ora è il momento di passare ai fatti.

Kabul: Addio a vent’anni di sforzi

Tutti hanno scritto qualcosa sulla caduta di Kabul, ma io ho voluto aspettare. Intanto sono andato a rileggermi i libri e gli articoli scritti negli ultimi anni da giornalisti, militari e attivisti di ONG, sia italiani che americani e britannici, presenti comunque sul terreno: li trovo più attendibili di chi ora parla da “esperto”. Il quadro era più o meno coerente e pessimistico: molti progressi nel campo dell’educazione e dei servizi, ma scarso controllo del immenso territorio e seri dubbi sulle reali capacità del governo afghano e del suo esercito di sapersela cavare da soli. Quindi una situazione comunque tarata all’origine; incredibile è stata solo la velocità del collasso non appena ritirate quelle che gli afghani sentivano come truppe di occupazione straniere. La classe dei notabili afghani ha i suoi torti – la corruzione per prima – ma saprà poi adattarsi a chi è più forte. Noi invece abbiamo sprecato risorse e perso una guerra durata vent’anni. Dico “noi” perché dopo la missione Enduring Freedom (gestita da USA e UK) la missione ISAF e la successiva Resolute Support hanno impegnato a rotazione almeno 50.000 militari italiani (1). Dicono che abbiamo fatto un buon lavoro con la gente, ma è ancora presto per capire se i risultati saranno duraturi. Sicuramente la società afghana non è oggi quella di vent’anni fa (almeno nei grandi centri), ma confidare nei “talebani moderati” è perlomeno azzardato (2). Se democrazia significa dare spazio a tutti, un regime autoritario prevede al massimo l’accordo tra capi ed etnie. Se poi la democrazia può essere esportata o imposta, è un altro discorso. Le premesse per una vera democrazia non comprendono solo libere elezioni e candidati credibili, ma anche la divisione costituzionale dei poteri, una coscienza civile e soprattutto l’idea che chi perde non va ammazzato. Inutile poi aggiungere che la modernità è laica e che il diritto romano è stato scritto dagli uomini. Ma a leggere i siti filo-talebani (ora oscurati) trasuda ancora la retorica della “guerra di popolo” e la narrazione della gente che spontaneamente si schiera coi talebani, mentre è noto che nella guerra partigiana il controllo del territorio viene spesso gestito con modi spicci: o sei con noi o contro di noi.

Riavvolgiamo ora il film per capire insieme cosa non ha funzionato. Intanto, qual’era l’obiettivo al momento dell’invasione del 2001? La distruzione dei “santuari” dei terroristi ospitati dal regime dei talebani e la cattura di Bin Laden. Col tempo l’obiettivo è cambiato (vedi cronologia in fondo): la ricostruzione del paese e la creazione di un esercito nazionale afghano, anche se il presidente Biden dà valore solo al primo obiettivo. E qui le cose sono due: o ce ne siamo andati troppo tardi (morto Bin Laden, perché rimanere?) o troppo presto (la ricostruzione è incompleta). Io vedo invece uno schema analogo alla guerra del Vietnam, con le stesse fasi: prima si cerca di distruggere la guerriglia, poi si punta a consolidare la società civile, infine si affida alle forze locali la difesa del proprio destino. Salvo poi scoprire che la guerriglia è difficile da estirpare; che finanziare la ricostruzione richiede un serio controllo sulla gestione degli aiuti; e che addestrare i soldati locali secondo i nostri criteri funziona solo finché ci siamo dietro noi con la nostra superiore tecnologia e logistica. In ogni caso, l’obiettivo deve essere sempre uno solo e chiaro fin dall’inizio, come chiare devono essere le regole d’ingaggio per i nostri soldati. Ma se l’obiettivo non è chiaro o viene cambiato in corso d’opera (come successe in Somalia nel 1992) (3) i risultati possono essere disastrosi.

