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Una piccola avventura

Roma. Città antica di inenarrabili glorie. Archi di trionfo, teatri, circhi, templi. E poi lo scorrere dei secoli nell’alternarsi di novità e rinnovamenti: paleocristiano, romanico, gotico, bizantino e poi il succedersi luminoso della Rinascita, e il Manierismo, i tormenti del Barocco, il Seicento, il Settecento, fino ai rifacimenti dell’ altro ieri, dal Liberty al Razionalismo. E ogni volta l’antica e nobile Signora a rifarsi il trucco, accogliere generosa le nuove rivoluzioni, e di buon grado rifarle sue e farsene ornamento. Questa città non è certo la più antica del mondo ma è certo la più ricca in sé di stili, motivi, gusti, tendenze, in cui tutte le civiltà o mistiche o guerriere o barbare o raffinate, han portato i ricchi doni delle loro tradizioni, ogni volta accettate e fatte proprie dall’universale metropoli. Stile antico che si rifà ai tempi dell’Impero in cui razze, tradizioni, fedi, si inurbavano comodamente nell’esaltazione cosmopolita dell’Alma Mater. Ma forse più commuove e affascina, lasciati i trionfi e le glorie scoprire nei vicoli nascosti, nelle dimenticate penombre, nelle pieghe trascurate dal rumoroso e superficiale turista, i frammenti, le tracce che chi ama questa città va amorosamente indagando.

Porticine misteriose murate e quasi invisibili nel corpo delle maestose mura Aureliane, o fontanelle ormai mute, sorelle minori delle pompose scenografie acquatiche, o teste di sconosciuti senatori o condottieri ridotti a far da silenziosi custodi negli angoli bùi, come a mendicare perdute nobiltà. Così chi si allontana per un tratto dalla trafficatissima Porta Pinciana e si dirige, seguendo all’interno le mura verso piazza Fiume, s’imbatte tra anditi e architravi inglobati nel laterizio, nella discreta fontanella detta “Fons Ludovisia” come detta l’inciso della pietra: tre rustiche lesene a far da corona allo sgocciolare della semplice cannella e una rudimentale vaschetta in cui s’accoglie la nobile Acqua Marcia. Essa fu posta là a decorare uno dei primi squarci del tratto murario, necessità della nuova città e del nuovo traffico, ma prima ancora, addossata alla cinta Aureliana, faceva parte scenografica della vasta e perduta villa Ludovisi, oggi scomparsa o ridotta e arretrata fino al limite di via Boncompagni. Alcuni frammenti marmorei la decorano modestamente se non fosse per l’architrave quasi pomposo addossato alla nicchia più antica. Quasi non vista, come discreta, muta testimone di un tempo remoto, di piccole glorie nell’accavallarsi senza tregua di innumerevoli stagioni, essa rimane a parlarci di questa straordinaria città in cui tutto si perde e si ritrova, in cui i fasti marmorei s’accompagnano al rude laterizio e al frammento sconosciuto. Più in là, in un nicchione, campeggia un busto enorme in stile alessandrino cioè somigliante all’iconografia del mitico condottiero macedone, o forse di un dimenticato generale romano (Ezio? Belisario?), anch’esso una volta a far da fondale glorioso della perduta villa Ludovisi.

Una piccola avventura, una affettuosa indagine, per chi ama cercar piccoli tesori nell’ esplorare l’infinita ricchezza che a tutti dispensa la Città delle Città

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L’edificio concepito da Cesare e realizzato da Augusto

I teatri romani, pur ricalcando nelle grandi linee i teatri greci, se ne distinsero per alcuni caratteri come l’ubicazione – principalmente nei centri urbani o immediatamente fuori le mura costituendo una funzione di raccordo nello spazio urbanizzato – ma anche per la necessità di essere progettati fin dall’inizio sia sotto l’aspetto architettonico sia tecnico-strutturale.

