La Disney, sempre attenta al vento che tira, ha deciso di eliminare i nani dalla prossima riedizione di Biancaneve, i quali saranno sostituiti da una folla di esseri mitologici e fantastici, si suppone scelti in base al Manuale Cencelli del politically correct. Questo mentre in Sud America le chiese evangeliche e pentecostali non gradiscono il film Barbie perché troppo inclusivo con i LGBTQ+ e altre forme di modernità sociale. Inutile chiedersi se quello che va bene a Los Angeles possa esser assorbito allo stesso modo in Brasile o in Italia: il mondo non cammina in sincrono. Piuttosto, voglio difendere i nani e il loro apporto alla creatività. A differenza di altri “diversi”, ai nani è stato sempre data la possibilità di esprimersi, anche se in un contesto grottesco, distopico. Nel circo equestre il nano ha un proprio spazio creativo, pur se egli è accettato come “monstrum”, campione di bizzarria della natura. E’ un nano l’egiziano Bes, visibile a Roma nella Porta Magica di Piazza Vittorio. Sono assimilati ai nani i Pigmei degli affreschi pompeiani (anch’essi realmente esistenti, anche se non combattono contro le gru). E’ piena di nani la pittura del barocco spagnolo e italiano, da Bronzino al Guercino per arrivare a Goya quasi due secoli dopo. Ed è proprio nella cultura iberica che il nano resta un’immagine persistente, a metà tra arte e perversione. Il governo spagnolo ora vuole abolire la “corrida comica”, una corrida incruenta tra vitelli addestrati e nani vestiti da toreri, un vero residuato bellico del barocco. Ma i nani si sono opposti alla decisione del governo: con quello spettacolo popolare ci guadagnano bene e sono famosi. Anni fa ho visto un documentario in argomento e qualcosa c’è pure su Youtube: fa impressione la serietà con cui i nani entrano nella loro parte di toreri e allo stesso tempo ci si chiede che razza di pubblico paghi ancora il biglietto per questi arcaismi culturali.
E passiamo al cinema. I nani non sono solo macchiette o sono presenti nella pornografia come espressione di una sessualità distorta e perversa, ma sono stati anche protagonisti di un film d’autore. Sto parlando di un film di Werner Herzog, più estremo degli altri: Anche i nani hanno cominciato da piccoli. E’ un film del 1970 e il regista aveva solo 27 anni; fu presentato alla Quinzaine des Réalisateurs al 23º Festival di Cannes, in mezzo a feroci polemiche: tutti gli attori non professionisti erano nani e la vicenda si svolge in una sorta di colonia penale o microuniverso chiuso dove la rivolta fallisce e la ricaduta sugli altri è caratterizzata dalla violenza. Il film è interpretabile in vario modo: ribellione, fallimento politico, autodistruzione, ma dal canto suo Herzog non ha mai voluto dare un’interpretazione univoca al film, per lui la sceneggiatura di un film non è in alcun modo legato alla trattazione di un “tema” ma solamente alla narrazione di una storia. Una storia tuttora inquietante.
Sul politically correct e la cancel culture è difficile non accorgersi dello iato tra le ossessioni anglofone e un generalizzato scetticismo “latino”, forse perché noi cattolici siamo per formazione meno intolleranti e rigorosi. Diciamolo: alla voce Union of Equality il manualetto della Commissione europea per la compilazione dei documenti ufficiali non convince: evitare di nominare il Natale, ladies & gentlemen, colonizzazione, Maria e Giovanni e gli anziani per sostituire questi termini poco inclusivi (?) con un lessico piatto e apparentemente neutrale, in modo che i buddisti, i disabili, le minoranze (?) etniche e i Lgbtq+ non si sentano discriminati – o peggio – si possano offendere, alla fine suona come una discriminazione alla rovescia dove, per evitare gli attriti, chi ha un’identità maggioritaria (ma in realtà in declino) può essere accettato da una minoranza organizzata solo se rinuncia alla propria identità e si autoesclude dal confronto democratico. Anche se alle parole corrispondono le cose (Wittgenstein), ho già scritto che è improbabile che una regola linguistica possa essere decisa dall’alto degli scranni dei burocrati di Bruxelles o dall’èlite di un campus universitario americano, a meno che queste leggi non ratifichino reali cambiamenti nella società, stabilizzati nel tempo e permeati nelle varie classi sociali. E non si venga a dire che sono regole interne d’ufficio: chi le impone pensa in grande e vuole imporle anche agli altri. Noi italiani ci siamo già passati quando il Duce aveva imposto il divieto di usare parole francesi e inglesi, con risultati grotteschi quanto certi eccessi del politically correct. Questo non significa che una lingua non possa cambiare e che il suo uso non ratifichi o crei gerarchie, differenze e quant’altro: la lingua è lo specchio della società che ne fa uso per comunicare al suo interno e nelle relazioni con l’esterno, quindi è anche e sempre strumento di potere. Ma quando una cultura o una religione cercano di sopravvivere negandosi o facendo pubblica e sincera (?) confessione dei propri peccati, non è questa la soluzione. Ho citato le grandi religioni perché sono un classico esempio di organizzazioni mentali nate in altri tempi: laddove un’economia di sussistenza doveva mantenere costante una forza lavoro di pastori, agricoltori e guerrieri non c’era posto per aborto, omosessualità e libertà della donna, per cui trovo patetici gli sforzi di alcuni teologi di dimostrare – Bibbia o Corano alla mano – che Dio in fondo ama i gay e che Sodoma è stata distrutta da un meteorite (forse è vero, ndr.). Ma in una società moderna e secolarizzata un’istituzione antica ha solo due scelte: sopravvivere o aggiornarsi allo spirito dei tempi, allo Zeit Geist. Ma quanto può cambiare senza negare se stessa e sparire comunque per mancanza di identità? La questione è aperta e non riguarda solo la sfera religiosa, ma anche quella delle istituzioni civili: scuola, esercito, matrimonio, magistratura…
Woke è un termine che si riferisce alla consapevolezza di questioni che riguardano la giustizia sociale e la giustizia razziale. A volte è usato nell’espressione inglese vernacolare afroamericana “stay woke”.