Passiamo all’altro problema: cosa sapevamo realmente dell’Afghanistan, un paese immenso, lontano, gestito da etnie diverse, privo di strade, difficilmente governabile dal centro, socialmente diverso, culturalmente arretrato e in più islamico? Questo non significa che militari, funzionari civili e volontari delle ONG non fossero onesti. Il problema è farsi capire dalla gente. In Afghanistan i Sovietici (1979-1989) crearono lo scontento con la collettivizzazione delle terre dei latifondisti, ma costruirono scuole, ospedali, strade, uffici e impianti sportivi. E soprattutto, tutto fu gestito direttamente. Sotto gestione americana invece la ricostruzione è stata affidata al Provincial Reconstruction Team (PRT)(4) gestito soprattutto da istituzioni e aziende private, magari non tutte serie e ideologicamente solide come Emergency del compianto Gino Strada, per non parlare delle intermediazioni parassitarie dei notabili locali e dei funzionari governativi. Frequente la lamentela della popolazione locale: tanti progetti, nessun attore, pochi cambiamenti nella condizione sociale ed economica della gente (5). Giusto ieri Emma Bonino ribadiva la priorità di una gestione pubblica e coordinata (europea) per gli aiuti umanitari e l’assistenza ai profughi. Altri progetti non sono partiti per la mancanza di sicurezza. Ma allora il problema era posto male: la priorità era la parte militare; nessuna impresa civile rischia uomini e capitali se non vengono garantite le ordinarie misure di sicurezza. E ora le immense risorse minerarie scoperte nel 2010 saranno sfruttate da altri, sempre che i talebani garantiscano la sicurezza: si tratta di gestire enormi investimenti per un arco di decenni, vista la mancanza di strutture e di infrastrutture. In fondo basta l’oppio. Sono stati spesi miliardi per convincere i contadini a coltivare qualcosa di diverso e non ha funzionato. Non sono poi stati distrutti i campi d’oppio per mantenere il consenso dei contadini ed evitare che andassero coi talebani. E non ha funzionato neanche quello. Colpa nostra: l’oppio lo esportano, ma i clienti siamo noi.

Altro errore: voler costruire un esercito nazionale afghano modellato su quello americano, con tutta la tecnologia e l’appoggio di fuoco che hanno solo loro. Quasi 90 miliardi di dollari buttati, più tutte le armi e i mezzi regalati ora ai talebani. I comunicati ufficiali anche italiani (6) sono sempre stati ottimisti, anche se si doveva ammettere che le reclute afghane erano analfabete e poco motivate e che frequenti erano i malintesi dovuti a differenze culturali. Gli afghani sono guerrieri duri e coraggiosi, ma solo finché si battono alla maniera loro, cioè con la guerriglia e per bande tribali. Arruolare reggimenti di linea formati da analfabeti e dotarli di armi moderne significa creare una totale dipendenza da specialisti stranieri e dall’appoggio dell’aviazione. In più – per ovvi motivi – gli eserciti NATO dovevano avere meno perdite possibili, quindi la prima linea toccava a loro, agli afghani. In fondo dovevano difendere casa loro o no? Ma anche con tutto l’appoggio di fuoco possibile, quella che si è rivelata debole è la motivazione dei soldati afghani, vista anche la corruzione dei comandanti, fino a giungere a una sorta di 8 settembre in salsa afghana. Un aspetto sottovalutato è che la guerriglia non si può separare dalla politica: le poche vittorie reali (come quella degli inglesi in Malesia, 1948-1960) si devono a un’accorta gestione sia militare che politica della situazione, evitando rappresaglie sulla popolazione civile.