Il teatro romano si qualifica come un’architettura caratterizzata, dunque, sia da un’immagine di spazio interno spesso molto racchiuso in sé, sia da un’immagine esterna che è partecipe della scena urbana; la veste architettonica copre di conseguenza un ruolo di notevole importanza e la fastosità della decorazione diventa un modo per commisurarsi al prestigio della città. Si utilizzano marmi pregiati e graniti per i rivestimenti, si realizzano decine di statue per abbellire atri e deambulatori, si completano gli spazi esterni con giardini, fontane e portici; sulla scena si creano architetture bellissime, ricche di movimento e giochi di luce.

Per la ripartizione del pubblico si progettano una serie di percorsi, ambulacri e scale ricavati nello spazio sottostante la cavea e coordinati con la trama strutturale dell’edificio; questi percorsi fanno capo ai vomitoria (ingressi secondari) che davano accesso alla cavea stessa, oppure in alto a un portico anulare con colonne, costruito sulla sommità della cavea come elemento formale di conclusione dell’architettura.

Solitamente,per la distribuzione del pubblico, si realizzava anche un corridoio anulare a metà cavea unitamente a una serie di scale radiali che definivano i vari settori di posti.

La costruzione del Teatro di Marcello, iniziata nel 46 a.C. da Giulio Cesare, fu portata a termine dall’Imperatore Augusto che volle dedicare l’edificio al nipote Marco Claudio Marcello, figlio di Gaio Claudio Marcello e di Ottavia sorella di Augusto.

Nato nel 42 a.C. e sposo di Giulia figlia di Augusto nel 25 a.C., Marcello, che era nipote e genero dell’Imperatore e nel quale erano riposte le speranze della dinastia giulio-claudia, a soli 19 anni nel 21 a.C. muore in circostanze misteriose a Baia. Una statua d’oro fu posta nel teatro durante la fastosa cerimonia d’inaugurazione svoltasi secondo alcuni autori nel 13 a.C., secondo altri nell’11 a.C.. Restaurato sia da Vespasiano, sotto il quale fu completamente rifatta la scena che da Alessandro Severo, era probabilmente ancora in funzione nel V sec. d.C.

La ricostruzione planimetrica dell’edificio teatrale, del quale è ignoto il nome dell’architetto progettista, si completa con alcuni frammenti della Pianta Marmorea Severiana su uno dei quali – il frammento relativo al settore post scaenam – sono rappresentati 4 edifici di piccole dimensioni e d’incerta interpretazione per i quali si è proposta l’identificazione con il tempio della Pietà e il tempio di Diana, preceduti dalle rispettive are, che le fonti letterarie localizzano in questa zona, e che probabilmente furono demoliti da Giulio Cesare per recuperare lo spazio necessario alla costruzione del teatro.

La scelta del luogo non fu casuale perché l’edificio si eleva proprio nell’area che la tradizione secolare aveva consacrato alle rappresentazioni sceniche dove si trovava il Theatrum et proscenium ad Apollinem, la più antica cavea teatrale collocata in asse con il Tempio di Apollo Medico. Il Teatro di Marcello fu costruito nella zona che, secondo il riordinamento urbanistico di Roma operato dall’Imperatore Augusto, fu la regione IX, all’estremità orientale del Circo Flaminio tra il Campidoglio e il Tevere, oggi compreso tra Via del Teatro di Marcello, Piazza di Monte Savello, Via del Portico di Ottavia e Piazza Montanara. Sugli interventi edilizi che Augusto predispose nel settore meridionale del Campo Marzio siamo ampiamente documentati dalle fonti letterarie, le quali ricordano il restauro delle opere architettoniche esistenti e la costruzione di nuovi complessi monumentali. Va comunque rilevato che, durante il principato di Augusto (30 a.C. -14.C.), al di là dei programmi pianificati per la pianura tiberina,ci furono delle calamità naturali: si ricordano, di fatto, otto inondazioni del Tevere e nove incendi, nel periodo compreso tra il 31 a.C. e il 15 d.C., che resero necessario il finanziamento per vaste operazioni di restauro.

Nella programmazione topografica e urbanistica di quest’area si ritrovano i temi più diffusi della politica urbanistica augustea, le architetture per lo spettacolo: precisamente, nell’arco cronologico compreso tra il 29 a.C. e l’11 d.C., furono costruiti l’Anfiteatro di Statilio Tauro, il Teatro di Marcello e il Teatro di Balbo, monumenti con una forte incidenza sull’opinione delle masse cittadine, essendo promotori di vita sociale e urbana più controllabile in queste strutture accentrate.

