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Il pittore che dipingeva con frutta, fiori, animali

Giuseppe Arcimboldi, più noto come Arcimboldo, nacque a Milano nel 1526, figlio del pittore Biagio che gli insegnò i primi rudimenti dell’arte e che poi con lui collaborò nel disegnare i cartoni di alcune vetrate del Duomo di Milano; nel 1558 preparò il cartone per un arazzo con la Dormizio Virginis nel Duomo di Como e l’anno successivo eseguì un affresco per il Duomo di Monza.

Nel 1562 entrò in contatto con alcuni membri della famiglia Asburgo che governava il Sacro Romano Impero e su sollecitazione di Massimiliano II si trasferì a Vienna; in breve raggiunse una tale fama da essere ben presto nominato pittore di corte. Questa qualifica comportava non solo dipingere per la famiglia imperiale e la corte ma anche interessarsi di altre incombenze quali occuparsi come regista, sceneggiatore e scenografo dei numerosi eventi, matrimoni, battesimi, funerali ed altre occasioni, molto frequenti nelle Corti Europee. Erano spettacoli allestiti con materiali effimeri ma dovevamo mostrare con esposizione di lusso e grandiosità la potenza e la ricchezza della famiglia committente. Pur con qualche soggiorno a Milano l’Arcimboldo restò sempre legato alla Corte di Vienna ed ancora di più quando divenne imperatore Rodofo II che spostò la sua capitale a Praga. Rodolfo era un intellettuale con grandi curiosità, si dilettava di alchimia e di negromanzia e si era circondato da sapienti di ogni tipo tra cui spiccava il nostro Arcimboldo.

Una moda dell’epoca presso molte corti e famiglie ricche era  adattare degli ambienti a WunderKammer (Camera delle Meraviglie) dove venivano raccolte opere d’ogni genere, dipinti e statue simboliche, bronzetti antichi, monete, reperti provenienti dalle Americhe e dalle Indie, animali esotici, denti di narvalo, spade di pesci spada nonché numerosi oggetti di lusso creati da valenti artigiani utilizzando in parte metalli preziosi e in parte uova di struzzo, carapaci di tartaruga, marmi e pietre rare unendoli in complessi dall’aspetto strano, ricercato, suggestivo. In questo mondo Arcimboldo si trovò a suo agio ed essendo pittore si diede a dipingere quadri costituiti da fiori, frutta, animali, assemblati in modo da rendere l’immagine di una sorta di figura umana. Per gli Asburgo dipinse la serie delle Quattro Stagioni composte da verdure attinenti ad ogni singolo periodo e gli Elementi anch’essi variamenti costituiti. Le serie ebbero un grande successo e furono più volte ripetute e distribuite a vari committenti e spesso imitate da altri pittori.

Nel 1587 Arcimboldo tornò a Milano pur rimanendo pittore imperiale e a Rodolfo II fece pervenire due interessanti dipinti, la Flora e il Vertunno, questo quadro dovrebbe rappresentare, con frutta e verdura, l’Imperatore Massimiliano. Arcimboldo morì a Milano nel 1593.

La sua fama fu per alcuni anni grandissima poi, con l’apparire di nuove mode e scuole di pittura, fu dimenticato o ricordato solo per gli aspetti curiosi della sua arte. Fu riscoperto negli anni Trenta del ‘900 da Dadaisti e Surrealisti e da allora negli ultimi anni si sono susseguite mostre e studi per meglio far conoscere l’opera dell’artista. L’ultima è stata organizzata dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Palazzo Barberini nei suoi locali al piano terreno; ospita un centinaio di pezzi, tra cui pochi dell’Arcimboldo, suddivisi in sei sezioni introdotte da un autoritratto dell’artista. “L’Ambiente Milanese, e “A corte tra Vienna e Praga” esaminano sia con opere dell’autore che di suoi contemporanei e imitatori l’attività dell’Arcimboldo in questi periodi importanti della sua vita.

La terza sezione si rivolge al mondo fantastico e magico delle Wunderkammer esponendo numerosi oggetti curiosi e meravigliosi sia per qualità della materia che per la splendida lavorazione. “Le Teste Reversibili” sono nature morte visivamente ambigue; “Il bel composto” e “Pitture ridicole” mostrano alcune opere dell’artista che si diverte ad ingannare il visitatore con i suoi dipinti di fiori, frutti, animali, oggetti che presentano immagini che possono essere variamente interpretate. Una mostra inconsueta di un artista anomalo ed unico.