Infine, mi viene in mente una frase che pronunciò il gen. Franco Angioni in una conferenza sulla Bosnia: non si deve mai negoziare senza un deterrente.  Trump invece nei colloqui di Doha con i talebani ha concesso tutto senza condizioni. A parte l’esclusione del governo afghano (come dire…), nessuno degli impegni sottoscritti (ma il testo ufficiale potrebbe avere clausole segrete) era controllabile sul terreno. Anche se i cittadini statunitensi si erano stufati di finanziare una guerra lontana dai propri confini e anche se – a parte Bush jr. – tutti gli altri presidenti (Obama, Trump, Biden) in fondo volevano solo uscire dalla trappola afghana, le modalità accettate da Trump e addirittura affrettate da Biden sono oggettivamente un disastro. Che senso ha – come ha fatto Obama nel 2014 – fissare la data del ritiro? E’ chiaro che il nemico aspetta. Peggio ancora ritirare prima i soldati e poi i civili, salvo dover rimandare i soldati a gestire l’esodo disordinato dei propri collaboratori. Il ponte aereo da Kabul ricorda quello di Berlino del 1948, ma il contesto è diverso: caos completo e il rischio reale di non poter evacuare tutti gli afghani in pericolo: non ci sono proroghe e gli alleati della NATO non sono stati neanche sentiti, come se fossimo solo i vassalli degli americani. Le perdite alleate sono oltre il migliaio, abbiamo anche noi sputato sudore e sangue e alla fine neanche chiedono il nostro parere, dimostrando un atteggiamento diciamo unilaterale. Si auspica da parte della NATO – gli europei e i canadesi, intendo – una minore passività. La NATO era nata per difendere l’Europa, ma poi è diventata una coalizione buona per fare la guerra in mezzo mondo. Peccato che siano tutte guerre perse o a metà.

Infine: in che mani siamo? Stiamo parlando di professionisti della politica, della guerra e delle scienze sociali che hanno studiato nelle più prestigiose scuole e centri di ricerca e una volta in pensione sono assunti dalle industrie o diventano esosi conferenzieri universitari. Suggerisco la lettura di due documenti reperibili in rete. Il primo è uno studio sulla discrasia fra presidenti che non capiscono niente di cose militari (con l’eccezione di Eisenhower, che era un generale) e i militari che sanno gestire la parte tecnica di una guerra ma non ne capiscono le implicazioni politiche e sociali (7). L’altro documento è una lunga intervista al generale Petraeus, probabilmente il miglior comandante americano degli ultimi anni (8). Gli errori sono elencati tutti, e detto da lui possiamo crederci: aveva realmente stabilizzato l’Irak e contribuito al più recente manuale di contro-insurrezione, dove si tiene conto forse per la prima volta della cura per la popolazione civile (9)

Ma i risultati finali li vediamo nelle masse di disperati all’aeroporto di Kabul, più quante ne vedremo nei prossimi mesi. Perché un paradosso delle guerre recenti è che la ricostruzione del paese liberato non è più a carico del vincitore, come all’epoca del piano Marshall, ma di chi ha perso, il quale per sensi di colpa o per escludere i cinesi o pur di non vedersi occupato da mezzo milione di profughi poveri e musulmani è ben disposto a sostenere economicamente il nemico vittorioso.