Esempio grandioso di architettura romana per la perfezione delle forme e l’armonica composizione degli spazi, il Teatro di Marcello campeggia tra le moderne costruzioni dell’attuale situazione urbana circondata da un’area archeologica dove si possono osservare, in deposito sul prato, pregevoli gruppi lapidei che rievocano i fasti dell’epoca: sono resti di fregi che, a dispetto delle mutilazioni e dell’estraneità al contesto in cui sono collocati e dell’impossibilità a ricollocarli nella giusta posizione, si ammirano egualmente nella loro antica bellezza.

Dei tre teatri stabili del Campo Marzio meridionale, il Teatro di Marcello è il meglio conservato e l’unico ancora leggibile nella sua unità; innalzato su una grande platea di calcestruzzo sotto la quale una palificata di rovere comprimeva il terreno argilloso, fu costruito su tre ordini architettonici: dorico, ionico e corinzio.

Costituito da ambulacri semicircolari ai quali accedeva il pubblico attraverso gli ingressi, fu concepito come edificio a sé stante e realizzato secondo i dettami vitruviani con una cavea semicircolare divisa in settori, orchestra semicircolare, portico in alto a chiudere la cavea, la scena con le tre porte e fondali o trigoni. Si è calcolata una capienza di circa quattordicimila spettatori, un diametro di circa m. 150 e un’altezza probabile di m. 32.

La facciata esterna della cavea, realizzata in travertino, conserva parte del primo ordine dorico, con un ambulacro coperto da una volta a botte anulare, e parte del secondo ordine ionico con un ambulacro coperto da una serie di volte radiali.

Del terzo ordine non rimane nulla e incerta è la sua ricostruzione anche se, per il Fidenzoni, l’edificio teatrale doveva terminare con un attico chiuso decorato da paraste corinzie delle quali si sono ritrovate alcune parti. La scena era fiancheggiata da due sale, riconoscibili sulla planimetria Severiana: di quella disposta ad est sono ancora visibili un pilastro e una colonna.

Il deambulatorio interno e i muri radiali del teatro sono in opera quadrata di tufo per i primi dieci metri, mentre nella parte più interna fino all’unghia della cavea i muri radiali sono in opera cementizia con un rivestimento in reticolato di tufo; le parti interne degli ambulacri sono in laterizio e le volte sono realizzate in opera cementizia. Nel vano terminale del corridoio radiale di centro, l’intradosso della volta conserva ancora parte della decorazione figurata con stucchi bianchi ripartiti in tondi e ottagoni, inquadrabili cronologicamente all’età antonina; questa decorazione ha fatto pensare che potesse trattarsi o di un sacello dedicato ad una divinità fluviale o infera, oppure di un sacrario dedicato agli Dei Mani di Marcello.

Gli unici elementi decorativi della facciata erano delle maschere teatrali scolpite a tutto tondo  di enormi dimensioni, in marmo bianco prevalentemente lunense, recuperate in frammenti durante gli scavi degli anni Trenta. Esse riproducono in proporzioni molto maggiori del vero le maschere che gli attori indossavano durante le rappresentazioni sceniche, caratterizzate da tratti fortemente accentuati ed espressivi oltre che da una bocca smisurata che è il tratto più notevole della fisionomia della maschera antica.

Originariamente fissate alla chiave d’arco del primo e del secondo ordine dei fornici, mediante perni di ferro alcuni dei quali ancora in situ, dovevano essere ottantadue. L’esame e la ricomposizione dei frammenti consentono il riconoscimento di tre tipi scenici:

tragico, satiresco e comico; alcune di queste bellissime maschere monumentali dopo il restauro sono state collocate in esposizione permanente presso il secondo piano del Teatro Argentina, dove continuano a svolgere la loro funzione metaforica e decorativa, ma soprattutto ad affascinare.