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Arcimboldo
Dal 20 ottobre 2017 all’11 febbraio 2018

Roma
Palazzo Barberini
via delle Quattro Fontane, 13

Informazioni:
tel. 06/4824184

Orario:
da martedì a domenica
dalle 9.00 alle 19.00

catalogo:
Skira editore

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Bentornato Gian Lorenzo

Per festeggiare il restauro, durato parecchi anni, della Galleria Borghese vi fu organizzata, nel 1998, una mostra dal titolo “Bernini scultore. La nascita del barocco in casa Borghese” che esaminava l’opera del grande artista nei primi decenni del ‘600 e i rapporti con Papa Paolo V e la sua famiglia. Ora per ricordare il ventennale della riapertura della Galleria il Cavalier Bernino è di nuovo ospite del Cardinale Scipione nella sua splendida villa ed è presente con quasi ottanta opere, sculture, dipinti, bozzetti, modelli lignei architettonici.

Nonostante il Bernini sia uno degli artisti più conosciuti e studiati le mostre sono occasione di nuove conoscenze e scoperte; nel nostro caso si sono avute due nuove attribuzioni, accanto al busto del “Salvator Mundi” ora in un museo di Norfolk è stata identificata un’altra scultura praticamente identica  nella chiesa di San Sebastiano fuori le Mura, i critici, pur attribuendole ambedue al Bernini in quanto risulta nelle fonti una sua scultura per la Regina Cristina di Svezia, sono divisi nell’indicare quale sia la prima stesura; più chiara la situazione del “Cristo Crocefisso”, in bronzo dorato, commissionato dal Re di Spagna Filippo IV per il Palazzo dell’Escorial al quale fa riscontro un quasi identico, poco più grande, “Cristo Crocefisso” pervenuto ad un museo di Toronto ed identificato come berniniano.

La lunga vita dell’artista e la sua attività si dispiegano nella mostra con una pressoché completa riunione delle sue opere mobili; sono presenti sculture della sua giovinezza quando lavorò, spesso in maniera quasi indistinguibile, con il padre Pietro, suo grande maestro, fino agli ultimi lavori dei tardi anni settanta del ‘600. È presente una raccolta dei suoi quadri, praticamente quasi tutti quelli a lui attribuiti, superstiti dei 48 che le fonti storiche sostengono abbia dipinto.

La mostra attraverso otto sezioni esamina l’opera dell’artista come scultore, pittore, uomo di teatro e scenografo e l’evolversi della sua arte attraverso il pontificato di ben nove papi che seppero utilizzarlo al meglio per arricchire la città di Roma, le sue chiese, i suoi palazzi; in particolare ebbe ottimi rapporti con Urbano VIII Barberini e con Alessandro VII Chigi.

La prima sezione “L’apprendistato con Pietro” esamina lo stretto rapporto con il padre attraverso varie statue lavorate in collaborazione; “La giovinezza e la nascita di un genere: i putti” mostra opere di un Bernini giovane che in maturità quasi rinnegò. La terza “I gruppi borghesiani” espone i grandi gruppi scultorei da secoli conservati nella Galleria, la quarta “Restauro dell’antico” prende in considerazione l’intervento dell’artista su statue romane più o meno mutile che i due Bernini restaurarono con grande abilità: il “Marco Curzio”, l’”Ermafrodito” e l’”Ares Ludovisi”.

Al primo piano su un grande bancone sono sistemati numerosi busti, gran parte in marmo e qualcuno in bronzo, scaglionati in un arco di più di quaranta anni, su una parete sono esposti dei ritratti, alcuni di Papi, e due autoritratti, uno giovanile ed uno maturo. La settima sezione è relativa alla grande statua equestre di Luigi XIV che Bernini scolpì ed inviò in Francia; non piacque al re che la fece modificare dallo scultore francese Girardon, attualmente si trova a Versailles: in mostra sono esposti il bozzetto in terracotta della statua ed un suo studio ad inchiostro ed acquarello.

L’ultima infine raccoglie un gran numero di bozzetti che mostrano la cura con la quale il Bernini preparava e formava i suoi capolavori. Particolarmente interessante all’ingresso la statua di Santa Bibiana, proveniente dall’omonima chiesa in Roma, che è stata restaurata in un mese a cantiere aperto con la collaborazione del Museum of the Bible di Washington.

La mostra è stata possibile grazie al contributo di Fendi che ha stipulato un accordo con la Galleria Borghese per una serie di iniziative culturali.