NOTE

  1. CRONOLOGIA: 7 ottobre 2001 – Parte l’Operazione Enduring Freedom. Stati Uniti e Regno Unito avviano una campagna di bombardamenti aerei contro Al Qaeda e i talebani, mentre sul terreno va avanti l’offensiva dell’Alleanza del Nord. 14 novembre – Kabul cade, i Talebani si ritirano nella roccaforte di Kandahar, che cadrà il 9 novembre, segnando la fine dell’Emirato islamico. 5 dicembre – l’Onu forma l’International Security Assistance Force (ISAF) per mantenere la sicurezza in Afghanistan e assistere il governo di Kabul. Dell’ISAF farà parte anche un contingente italiano, schierato prima Kabul e poi a Herat. Aprile 2002 – George W Bush propone un piano per la ricostruzione dell’Afghanistan. 1 marzo 2003 – Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld dichiara la “fine dei combattimenti”. L’8 agosto la Nato assume la responsabilità della missione ISAF. 14 dicembre 2003 – La Loya Jirga con 502 delegati prepara una nuova costituzione afgana. 9 ottobre 2004 – Hamid Karzai vince le elezioni ed è proclamato presidente della Repubblica islamica dell’Afghanistan. Nel 2009 Karzai viene confermato per un secondo mandato. 2005 – Insurrezione talebana dopo la decisione del Pakistan di collocare 80.000 soldati al confine con l’Afghanistan. Luglio 2006: si moltiplicano gli attacchi suicidi e gli attentati con mine stradali. Maggio 2009 – Il Pentagono nomina capo delle operazioni militari il generale Stanley McChrystal, che teorizza la necessità di ridurre i “danni collaterali”, cioè le vittime civili. Dicembre 2009 – Il presidente degli Stati Uniti Barack Obama invia altri 33mila soldati statunitensi in Afghanistan. In totale le truppe internazionali sono 150mila. 1 maggio 2011 – In un raid in Pakistan, truppe speciali Usa uccidono Osama bin Laden. Dicembre 2011 – Conferenza di Bonn per avviare il ritiro delle truppe internazionali e la ricostruzione dell’Afghanistan. Giugno 2013 – L’ISAF trasferisce la responsabilità della sicurezza alle forze afgane. Il 21 dicembre 2014 Ashraf Ghani e il rivale Abdullah Abdullah si accordano per dividere i ruoli nell’amministrazione dell’Afghanistan. 28 dicembre 2014 – L’ISAF lascia il posto a Resolute Support, con compiti di assistenza alle forze afgane. Agosto 2017 – Donald Trump rende pubblica l’intenzione di ritirare le truppe il prima possibile. 2018 – Talebani e delegati Usa avviano trattative di pace ad alto livello a Doha, in Qatar; il testo è firmato il 29 febbraio 2020.  Finalmente il 30 giugno 2021 i soldati italiani tornano a casa da Herat. Agosto 2021: il finale lo vediamo ogni giorno.
  • Ennio Flaiano disse una volta: “ma che significa sano erotismo? Come dire una bella dentiera”.
  • Nel 1992, la grave crisi umanitaria che stava sconvolgendo la Somalia indusse le Nazioni Unite ad un intervento armato nella regione, concretizzatosi con le missioni UNOSOM I (1992), UNITAF (1992-1993) e UNOSOM II (1993-1995). Tuttavia una cattiva gestione delle operazioni vanificò l’intervento. Anche qui gli Stati Uniti crearono non pochi problemi cambiando da un giorno all’altro la natura della missione e mettendo i nostri soldati nei guai.
  • In sigla, FM 3-24.2 (FM 90-8, FM 7-98). Scaricabile in rete

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A PLACE CALLED KOSOVO

Il sito ufficiale della US Army ( www.military.com ) è molto ricco di servizi e video e recentemente si è occupato del Kosovo, zona circoscritta ma strategica. Ricordiamo che il Kosovo come stato indipendente nasce nel 2008, subito riconosciuto dagli USA (presidenza Clinton). Ma proprio gli USA si sono trovati a gestire uno stallo che dura tuttora: l’accordo “storico” stipulato da Trump il 4 settembre 2020 tra  il premier del Kosovo Avdullah Hoti e il presidente serbo Aleksandar Vucic sanciva solo la vittoria della dottrina di Donald Trump in politica estera, imponendola unilateralmente a Belgrado e Pristina, ma non offrendo un reale progresso ai rapporti tra i due paesi. Ora, le recenti elezioni parlamentari del Kosovo (14 febbraio 2021) hanno visto la vincita del Movimento di Albin Kurti (Vetëvendosje – Partito Nazionalista di sinistra), noto per la sua intransigenza sulle relazioni con la Serbia. Proprio su Kurti ora ricadrebbero le forti pressioni dell’Occidente di riavviare i colloqui con la Serbia, che non riconosce ancora lo Stato del Kosovo. Una disputa che causa grande tensione e instabilità in tutta la regione balcanica e ostacola il sogno di Belgrado e di Pristina di aderire all’Unione europea. Certo, è ancora presto per capire i futuri sviluppi, ma la presidenza Trump aveva puntato molto sul precedente governo, favorendo anche la creazione di forze armate del Kosovo (approvata il 14 dicembre 2018 dal parlamento di Pristina), progettando di inserirle nella NATO e farle partecipare alle missioni internazionali. Nel frattempo i due eserciti lavorano insieme, mentre la forza KFOR – di cui facciamo parte anche noi con più di 500 elementi – si occupa di evitare attriti fra serbi e kosovari e di aiutare la ricostruzione del paese. MA la strada è lunga.