Il significato simbolico e magico che la maschera comporta, allo stesso tempo agli occhi di chi l’indossa e di coloro che è destinata a impressionare, ne fa un oggetto essenzialmente adatto a tradurre (ma all’inizio a provocare) il sentimento di malessere e di commozione che risulta dalla manifestazione del soprannaturale e dall’ambiguità inerente a queste manifestazioni, tenuto conto che per gli Antichi il soprannaturale non è estraneo ed esteriore alla natura, ma la penetra intimamente” (Henri Jeanmaire).

La documentazione archeologica, i frammenti della Pianta Marmorea Severiana e alcuni disegni rinascimentali contribuiscono a ricostruire la pianta del Teatro di Marcello della quale vi sono due diverse ipotesi limitatamente al post scaenam: la maggior parte degli studiosi, sulla base di un frammento della planimetria Severiana ritiene che lo spazio posteriore alla scena fosse delimitato da un grande muro a esedra che proteggeva il retroscena dalle frequenti inondazioni del Tevere. Diversa  la ricostruzione planimetrica proposta dal Fidenzoni, per il quale il retroscena era chiuso a sud da un semplice muro.

Il Teatro di Marcello presenta una struttura chiara nella parte utilizzata fin dal X/XI secolo come fondamenta della roccaforte delle famiglie che si avvicendarono al dominio della zona circostante.

Secoli di abbandono sono quelli dell’età medievale: intorno all’anno 1000 la famiglia dei Pierleoni stabilì la propria dimora-castello sulle rovine del teatro e, nel XIV secolo, un esponente dei  Savelli subentrato ai Pierleoni eseguì i primi lavori di restauro che si concretizzarono, come ancora oggi si può vedere, con la trasformazione nel XVI secolo dell’antica dimora in palazzo residenziale a opera di Baldassarre Peruzzi che rispettò pienamente le strutture antiche.

Alla morte del principe Giulio Savelli, ultimo discendente della famiglia, il palazzo fu acquistato dalla famiglia Orsini che lo ampliò e restaurò. Negli anni Trenta il teatro, divenuto proprietà del Comune di Roma, che aveva acquistato dalla duchessa di Sermoneta la parte del piano terreno adibita a carbonaie e magazzini, fu liberato dalle costruzioni adiacenti e ne furono messe in luce le antiche strutture degli ambulacri, consentendo una buona lettura dell’edificio.

Contestualmente furono eseguiti il restauro ed il consolidamento delle strutture, risarcendo le murature antiche per lo più con lo stesso paramento in sottosquadro.

Le parti di stucco cadute furono ricollocate sulle volte, si ripristinarono i gradini dove erano conservate le impronte e le ricostruzioni di strutture di una certa mole con funzione portante furono eseguite in mattoni.

La Commissione Storia ed Arte Antica responsabile dei lavori di restauro e consolidamento del Teatro di Marcello aveva autorizzato la costruzione di tutte le murature necessarie, come le pareti, i pilastri e i sottarchi,approvando anche la realizzazione degli speroni, indispensabili per dare solidità al complesso del monumento e del Palazzo Orsini, ma il problema si pose per il grande contrafforte occidentale del teatro, composto di archi e pilastri e sul quale i componenti della Commissione di Storia ed Arte Antica erano in disaccordo. Fu approvato comunque il progetto dell’ingegnere Giovenale di utilizzare la pietra sperone di Montecompatri che rispondeva alle esigenze fondamentali  di stabilità più che al senso estetico, in quanto si utilizzava una pietra di colore scuro con sfumature giallo-verdastre del tutto estranea ai numerosi materiali utilizzati nel teatro e nei monumenti adiacenti.

 01 Teatro di Marcello Maschera decorativa 01 Teatro di Marcello

Campagna per una guida responsabile dei conducenti dei mezzi pubblici

Decalogo del trasporto pubblico comporta l’educazione di ogni persona coinvolta nel viaggio e renderlo gradevole