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Bernini scultore
La nascita del barocco in casa Borghese

Dal 1 novembre 12017 al 4 febbraio 2018

Galleria Borghese
piazzale Scipione Borghese 5
Roma

Orario:
da martedì a domenica
dalle 9 alle 19
ultimo ingresso ore 17

prenotazione obbligatoria
Euro 2,00

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Campo de’ Fiori: Errori di gioventù

Dopo tanti anni, rischiavo lo scandalo. Da giovane avevo scritto un romanzo molto trasgressivo, cercando di farlo pubblicare. All’epoca non c’erano ancora i blog, quindi facevo le fotocopie della stampata e le inviavo ai vari editori con una lettera d’accompagno. Mi firmavo con uno pseudonimo, allegando un indirizzo di comodo per il contatto. Poi mi sono fidanzato e in seguito ho messo su famiglia. Mai avevo parlato alla futura moglie della mia attività di scrittore notturno, né tantomeno querelai un editore che aveva nel frattempo pubblicato il mio manoscritto col nome di un altro. Fossi rimasto singolo, non ci avrei pensato due volte a passare alle vie legali, ma con una brava moglie non era il caso di alzare il sipario sul passato remoto. E’ vero che Foquet de Marseille, prima di diventare vescovo aveva da giovane scritto versi di amor cortese, ma nel suo ambiente erano considerati errori di gioventù su cui si sorvolava. Mia moglie invece sapeva al massimo che mi ero fatta qualche canna e che avevo avuto un paio di fidanzatine, ma se solo avesse ritenuto vero il 10% di quanto narravo in quel libro, sarebbe scappata. Ed ora il fulmine a ciel sereno: in una tesi di dottorato in storia della letteratura italiana degli anni ’70 un giovane studioso metteva seriamente in dubbio l’attribuzione all’autore di quel romanzo, diventato nel frattempo un best-seller, e la cosa era rimbalzata anche su Espresso e Panorama. Ineccepibili gli argomenti del giovane ricercatore: il romanzo era stato scritto da un romano e non da un bolognese, come si desumeva dall’analisi del testo: sintassi e lessico erano più vicini al romanesco che alle parlate emiliane, e alcune informazioni peraltro assai precise su luoghi e avvenimenti potevano invece esser state copiate da qualche fonte giornalistica. Fin qui niente di strano: lo fanno anche gli autori miliardari di best seller; solo che pagano chi lo fa per loro, mentre io ero invece solo un modesto artigiano. E da vero principiante, lasciavo tracce dappertutto, un po’ per sfida, ma anche per ingenuità. Facile sarebbe stato all’epoca risalire a me o almeno al mio ambiente attraverso una serie di dettagli assai precisi di cui si era ormai persa memoria, ma nessuno ci aveva pensato; del resto il romanzo era stato riscoperto dalla critica solo trent’anni dopo. E adesso, dopo tanto tempo, un ricercatore universitario ansioso di farsi notare riapriva il caso letterario.