Ma come viene presentato nel corso del tempo l’impegno in Kosovo su www.military.com ? Sono 30 articoli e 25 video in tutto, alcuni sotto marchio NATO. Inizialmente si parla solo di peacekeeping:

https://www.military.com/daily-news/2013/03/14/active-duty-us-troops-to-do-kosovo-peacekeeping.html
https://www.military.com/daily-news/2015/11/13/soldier-tackles-professional-personal-goals-in-kosovo.html

Il Kosovo viene presentato come un posto strano per i soldati…

https://www.military.com/video/operations-and-strategy/deployment/a-place-called-kosovo/661029606001

e magari un orso viene curato dal dentista di caserma…

https://www.military.com/video/us-soldiers-kosovo-treat-bears-damaged-tooth

In genere, più prosaicamente, si esalta la cooperazione con gli altri eserciti della KFOR:

https://www.military.com/video/specialties-and-personnel/physical-fitness/spartan-300-challenge-in-kosovo/4680916396001
https://www.military.com/video/forces/army-training/international-infantry-training-in-kosovo/5128245628001

Vengono poi registrati alcuni decessi di militari in incidenti, ma viene anche data importanza alle donne:  p.es. una irachena arruolata tre anni prima nella US Army e ora in missione in Kosovo, paese – ricordiamolo – musulmano:

https://www.military.com/daily-news/2018/11/05/female-iraq-native-empowers-kosovo-mission-through-personal-experience.html

oppure un’austriaca e una slovena:

https://www.military.com/video/forces/international-forces/nato-women-in-kosovo-austrian-logistics-officer/5366980614001
https://www.military.com/video/forces/military-foreign-forces/nato-women-in-kosovo-slovenian-infantry-platoon-leader/5365687635001

…e l’italiana Sara Sapienza, sottoufficiale della Brigata Trasmissioni, degli Alpini, intervistata nel Villaggio Italia di Pec’/Peja:

https://www.military.com/video/forces/international-forces/nato-women-in-kosovo-italian-signal-platoon-leader/5366972945001

Curiosamente, Sara Sapienza ha visibilità nei canali NATO in inglese ma sembra ignorata dalle fonti italiane:

https://jfcnaples.nato.int/newsroom/news/2017/the-limits-are-sometimes-mental
https://www.dvidshub.net/video/513148/nato-women-kfor-italian-signal-platoon-leader-with-music

Nel 2018 invece vengono registrate le proteste della Serbia per la formazione di un esercito nazionale kosovaro, “Serbia insists that the new army violates a U.N. resolution that ended Kosovo’s 1998-1999 bloody war of independence” :

https://www.military.com/daily-news/2018/12/14/serbia-talks-armed-intervention-kosovo-oks-new-army.html

L’anno scorso naturalmente si parlava di Covid, vista la presenza di 3400 fra soldati e civili da 27 paesi diversi in un paese male attrezzato per qualsiasi epidemia:

https://www.military.com/daily-news/2020/12/25/virus-changes-work-not-goal-of-kosovos-nato-peacekeepers.html

Ma uno dei piatti forti resta lo sminamento:

https://www.military.com/video/operations-and-strategy/land-mines/international-day-of-mine-awareness/5395555839001
https://www.military.com/video/ammunition-and-explosives/explosive-ordnance-disposal/meet-erin-natos-bomb-disposal-commander-in-kosovo/5363003266001

Qui vediamo il sottotenente sminatore Erin Schneider, a capo di un reparto EOD, perfettamente a suo agio nel suo ambiente. E con questo termina la nostra breve rassegna sul Kosovo visto con gli occhi della US Army. Si tratta di video brevi e ben confezionati, o di articoli concisi ma essenziali. Un esempio di comunicazione.

Trump: I buchi del Distruttore

 

Il Mondo, dopo un anno dall’elezione di Trump a presidente della nazione leader, ha subito dei cambiamenti geopolitici, prospettando per gli Stati uniti una incredibile retrocessione.

Il presidente si è dato molto da fare nel distruggere l’eredità di Obama che lo ha preceduto, senza limitarsi alle innovazioni nella politica interna, definito dalla BBC US government shutdown: How did we get here again? uno “scontro tra bande” che dalla disputa sulla sanità e il clima ha coinvolto non solo la situazione migrante islamica ma che con i Dreamers è arrivato a coinvolgere lo shutdown nel confronto politico nell’era dell’amministrazione Trump, anche nel rapporto con le altre nazioni.