1 La guida deve essere un momento di condivisione del tempo e del tragitto piacevole

2 La guida consapevole è responsabilità dell’incolumità di numerosi nostri simili

3 La guida consapevole non trasforma il mezzo pubblico in carro bestiame

4 La guida consapevole non deve prevedere partenze repentine

5 La guida consapevole non deve prevedere frenate brusche

6 La guida consapevole significa non rappresentare un pericolo per se e gli altri

7 La guida consapevole esclude la prepotenza nell’imporre la propria presenza sulle strade

8 La guida consapevole prevedere un comportamento altruistico

9 Una guida consapevole comporta la collaborazione anche del passeggero

10 Una guida consapevole è possibile grazie al comportamento corretto anche di ogni passeggero

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Lambando (e traballando) sul bus

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 Tram 8 L'OTTO NON SOLO UN TRAM web

Lambando (e traballando) sul bus

C’erano una volta, a Roma e non solo, mezzi pubblici spartani e rumorosi, ma anche quelli che usavano l’elettricità sferragliavano allegramente, con panche di legno o sedili in formica e plastica.

Al mattino non era difficile trovare quei mezzi ancora bagnati per l’energico trattamento di pulizia coi vetri che brillavano ai primi raggi del sole.

In quei lontani anni non sarebbe stata necessaria l’estrema cautela con la quale oggi si tende a prendere posto sui sedili, non rischiando di impataccarsi con sospetti untumi spalmati ovunque.

Oggi i glutei trovano la morbidezza delle poltrone ben imbottite, ma polverose e con un tessuto che non ha la consistenza per sopportare l’irruenza dei nostri giorni. I bus sono più veloci,ma dove mai può correre un tale mezzo nel traffico cittadino con una ripresa degna di essere utilizzata per scattare in pole position? Forse sono un ottimo test per mettere alla prova di tali improvvise sollecitazioni gambe e braccia di noi passeggeri. In fondo gli anziani dovrebbero essere grati di poter viaggiare, anche gratuitamente,su mezzi pubblici così tecnologicamente avanzati, non solo adatti per trasportarli da un luogo all’altro, ma anche per l’attività ginnica alla quale vengono forzatamente sottoposti.

Cosa c’è di meglio contro l’artrosi delle mani di un continuo, disperato articolare delle dita intorno agli appositi sostegni?

Un continuo accelera e frena, un’inutile esibizione di potenza di un motore Mercedes, ma forse un mezzo di trasporto pubblico dovrebbe avere delle caratteristiche diverse da un’auto di formula uno!

Del resto non tutti i conducenti esprimono le loro frustrate ambizioni da pilota sportivo in grugniti con il prossimo o tanto veloci e distratti da saltare una fermata o di abbreviare drasticamente la sosta. Altri autisti sono pazienti e cortesi, fanno scivolare il mezzo senza sobbalzi evitando le mille buche del flipper stradale, guidando con leggerezza i bestioni che trasportano l’umana varietà.

Esperti nello zigzagare tra le distrazioni del vigile che pure non coglie gli inverosimili parcheggi in doppia e tripla fila, essi portano alla sospirata destinazione migliaia di utenti soddisfatti, passeggeri che una volta tanto non trovano la necessità di esibire la loro atleticità nel rimanere saldamente avvinghiati ai sostegni di fortuna o in forbiti soliloqui di sopravvivenza urbana.

Perciò niente “pole dance” sui pali del bus e del tram, e più che “lambate” dei valzer, per giungere senza scossoni alla meta.

Solo Marinetti avrebbe potuto dare un senso poetico al turbinoso condurre del mezzo pubblico, ma si sarebbe arreso davanti allo sconfortante spettacolo del lerciume.

Il mezzo pubblico pulito e con un’armoniosa guida è uno dei migliori biglietti da visita per il turismo. Quale tristezza e pena vedere dei sedili che nella loro sporcizia perdono l’imbottitura non trascurando l’odiosa difficoltà di vedere malamente attraverso i finestrini per la ragnatela intollerante delle sovrapposizioni pubblicitarie.

Tra il contrastare la legge di gravità e rendere possibile la compenetrazione dei corpi, sul viso dell’utente il più sereno, il più distinto, il più serafico, almeno una volta è apparsa la mefistofelica espressione d’intolleranza verso gli inopportuni zainetti portati a spalla con estrema disinvoltura e sbatacchiati a destra e a sinistra senza rispetto per l’altrui scomodità.