Le dure polemiche che stanno scuotendo la cultura universitaria americana e in Europa quella francese, olandese, belga e inglese finora sembrano non toccare le nostre università: da noi ancora si discute sulle guerre del fascismo, come se il dibattito fosse ancora fermo alla linea del 25 aprile (1). Questo ritardo culturale non è strano: in Italia le novità arrivano sempre dall’America o dalla Francia, e può darsi che sia solo questione di tempo: nel ’68 gli effetti del maggio francese smossero i nostri atenei con qualche mese di ritardo. In più, le condizioni della cultura italiana sono diverse: non abbiamo il razzismo come problema endemico; non abbiamo ancora grandi comunità islamiche “assertive”; né abbiamo avuto decolonizzazione perché nel ’43 le colonie le abbiamo perse da un giorno all’altro e da quel momento quella storia non ci riguardava più. Inoltre, le nuove minoranze etniche o le comunità Lgbt ancora non hanno raggiunto una massa critica tale da scalare il potere negli atenei e nei posti chiave dei mass media e dell’editoria. Perché di lotta per il potere si tratta: l’università è il luogo dove bene o male si seleziona la futura classe dirigente e si elabora la cultura del Potere. Come insegna proprio il ’68, nell’arco di due decenni è possibile occupare i posti di potere nel giornalismo, nell’editoria, nei telegiornali e naturalmente nell’università. Alla fine, mutatis mutandis, sono semplicemente i giovani che scalzano i vecchi. Ma chi sono oggi gli studenti? E cosa sono gli atenei?
La situazione dell’università è cambiata nel tempo soprattutto per l’attuale natura dei finanziamenti: a meno che a investire negli atenei non siano le industrie private in funzione della ricerca (a loro funzionale, ovvio), nelle università private i finanziamenti sono strettamente legati alle rette degli studenti, mentre in quelle pubbliche al loro numero. Sono fattori analoghi ma convergono su un punto: gli studenti condizionano la natura dei corsi universitari in maniera molto maggiore che nel secolo scorso. Da qui anche un certo conformismo del corpo accademico: corsi e contratti vengono rinnovati se hanno un numero sufficiente di studenti. Quando mi sono laureato io in Lettere (1976), alcune tesi in archeologia venivano date solo a chi sapeva leggere il tedesco, mentre oggi non è richiesto più neanche l’esame scritto di latino: la facoltà perderebbe studenti, né la scuola secondaria li aveva preparati come una volta. C’è poi talvolta un curioso conformismo dell’anticonformismo: una teoria radicale se non addirittura strampalata può attirare più studenti di un corso “normale”. Anche se qualificato, devi essere “cool”, “fico”. Ricordo ancora la tesi di un accademico straniero, che per anni si è fatto un nome attribuendo il declino e la caduta dell’Impero romano esclusivamente all’uso delle tubature di piombo. Quella che al massimo poteva essere una causa di inquinamento e fonte di malanni vari, per chi gestiva la cattedra era il proprio asso nella manica, riverberato in decine di articoli di riviste accademiche obbligate comunque a discuterne. Morale: se sei originale fino al paradosso, la tua carriera è assicurata. Ma questo avveniva in tempi normali. La novità è nella violenza con cui ora alcune idee vengono veicolate se non imposte, andando persino contro l’idea stessa di Università.