Rilessi freneticamente il romanzo, di cui comunque tenevo ancora una copia da qualche parte. Non ci avrei dormito la notte, e a ragione. Se qualcuno avesse capito che di Roma si parlava, anzi di Campo de’ Fiori, il problema non era identificare chi all’epoca si portava a letto le studentesse americane dopo un paio di canne o mezzo litro di gin, o dove abitava la figlia del pittore cubano, o chi fosse la cicciona del mercato. C’era invece ben altro: la testimonianza di un omicidio archiviato. Nel romanzo si parlava di uno spacciatore che non era morto per overdose, ma per una dose intenzionalmente mortale. Chi spacciava all’epoca magari tagliava la roba da vendere con polvere di marmo o stricnina, ma per sé teneva eroina pura. Ma uno di loro doveva morire: aveva iniziato alla droga uno del mio palazzo e da un anno trovavo solo siringhe per le scale. Quando quel ragazzo con cui ero cresciuto insieme morì di overdose, tutti noi decidemmo di farla finita con loro. “Noi” eravamo gli altri giovani del palazzo, “loro” erano tutti quelli che continuamente salivano e scendevano le scale: tossici, spacciatori, ladruncoli, puttanelle varie, una fauna che impediva la vita normale agli altri a tutte le ore, notte compresa, tant’è vero che la sera staccavamo i citofoni. Ma quando il pusher morto finì sui giornali, ecco la sorpresa: lo stronzo che avevamo spedito all’inferno era figlio di un costruttore edile pugliese pieno di soldi e terre. Perché allora spacciava, pur non avendo bisogno di soldi? Forse per sentirsi potente e rispettato, o semplicemente per scoparsi tutte le ragazze che voleva, italiane o straniere che fossero. Ma quella notte fu tramortito per le scale con una spranga di ferro, solo per farsi iniettare in vena una pera, lui che non se ne era mai fatta una. Collasso cardiocircolatorio, così la relazione del medico legale. E la botta? Era caduto per le scale mal illuminate. Uno di meno. Questi i fatti di tanti anni prima. Ma se saltavano fuori testimonianze tardive – eravamo in gruppo – il caso si sarebbe arricchito di dettagli all’epoca ignoti. Ma del gruppo chi era rimasto? Dei tossici pochi, sicuramente erano tutti morti negli anni successivi, magari di epatite B o di Aids. E di noi? Tutti avevano da anni messo su famiglia e cambiato casa, ormai il Campo era troppo caro e incasinato. Testimoni capaci di parlare o interessati a farlo quindi non ve n’erano più. Ma nel romanzo si parlava anche di una polaroid scattata durante l’azione e conservata gelosamente da uno del gruppo. Se ne descrivevano anche i dettagli. Bei coglioni che eravamo! Ma era anche l’epoca in cui le BR si facevano la foto ricordo mentre sparavano al fratello di Peci e le prime coppie scoperecce compravano la polaroid per la rubrica “autoscatto” su Le Ore, quindi stavamo in buona compagnia. E poi, quella foto chissà che fine aveva fatto. E invece eccola che salta fuori. Non proprio quella, ma una molto simile. Una galleria d’arte ti presenta in esclusiva un’antologica di quartiere, “Scatti & Riscatti”, dove sono esposte foto in bianconero fatte negli anni Settanta e ritrovate qua e là, con qualche sconfinamento nel decennio dopo. Ingrandite, ecco tante immagini rigorosamente inedite che davano il quadro della vita sociale al Campo quando ero giovane. All’epoca i banchi del mercato erano almeno quattro volte quelli di adesso e ancora c’erano le stadère, abolite dagli euroscemi di Bruxelles. C’era la monumentale Marisona, pittoresca usuraia figlia di mignotta. C’erano sprazzi di cortei e manifestazioni dell’epoca. C’era Maria di Gaetano, la cassiera del cinema Farnese. C’era la sorella di Fabrizi, non la sora Lella ma l’altra, quella del banco prima del cinema Farnese. E poi le scene di bar: in una si riconosceva Cavallo Pazzo, al secolo Guido Appignani, artista e provocatore sempre ubriaco. Me lo ricordo benissimo quando era ospite di Eva, la madre di Toni lo Svedese, uno spacciatore in realtà finlandese. Ed ecco ora la foto che non volevo vedere: a un tavolino dell’Om Shanti, il bar che bucava i cucchiaini per non farseli fregare dai tossici, noi tre sediamo accanto alla vittima in atteggiamento cordiale. Questa era la prova che ci conoscevamo, mentre all’epoca noi tutti negavano di aver mai parlato con quel fetido individuo. Fottuti! Che fare a questo punto? Levar di mezzo la foto era improponibile, l’unica era sperare che nessuno la notasse o – peggio – ricollegasse uomini e cose.  Per ora i critici letterari stanno ancora litigando se quel mio libro sia ambientato a Roma o a Bologna e se l’autore sia ancora vivo. Qualcuno lo identifica con un noto giornalista ormai morto, altri con un funzionario di Polizia in pensione. Il dibattito è veramente interessante. L’importante è che non arrivino mai a Campo de’ Fiori.

 

Appunti artistici

Questa mostra indaga e documenta il permanere e l’evolversi della forma e dell’uso del piccolo e prezioso oggetto che siamo abituati a trovare esposto nelle teche dei musei a completare la conoscenza dell’opera di un artista, fornendone spesso una visione altra, più immediata, quotidiana, domestica ma nel contempo più approfondita e talvolta sorprendente. Gli artisti invitati ne propongono qui una versione attuale declinata in materiali diversi e con diverse modalità d’uso e destinazione, avendo altresì la possibilità di lavorare “a 4 mani” con un interlocutore reale o immaginario.

Nel corso dell’inaugurazione verrà presentato il 3° dei “Taccuini A4 mani” con cui lo Studio Leonardi “zu spät?” ha documentato le iniziative svoltesi nel corso del 2017, anno d’inizio della sua attività.