L’amabile utente, in questo caso, vorrebbe trasformarsi nel tagliuzzatore mascherato, impugnando affilate forbici e tranciando senza rimorso le cinghie degli zaini per sentirsi di nuovo libero di respirare, non più urtato dagli inopportuni ingombri, e gioire finalmente nel veder rotolare in terra il lurido e maleducato sacco.

Stranamente sono molti i proprietari di zaini che ignorano la utile funzione della morbida e opportuna cinghia posta alla sommità del sacco. E infine, il decoro urbano non è solo il centro storico decontaminato dagli interventi graffiti sui muri, ma sopratutto l’efficienza dei mezzi pubblici puliti per passeggeri sollevati e sorridenti, con posti a sedere che non assomiglino ai logori inginocchiatoi delle antiche chiese per alleviare il disagio delle rotule degli anziani in preghiera.

Una nota piacevole la visione delle recenti pensiline con le loro candide linee, molto più indicate delle tonalità di rosso cupo del logo capitolino.

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 Decalogo

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Il Museo del nulla

L’ultimo capitolo della sofferta e contorta storia del Museo della Civiltà Romana prevede ora la chiusura al pubblico della struttura, con l’eccezione del Planetario, del Plastico e di alcune sale storiche. Già era stato dichiarato inagibile il lungo sottopasso che unisce i due corpi di fabbrica principali, che ospita al piano superiore il calco della Colonna Traiana commissionato da Napoleone III e in quello inferiore il magazzino dei plastici non esposti. In sostanza, l’enorme museo è stato dichiarato inagibile. A farne le spese saranno non solo i visitatori (d’inverno non molti, scuole a parte), ma anche l’ufficio dell’Antiquarium comunale, istituzione perennemente senza pace. Il problema non è nuovo, ma strutturale: si tratta di edifici costruiti praticamente in tempo di guerra, con materiali scadenti – soprattutto il tondino del cemento armato – e già alcuni anni fa furono coibentati e rifatti i lucernai. Costoso è sempre stato il riscaldamento delle sale, visti i soffitti di venti metri e l’ampiezza dei vani, mentre basso è sempre stato il numero dei visitatori, scuole a parte. Purtroppo l’EUR non è centrale e il trasporto pubblico ferma a diverse centinaia di metri dall’ingresso del museo. In più, il turista medio si ferma a Roma una media di tre giorni, cinque al massimo, e già ha tanto da vedere in città, anche se spesso chi ammira il grande plastico del Museo continua poi per Ostia antica. Opportuno sarebbe organizzare un servizio di navette dagli alberghi e inserire l’architettura dell’EUR nel giro del turismo di massa. Ma va detto per dovere di cronaca che il sovraintendente della giunta Alemanno, Umberto Broccoli, aveva progettato lo smantellamento del museo e il trasferimento di parte delle sue collezioni nell’erigendo Museo della città di Roma nell’edificio della ex Pantanella a via dei Cerchi, all’epoca occupato dal Servizio elettorale, dai Servizi demografici e dal laboratorio di scenografia del Teatro dell’Opera, ed ora rioccupato dal Dipartimento del Commercio (1). Ma sarebbe più esatto dire: si voleva riportare il Museo dov’era originariamente. Ma andiamo per ordine.