In realtà l’università americana punta di diamante della Cancel Culture è un po’ diversa dalle altre: nella Howard University di Washington si è formata la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris e tale ateneo è da molti anni la roccaforte degli afroamericani, una sorta di “Harvard nera”: è stata uno dei simboli della contestazione negli anni ’60 e del movimento per i diritti civili. Fra i suoi studenti più celebri, oltre alla vicepresidente Usa, il giudice della Corte Suprema Thurgood Marshall, l’ex ambasciatore Usa presso l’Onu Andrew Young, il deputato Elijah Cummings, il Premio Nobel Toni Morrison, l’attore Isaiah Washington. È qui che si formano l’intellighenzia e la classe dirigente afroamericane. Niente di strano che l’ideologia del politically correct e della Cancel Culture prendesse qui una deriva radicale. E a farne le spese ora sono gli studi classici, pur presenti dal 1867: la Howard University ha deciso di dichiarare guerra ai classici della letteratura e della filosofia, che hanno il difetto di essere bianchi e quindi non abbastanza “inclusivi” e al passo coi tempi per le università – soprattutto statunitensi e anglosassoni – diventate la culla del politically correct. Il Dipartimento di studi classici verrà smantellato per creare “priorità diverse” nei piani di studi degli studenti e i professori di ‘classics’ verranno spostati in altri dipartimenti, dove i loro corsi potranno ancora essere insegnati (immaginiamo come). Ma già la Princeton University attraverso Dan-el Padilla Peralta, professore associato di classici, aveva spiegato al New York Times, insieme ad altri accademici progressisti, che i classici dovrebbero un giorno essere rimossi dai programmi universitari in quanto sono così “invischiati nella supremazia bianca da essere inseparabili da essa”. Peralta (aspirante suicida?) va oltre e afferma che gli studi classici sono ostili alle minoranze. “Se si volesse pensare a una disciplina i cui organi istituzionali fossero esplicitamente volti a disconoscere lo status legittimo degli studiosi del colore”, ha detto al New York Times, “non si potrebbe fare di meglio di ciò che hanno fatto i classici”. Non va meglio nel regno Unito, dove nelle scorse settimane l’Università di Leicester ha annunciato l’intenzione di accantonare Geoffrey Chaucer – il Boccaccio inglese – a favore di modelli sostitutivi che rispettino di più razza e genere. L’università giustifica tale scelta con l’esigenza di modernizzare i piani di studio rendendoli più adeguati alla sensibilità e alle prospettive degli studenti di letteratura inglese. I quali si suppone provengano ormai da estrazioni sociali ed etniche diverse, altrimenti non si capirebbe questo senso di estraneità verso una cultura superiore, tale da rasentare il delirio e il fascismo mascherato. Quando poi veniamo a sapere che la curatrice del museo della scrittrice Jane Austen deve preoccuparsi di giustificare l’uso del tè e di altri generi ”coloniali” da parte di una scrittrice vissuta due secoli fa, allora chiediamoci piuttosto se la raccolta dei pomodori nel Cilento non sia un esempio di neoschiavismo. Sicuramente gli antichi Romani erano imperialisti: la parola stessa “Imperium” è latina. Ma il “cultural heritage” comprende anche il Diritto Romano. E poi, davvero Russia e Cina non perseguono dopo duemila anni obiettivi simili a quelli dei Romani e con mezzi altrettanto discutibili sul piano morale? Per fortuna, da noi l’espulsione della cultura e delle lingue classiche dall’istruzione superiore sancirà al massimo il consolidamento definitivo del Liceo Statale Semplificato (LSS), obiettivo perseguito per anni da certa pedagogia. Ma bisogna comunque tenere gli occhi ben aperti: imitare costa meno che creare e noi italiani sappiamo sempre adattarci.
Quello che piuttosto sorprende è la timida risposta a questo modo di vedere il mondo. Pur di non perdere il posto per motivi da noi ancora considerati illegali, troppi giornalisti e accademici hanno fatto un auto-da-fé che ricorda le confessioni spontanee dei tempi di Stalin. Noam Chomsky – ormai un vegliardo ma pur sempre combattivo e soprattutto grande analista del Potere e del suo linguaggio – ha invece risposto a tono: il movimento nato per fare i conti col passato si è avvitato in se stesso diventando motivo di divisione tra generazioni (3). La lettera aperta è stata firmata da altri 150 intellettuali americani, tutti comunque di una certa età. Ma c’è anche chi semplicemente si è adeguato allo Zeitgeist, lo spirito del tempo: alcune ditte inglesi curano a pagamento i profili dei clienti di fascia alta che vogliono ripulire il proprio curriculum o profilo Facebook con Spic&Span (2). Chi paga fino a 13.000 sterline vuole dunque difendersi in anticipo da qualsiasi accusa che possa distruggere da un giorno all’altro la sua carriera, il che mostra i nervi scoperti di una società spiazzata e insicura, ma anche troppo legata alla costruzione della propria immagine pubblica. Mi viene in mente la frase tipica della serie televisiva Perry Mason: “Ricordi che ogni parola che dice potrà essere usata contro di lei”.
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