Gli Artisti presenti:

Bruno Aller, Anna Maria Angelucci, Carlo Ambrosoli, Rosetta Berardi, Luciano Benini Sforza, Claudia Bellocchi, Tomaso Binga, Michiel Blumenthal, Antonio Carbone, Giovanni Castaldi, Elettra Cipriani, Laura De Carli, Lucia Di Miceli, Gabriella Di Trani, Luigi Domenicucci, Marisa Facchinetti, Fernanda Fedi, Daniele Ferroni, Giovanni Fontana, Gianleonardo Latini, Silvana Leonardi, Mattia Morelli, Carlo Oberti, Beatrice Pasquet, Adriana Pignataro, Lamberto Pignotti, Maria Teresa Romitelli, Lucia Sapienza, Eugenia Serafini, Grazia Sernia, Ilia Tufano, Piero Varroni, Oriano Zampieri.

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Taccuini d’Artista
“Taccuini A4 mani”
Dal 14 ottobre al 4 novembre 2017

Studio Leonardi “zu spät?”
via Dandolo 30
Roma

Orario:
dal martedì al sabato
su appuntamento

Informazioni:
Tel. 349 6385848
studioleo.zuspaet@libero.it

a cura di Studio Leonardi “zu spät?”
presentazione di Francesco Muzzioli

Evento organizzato in occasione della
Giornata del Contemporaneo
promossa da AMACI

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Ricordando Idriss Bakay

Venerdì scorso, 23 settembre, nei locali dell’Art-caffè in via dei Coronari, si è voluto ricordare l’opera e la vita del pittore africano Idriss Bakay. Vita e opere purtroppo concluse troppo presto.

Idriss, pittore “rurale” per definizione acquisita, per istinto e per pura necessità espressiva dipingeva e ha dipinto in termini assolutamente elementari la realtà che ha vissuto, realtà fatta di povere necessità, faticosi raccolti continuamente in lotta con la siccità e la difficoltà alimentare.

In lui nessuna accortezza né furberia tecnica, nessuna presunzione intellettuale: solo la cruda necessità del vivere e la speranza, domani, per un mondo migliore. Il suo stile, se di stile si può parlare, è nell’immediatezza di raccontare e illustrare un mondo piccolo, semplice, così dipingeva come un bambino può tradurre nella sua sintesi fantastica il mondo che lo circonda.

Ingenuità, ma anche sincerità e integrità di un uomo in lotta con le privazioni, la fatica LMB Mostre Idriss a Roma IMG_20170925_130121dell’esistere in un mondo ostile, la malattia. In questa occasione si vuole ringraziare Massimo Gioia per la sua cortese disponibilità nell’ospitare la manifestazione che, oltretutto, è promossa dal collettivo Artisti Oltre Confine del MAGIS (opera missionaria gesuiti italiani), ricordando inoltre l’opera generosa e instancabile del padre gesuita Franco Martellozzo per il suo impegno missionario per gli orti e i pozzi comunitari nel Ciad nonché per le sue iniziative nel promuovere la diffusione per immagini pittoriche della realtà comunitaria nel territorio africano.

Si è voluto rendere così omaggio non tanto all’artista ma all’uomo, generoso, ostinato, coraggioso.

Questo è stato Idriss e nell’esporre le sue semplici tele alcuni artisti, romani e non, si sono ritrovati idealmente e concretamente ad esporre al suo fianco, sulle stesse pareti, con l’affetto e l’amicizia per chi come lui, oggi come oggi, è in lotta impari con questo mondo indifferente, incomprensibile nella sua superficialità.

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Idriss Bakay
Un Artista rurale
Prorogata sino al 14 ottobre 2017

nell’Art Gallery Bar
di Massimo Gioia
in via dei Coronari, 85
Roma

Organizzata da Gianleonardo Latini per Magis

Vernissage alle ore 18.00 del 23 settembre 2017

Oltre alle opere di Idriss Bakay cono presenti i lavori di: Claudia Bellocchi, Luigi M. Bruno, Giorgio Fiume, Venera Finocchiaro, Gianleonardo Latini, Janine Claudia Nizza

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http://www.ex-art.it/opere_solidali/adottare_la_cultura/bakay_idriss/bakay_idriss.htm

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Per maggiori informazioni
Fondazione Magis
Tel. 06.69700327
Cell. 339.6656075
Email. segreteria@magisitalia.org

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Ciad. Le opere di Idriss Bakay continuano a parlare con la voce della solidarietà

Italia. A Roma, l’arte di Idriss Bakay diventa solidale

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