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Islamia: Conflitti e Sconfitti

Il Dio dai molti nomi è capace di difendersi da solo da possibili offese e saper parlare al cuore di chi è disposto ad ascoltarlo.

Lasciamo al Dio giudicare gli insolenti che non rispettano la sacralità delle religioni, senza porlo allo stesso piano delle manchevolezze di politici e delle nostre umane debolezze.

I sacrifici umani non sono più di moda per quietare le ire della natura e l’inquisizione dovrebbe essere relegata alla narrativa.

È fuori da ogni possibile dialogo o contraddittorio la barbarie che si manifesta nel togliere la vita ad ogni qualsivoglia essere vivente, ma oltretutto la scelta di dare la morte diventa anche sfoggio di disumana crudeltà.

Atrocità espressa con un rogo, invenzione di truculenti film sui serial killer, è topica della decadenza dei costumi nell’Occidente che un certo Islam rifugge. Il problema potrebbe essere facilmente risolvibile con una sana separazione delle culture.
È una soluzione che può andare bene anche a quegli intolleranti di Pegida e a tutti gli oppositori del multiculturalismo.

Avversari di ogni confronto con gli Altri, probabilmente per una forma tumorale di sindrome d’inadeguatezza, si fanno fanatici dello scontro.

Un certo Occidente teme l’islamizzazione, come una parte dell’Islam rifiuta ogni contaminazione occidentale.

Ma non vi è alcuna necessità di confronto, ignoratevi, alzate dei muri per vivere in recinti e magiare i vostri cibi, che ognuno festeggi le proprie credenze e eventi.

Essere permalosi e precludersi ogni occasione di confronto non rende le persone felici, anzi ci si incancrenisce in un isolamento fondamentalista.

Anche la migliore delle persone ha sofferto almeno in un’occasione della sua vita una accentuata carenza di pazienza verso il vicino, rivolgendosi a lui con modi bruschi, esprimendo tutta l’intolleranza che un fastidioso mal di testa può far esplodere.

È in quelle occasioni che l’individuo dovrebbe riflettere quanto lui potrebbe migliorare nell’apprendere dal suo vicino.

Non può essere una colpa prediligere un cibo piuttosto che un altro o se la sua storia personale è differente dall’altra.

Conflitti che coinvolgono i fedeli di tre religioni monoteiste che paradossalmente hanno radici comuni in Abramo, ma con ritualità diverse. Una vera guerra del potere che nel mondo mussulmano non si esprime solo tra sunniti e sciti, tra arabi e persiani, ma soprattutto all’interno degli stessi sunniti. È sconfortante il livello di litigiosità dell’umanità nell’impegnarsi così tanto nel trovare le differenze e rimanere invece indifferenti su ciò che ci accomuna.

Il Mondo arabo, in fermento da anni, è in cerca di una democrazia che superi i governi autoritari teocratici, con la loro ispirazione oscurantista, e quelli laici protesi verso una modernizzazione sociale, ma lontani dall’idea di libertà d’opinione e d’espressione.

Un Islam dalle mille sfumature, con una maggioranza che non si riconosce nel fanatismo e lancia la campagna #NotInMyName (Non in nome mio) o i come nelle testimonianze dei 15 attivisti musulmani, tra blogger-giornalisti e artisti, che sfidano il settarismo.

Il vero nemico della convivenza è rappresentata dall’inadeguadezza di quelle bellicose minoranze che vogliono convertire le maggioranze con ogni mezzo e questo Samuel P. Huntington, nel suo saggio pubblicato su Foreign Affairs nel 1993, ben lontano dall’11 settembre 2001, The Clash of Civilizations?, approfondito successivamente nel libro Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, non lo aveva previsto, anche perché erano ancora lontane le manifestazioni per la democrazia nel mondo mussulmano.

Un Mondo mussulmano facilmente messo sotto accusa, dopo l’11 settembre, per ogni strage, come quella dei 77 norvegesi uccisi da un xenofobo autoctono. Un’islamofobia analizzata da Martha C. Nussbaum nel libro La Nuova intolleranza, del 2012, e superare la paura dell’Islam e vivere in una società più libera.

Prima erano le ideologie sociali a mobilitare i popoli, ma dopo la Guerra Fredda sono l’identità culturale, soprattutto la religione, ad alimentare i conflitti. Ma la distinzione non è così semplice. Anche all’interno di aree identitarie esistono dei distinguo tra gli uni – gli individui – propensi a capire, dagli altri – la massa – reclusi in dogmi o ancorati ad una visione arcaica della società per dare la caccia ai blasfemi che siano protesi verso un “modernismo”.

Distinzioni rituali che dilania tanto l’Occidente quanto l’Islam, senza escludere le altre realtà culturali di questo Pianeta, estremizzando il conflitto non tra civiltà, ma anche tra chi impone la separazione tra Potere e Sudditi. Il vero conflitto è tra chi si elegge a casta atta a manipolare un’identità religiosa o culturale per avere una schiera di seguaci e chi non vuole dare nulla per scontato, in cerca della conoscenza e della tolleranza, per capire ciò che ci circonda, scambiandosi le esperienze per progredire.