Con Obama il rapporto con islam era in evoluzione e con l’accordo sul nucleare iraniano aveva contrariato i paesi arabi sunniti e gli israeliani, mentre con i russi era un muro contro muro, ma tutto era delineato senza ambiguità.

Un panorama confuso se non nel fatto che tutto sembra ricondurre ad una forte volontà di svolgere il tradizionale ruolo di veditore di armi, ma anche in quest’ambito non sembra fare grandi affari se la Turchia, secondo esercito della Nato, preferisce fornirsi di sistemi missilistici russi, come anche i sauditi, riuscendo a mettere in crisi, non solo con le sue dichiarazioni “isolazioniste”, il rapporto con gli aderenti all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Con l’enunciazione della sua personale dottrina nucleare basata sulle mini bombe, capaci di scatenare tsunami radioattivi si disattiva l’impegno di Obama contro la proliferazione nucleare e la Russia risponde con un missile dalla traiettoria “imprevedibile”.

Trump è ambivalente nel suo lusingare la Turchia e armare i curdi, rafforzare i legami con i sauditi senza rinunciare ai rapporti con il Qatar, dichiara Gerusalemme capitale di Israele facendo infuriare i paesi islamici, andando incontro alle critiche dell’Onu e ai rimproveri degli alleati europei.

Con il mancato blocco degli insediamenti ebraici Trump fa sospettare il reale disinteressa di Israele per i colloqui di pace con i palestinesi.

Il presidente statunitense sta creando dei buchi nella politica estera che la Russia, la Cina e la Turchia si stanno impegnando a colmare, creando delle alleanze ambivalenti. Tanto ambivalenti che hanno portato la Turchia a chiedere il permesso alla Russia per intervenire nella zona siriana di Afrin per cacciare i curdi con l’operazione “ramoscello d’ulivo”, mentre i curdi trattano con Damasco per arginare l’avanzata turca in Siria e Trump sta a guardare gli alleati che si rivolgono agli avversari per risolvere un conflitto atavico, mentre Bashar Assad rade al suolo Ghouta Est alla periferia della capitale siriana.

Una resa dei conti “incrociati”, con alleanze variabili che nascono e muoiono sul batter di un interesse.

Un presidente impegnato, con lo sfilarsi dall’accordo di Parigi sul clima, nell’attivare le miniere di carbone, dare autorizzazioni di trivellazione ovunque si ritiene utile, che vuol completare i lavori dell’oleodotto progettato per transitare sul territorio della riserva dei nativi americani nel North Dakota.

Periodicamente lancia messaggi di distensione per un possibile rientro nell’accordo sul clima di Parigi, per poi manifestare tutto il suo scetticismo sui cambiamenti climatici, come sulle tematiche dell’evoluzionismo e creazionismo.

Mentre la Cina diventa il capofila per l’impegno ambientalista e rafforza la sua presenza in Africa. Un continente quello africano che ha colto interesse turco. La Turchia gareggia con la Russia e l’Iran anche per un posto d’onore nello scacchiere mediorientale.

Un presidente che appare confuso senza una chiara politica economica che probabilmente ha portato la “Trumphoria” a sbattere contro il muro delle fluttuazioni finanziarie, conducendo alla crisi dei mercati e al ridimensionamento della crescita, con la fine dell’era del denaro a poco, in attesa di un’impennata nei tassi di interesse.

All’interno della stesso staff non mancano i contrasti come in occasione dei dazi promossi da Trump sull’acciaio e l’alluminio senza confrontarsi con i suo consigliere economico, come aveva fatto in precedenza con altri consiglieri sui più disparati ambiti.

Trump è un presidente che si muove senza alcuna remore, creando non solo scompiglio e sconcerto tra gli avversari, ma anche tra alleati e collaboratori.

È probabile che Trump potrà fare “meglio”, nel peggio, del presidente Zuma nel distruggere il miracolo sudafricano e rendere gli Stati uniti soli.

 

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