La storia inizia nel lontano1911, quando a Roma si tenne la grande Esposizione per i 50 anni di Roma capitale. In quel contesto, alle Terme di Diocleziano, curata da Rodolfo Lanciani, venne organizzata una mostra dedicata alle province dell’Impero romano, con calchi provenienti da tutte le parti d’Europa, Asia e Africa. Tutto questo materiale fu poi acquistato dal Comune di Roma e Quirino Giglioli ne fece sotto la sua direzione un museo permanente, il Museo dell’Impero Romano, dapprima ospitato nei modesti spazi dell’ex convento di Sant’Ambrogio alla Massima (dietro al portico di Ottavia); successivamente nel 1927 nel corpo di fabbrica dismesso dalla Pantanella, in quel complesso edilizio addossato a Santa Maria in Cosmedin che ora ospita vari servizi del Comune di Roma. Per la cronaca, sul frontone dell’Ufficio elettorale c’è ancora scritto inciso e ben leggibile “Palazzo dei Musei”. Ma la chiave di volta la diede la Mostra Augustea della Romanità, proposta dallo stesso Giglioli a Mussolini e tenuta nel 1937 a Palazzo delle Esposizioni, senza badare a spese e con l’apporto di molte istituzioni straniere. Stavolta il fine propagandistico non era quello di valorizzare il contributo e il consenso di tutte le province verso il progetto politico unitario italiano, ma quello di esaltare la Romanità e l’Impero attraverso la figura di Augusto, di cui ricorreva il bimillenario. Questa mostra ebbe un successo enorme: un milione di visitatori in un anno, che per l’epoca non era poco. Ne restano il catalogo ufficiale e l’archivio. E’ evidente una forte impronta ideologica nell’allestimento, ma è anche sorprendente la quantità e qualità del materiale esposto: modellini, calchi, ricostruzioni persino in scala 1:1. Grandi attrazioni erano anche l’enorme plastico di Roma imperiale creato dal Gismondi e il calco completo della Colonna Traiana, preesistenti alla mostra. Molti originali, se non sono andati perduti, sono nel migliore dei casi in posti poco accessibili, come la Cirenaica o l’Anatolia. Anche questa volta il materiale fu acquisito per dono o per commercio dal Comune di Roma (all’epoca, dal Governatorato) per essere stabilizzato in un grande Museo dell’Impero. L’occasione sarebbe stato il reimpiego del bel complesso architettonico creato dall’architetto Pietro Aschieri e finanziato da Umberto Agnelli per l’E42, allo scopo di esporre ovviamente le automobili e gli autocarri prodotti dalla FIAT. Ma l’Esposizione non fu mai inaugurata a causa della guerra e gli edifici furono ereditati dall’attuale Ente EUR. Solo successivamente, negli anni ’50 del secolo scorso, l’Impero essendo ormai un lontano ricordo di un sogno infranto, il museo apre timidamente i battenti, inizialmente sotto la direzione di Carlo Pietrangeli. E’ interessante leggere una pubblicazione da lui firmata nel dopoguerra (2): si evita qualsiasi riferimento alla Romanità e si parla genericamente di civiltà latina. In sostanza il sovraintendente deve adottare un figlio non suo e cerca di rimanere nel generico. In questo modo nel 1954 (ri)apre il museo, pallido ritratto di se stesso, scenografia di un film mai girato, e sopravvive per i successivi sessant’anni col nome di Museo della Civiltà Romana, abbreviato MCR.

Per chi ci ha lavorato, quella del MCR è stata un’esperienza particolare. A vederlo da fuori, il museo è bellissimo e le sue possenti mura e il colonnato si sono spesso visti nelle sfilate di moda e soprattutto in molti film ambientati nell’antichità classica e mitologica, i c.d. film peplum. Si risparmiava in tal modo sulle scenografie, con effetti tutt’altro che disprezzabili. Ma a parte il plastico del Gismondi (sempre pieno di polvere), per anni tutto il resto del materiale esposto sembrava non avere una strutturazione precisa. Non esisteva fino a pochi anni fa una cartellonistica decente e le didascalie degli anni Trenta si mescolavano a quelle moderne, in confusione grafica e ideologica. Era difficile persino seguire un itinerario, visto che le sale si rincontravano a casaccio e la metà erano chiuse. Ma ancora oggi molti preziosi modellini d’epoca – ma quelli in magazzino sono quasi il doppio – non sono protetti da teche di plexiglas; il personale d’inverno soffre il freddo per l’ampiezza degli ambienti, difficilmente riscaldabili. Ricordo che nel 1993 per la mostra Militaria (SME) furono aperte tutte le sale dalla mattina alla sera sette giorni su sette, ma  l’Esercito ci prestò una cinquantina di soldati di leva. Non esiste una sala convegni perché nessuno ha mai pensato ad allestirne una, forse per l’ostilità dell’ente EUR che gestisce già il Centro Congressi ed è il reale proprietario della struttura del MCR, al quale il Comune di Roma paga un modesto affitto. In ogni caso la grande sala all’ingresso del museo è ormai occupata dal nuovo Planetario, redditizio corpo estraneo che sostituisce il vecchio planetario Zeiss alla Sala Ottagona delle Terme di Diocleziano e ha riqualificato comunque il museo. Ma pur con tutte queste iniziative, il museo non riesce a contare più di 12.000 presenze all’anno, per la maggior parte scuole, e per questo motivo l’appalto per la libreria andò deserto due volte. Attualmente la società Zètema gestisce due punti vendita (Roma antica e Astronomia), ma per la ristorazione chi non si accontenta del distributore automatico deve farsi 400 m. a piedi fino al bar più vicino. Niente male come accoglienza, anche se problemi simili li hanno tutti i grandi musei dell’EUR, ovvero il Pigorini e il Museo delle tradizioni popolari e quello dell’Alto Medioevo. Quello delle Poste è chiuso, quindi non fa testo.