Un futuro auspicabile non dovrebbe contemplare sacrifici ad una Fede impersonata in un Dio o nello spietato profitto personale, ma un’equità nella condivisione ed avere una posizione relativista sulla quotidiana convivenza.

Ma per ora ci si continua a scannare per l’interpretazione di uno scritto o per un lembo di terra da strappare a quelle comunità che vi abitano da decenni se non da secoli, per alimentare conflitti che infliggono sconfitte anche a chi pensa di essere il vincitore.

 

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Gli Orti dell’Occidente

Il Nord del Mondo si differenzia dal cosiddetto Sud non solo per il benessere che ostenta, ma anche per il fantasioso approccio che ha nell’usare l’indispensabile come superfluo.

Un esempio è la visione che l’Occidente ha degli orti da realizzare sui balconi, negli spazi condominiali o come intervento artistico, perdendo il vitale presupposto che rende l’orto importante per intere comunità in aree povere della Terra come unica fonte di sussistenza.

È chic, oltre che utile e decorativo, realizzare degli orti sui balconi di Roma come di Milano o New York. A Parigi non sono stati realizzati solo gli orti sui terrazzi, ma anche le facciate d’interi edifici, pubblici e privati, sono stati rivestiti di vegetazione da Patrick Blanc o gli orti “comunitari” nei giardini delle scuole per educare le nuove generazioni ad un differente rapporto con la natura.

Si realizzano video per pubblicizzare gli Orti pensili come il futuro “green” per la città come quello presente sul sito del quotidiano La Stampa per ribadire la facilità con la quale degli spazi verdi possono essere non solo decorativi ma anche utili.

Michelangelo Pistoletto, in occasione del Salone del Mobile di Milano, è intervenuto su di un terrazzo con 750 metri quadrati di orto urbano. L’arte cavalca i tempi, imbrigliando l’idea degli eco sistemi nella moda, mentre l’orto per alcune comunità non è un’occasione di decoro, ma di sopravvivenza.

Con l’Expo 2015 di Milano viene proposto il tema dell’alimentazione “Nutrire il Pianeta Energia per la Vita”, affrontando marginalmente gli stili di vita che gli Orti urbani possono aver contribuito a modificare verso una maggior sensibilità per l’ambiente e come strumento contro la speculazione edilizia, ma presentando, a titolo dimostrativo, la vertical farm tutta italiana realizzata dall’Enea.

Sembra che l’Occidente sia lo sviluppo verticale come logica evoluzione dell’agricoltura integrata nel contesto urbano. Grattacieli vestiti dalle lattughe e decorati con cetrioli e pomodori o impianti industriali convertiti alle coltivazioni idroponiche, con le piante che galleggiano sotto la luce dei Led, sotto il vigile controllo del sistema informatizzato e con “contadini” in candide tute bianche.

L’Amministrazione capitolina patrocina la campagna “Porto l’Orto a Lampedusa”, come ha spiegato il sindaco dell’isola, per la creazione di orti urbani con l’obiettivo non solo di rifondare l’agricoltura, sottraendo il territorio alla cementificazione o a essere adibito a discarica dei rifiuti, ma anche nel tentativo di essere autonomi dal sostentamento del “continente”, oltre ad essere un’opportunità d’integrazione dei numerosi migranti che ogni anno sbarcano a Lampedusa.

Un’agricoltura che non si limita a decorare il panorama urbano, ma soddisfa anche la ricerca di una moda gastronomica e soprattutto contribuisce ad assorbire l’emissione di Co2.

Finalità purtroppo ben lontane dall’essere comprese da quelle popolazioni continuamente in conflitto con la natura per poter strappare alla Terra quello stretto necessario per sopravvivere in habitat ostili come nelle zone sub sahariana e in particolare nel Ciad, dove da anni padre Franco Martellozzo sta portando avanti il progetto degli orti comunitari, iniziato con la realizzazione di pozzi e la messa a dimora di alberi. Trovare l’acqua nel sottosuolo e piantare gli alberi permetteranno un’agricoltura fuori dai condizionamenti delle precipitazioni atmosferiche.

Un lavoro che continua a richiedere non solo pazienza, ma soprattutto caparbietà nello strappare metro dopo metro la terra al deserto, nella regione di Guera.

Sono pochi i metri quadrati coltivati dalle donne associate in gruppi non solo per nutrire le loro famiglie, ma con la speranza di superare la pura agricoltura di sussistenza per avere anche qualcosa da barattare al mercato.

Un’orticoltura che supera l’agricoltura del miglio e dell’arachide, unico sostentamento per oltre l’80% della popolazione, per coltivare ortaggi, come pomodori e insalate, migliorando la dieta con l’arricchimento di vitamine, per poi realizzare vivai per contrastare i processi di desertificazione.

È il Sahara che vuol estendersi da est a ovest ad essere uno dei maggiori ostacoli alla sopravvivenza delle comunità ciadiane, senza dimenticare i conflitti al di là delle frontiere del Ciad in Sudan – Darfour e nella Repubblica Centrafricana, oltre all’instabilità politica in Libia.

Centinaia di pozzi che hanno favorito l’accesso all’acqua e con allestimento dei barrage (piccole dighe) per rallentare il deflusso dell’acqua piovana e favorire la penetrazione nel terreno per alimentare la falda acquifera.

Non solo i pozzi per scongiurare le carestie, ma anche la costituzione delle banche di cereali, gestite direttamente dai villaggi, per avere sempre delle scorte e calmierare i prezzi del miglio e del sorgo.

L’Occidente investe in titoli di stato, in Ciad nel “conto miglio”, grazie all’idea di P. Franco Martellozzo di realizzare le banche dei cereali non solo come baratto tra merci, ma anche per salvaguardare l’unicità delle culture dall’imperante politica di una produzione agricola uniformata alle esigenze delle multinazionali a discapito della sopravvivenza delle piccole comunità. Nella diocesi di Mongo, nel centro del paese, non ci sono istituti di credito che remunerano la liquidità perché il bene più prezioso è il raccolto nei campi, basando l’erogazione di prestiti, quasi esclusivamente in natura, avviando la cultura del lavoro, dell’autosufficienza, dell’impegno contrattuale e della solidarietà. I nuovi animatori si uniranno al già folto gruppo di persone che è deciso a passare da un livello di sopravvivenza incerta e costantemente a rischio verso una sicurezza di vita e un miglioramento della sua qualità.

È interessante come l’Occidente mistificatore rende ordinario ciò che è l’indispensabile per alcune comunità, trasformando un modo di vivere superfluo in impegno per la salvaguardia dell’ambiente. Un’opulenza che si autoassolve e placa il suo senso di colpa per lo spreco alimentare perpetrato sistematicamente (ogni anno in Europa sprecano 89 milioni di tonnellate di cibo), dimostrandosi sensibile agli sforzi di un manipolo di persone con iniziative del tipo Last minute market. Un Occidente incapace di valutare l’importanza di un fazzoletto di terra da coltivare per non morire, o dell’acqua che scorre a perdere dalle fontane e fontanelle delle città europee, mentre in Africa si devono scavare pozzi e raccogliere quella rara pioggia per dissetarsi, senza alcuna misura sanitaria. Il risparmio dell’acqua come degli alimenti, certo non garantirebbe un miglioramento della vita nei luoghi disagiati del Pianeta, ma i fortunati del Pianeta assumerebbero una posizione etica e di rispetto verso gli sventurati.

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Gli Orti dell'Occidente 20140513_164245_1 Gli Orti dell'Occidente giardini_verticali1I giardini verticali di Patrick Blanc il muro vegetale alla conquista della città Fuorisalone:'SuperOrtoPiù', orto urbano sui tetti di Milano PENTAX DIGITAL CAMERA

Iran: Sei mesi di speranze

Al tavolo delle trattative sul nucleare iraniano l’Europa non si presenta come un’unica entità, ma come accade sempre più spesso in questo suo ordine sparso nella geopolitica. L’Unione europea, forse per la debolezza rappresentativa del responsabile della politica estera, è presente con la Gran Bretagna, la Francia per affiancare gli Stati uniti, la Cina e la Russia, Paesi che hanno diritto di veto al Consiglio di sicurezza dell’Onu, e sono riusciti, con la formula del “cinque + uno”, a far imbucare anche la Germania, in un ruolo subalterno.

È una delle innumerevoli dimostrazioni non solo della debolezza europea, ma soprattutto di una mancanza di una politica estera comune che Catherine Ashton, l’Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, cerca di sopperire intrufolandosi ad osservare o indire conferenze stampa con il ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif.

Anche se più di una volta sono apparsi segnali ottimistici che hanno fatto pensare ad un imminente positiva conclusione, sono state altrettante le volte che hanno generato delusione.

È talmente poco considerata la Catherine Ashton che il ministro degli Esteri francese Laurent Fabius gli ha sottratto la scena con una conferenza stampa che pone delle riflessioni sulla volontà di voler conseguire un accordo condiviso.

I paesi dell’Occidente, e tra questi in prima fila si trova l’Italia, dimostrano tutta la loro impazienza a riallacciare, alla luce del sole, i rapporti commerciali con Iran. Fremono e non vorrebbero aspettare che si concludano le trattative sul nucleare e la conseguente attenuazione delle sanzioni economiche.

Le speranze riposte nei 5 + 1, con la presenza notarile dell’Unione europea, per trovare il giusto compromesso tra le paure che un nucleare civile si trasformi in bellico e le ambizioni per uno sviluppo industriale di un Iran ricco d’idrocarburi appaiono ben riposte con la firma a Ginevra nella notte del 23 novembre tra le parti.

Con l’attenuarsi delle minacce reciproche e l’apertura alla diplomazia ha permesso, con molte diffidenze, dare un’opportunità alla civile convivenza con la messa in prova di sei mesi.

02 OlO Europa Davanti al nucleare iraniano raggiunto primo accordo