Ma passiamo ora alla parte immersa dell’iceberg. Pochi sanno che i sotterranei (spettrali) sono pieni di plastici e calchi pieni di polvere, in quantità pari al materiale esposto. Aggiungo pure che nel Museo esiste una buona collezione di libri e riviste d’epoca, pubblicazioni destinate alla biblioteca del Museo dell’Impero e che solo ora si sta cercando di riordinare dopo sessanta anni di incuria. Impegnativa attività del Museo è invece la concessione ad altri musei o a editori e reti televisive dei calchi e delle foto del materiale esposto, immagini che, nei libri e riviste dove sono pubblicate, almeno ricreano una sorta di museo virtuale di continuo ricomposto, come abbiamo spesso visto nelle trasmissioni di Piero Angela. Altrimenti, una delle poche e ultime esposizioni in loco organizzata dal Museo fu quella di Traiano pochi anni fa, grazie alla dedizione di due funzionarie interne. Esposizione a costo zero, essendo stata organizzata esclusivamente con i materiali in magazzino, ma priva di seguito: Augusto quest’anno rimane fuori dal Museo.

Dunque, l’enorme spazio espositivo è sottoutilizzato; al che si dirà: quel museo costa troppo e rende poco. Ma non è un problema esclusivamente economico: il problema è ideologico. Investimenti a parte, almeno nel progetto iniziale il Museo dell’Impero Romano sarebbe stato perlomeno un buon Museo Fascista, ma privo di un’ideologia è diventato invece il Museo del Nulla, un esempio da manuale di de-significazione progressiva, di perdita di senso. Quel museo può sopravvivere solo con un’Idea forte, mentre la sua gestione è stata invece caratterizzata per anni da una costante mediocrità, fino a renderlo fino a non molti anni fa un Museo Zen. Ma per come si sono messe ora le cose, tanto vale ridare le chiavi all’Ente EUR e pensare seriamente a qualcos’altro. Ripeto: non è questione solo di fondi, ma di idee e della capacità di svilupparle. Finora però nessun progetto è riuscito ad andare oltre le buone intenzioni.

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Note:

(1)    Anche se il sovraintendente Broccoli non è riuscito a legare il suo nome a nessun progetto particolare, questo era almeno organico: si prevedeva di dedicare un piano per ogni era: Roma antica, Roma del Rinascimento e del Barocco, Roma moderna. Ma a parte il cambio di giunta in Campidoglio, la crisi economica avrebbe comunque smorzato l’ambizioso ma lungimirante progetto, che avrebbe ricollegato la documentazione della storia di Roma alla zona archeologica e ai Musei Capitolini, con un prevedibile afflusso di visitatori. Roma rimane l’unica capitale europea che non ha un museo della storia della città. Del progetto restano ormai solo le rassegne stampa:

http://archiviostorico.corriere.it/2007/aprile/19/Via_dei_Cerchi_addio_agli_co_10_070419010.shtml#

http://www.06blog.it/post/9911/nel-2011-i-lavori-per-il-museo-della-citta-di-roma-a-via-dei-cerchi-nelledificio-previsto-anche-un-hotel

(2) I Musei del comune di Roma dopo la seconda Guerra mondiale : A cura della ripartizione antichità e belle arti del comune di Roma . Roma, 1950

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