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Flat Tax aumenta le disparità: lo dimostra la Russia di Putin

 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

La flat tax, di cui tanto si parla in questa campagna elettorale, non è la parola magica per la giustizia fiscale del nostro paese. Anche se non è la cattiva parola da demonizzare tout court. I limiti e gli obblighi costituzionali non si possono ignorare. Nel caso, quindi, di una sua eventuale e deprecabile introduzione, sarà necessario individuare meccanismi di deducibilità che rendano effettivo il principio della progressività.

È doveroso prima di ogni decisione valutare quanto è accaduto e accade nei paesi in cui la flat tax è stata introdotta. Il caso emblematico ci sembra quello russo, dove le famiglie povere e quelle indigenti sono fortemente aumentate tanto da spingere le masse delle periferie urbane e i residenti nei territori rurali a chiedere di rivedere il sistema fiscale, introducendo forme di progressività nella tassazione.

In Russia, com’è noto, nel 2001 Putin, al suo primo mandato, introdusse la tassa fissa del 13% per tutti, ricchi e poveri, singoli e imprese, aziende produttive e società dubbie. Egli aveva raccolto un paese in ginocchio, devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporation e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998.

E quel che era più grave, c’era una generale sfiducia. Nessuno aveva fiducia nel rublo, nessuno pagava le tasse, o per corruzione o per indigenza. I cosiddetti oligarchi «spostavano» centinaia di miliardi di dollari a Londra o nei paradisi fiscali. Perciò la tassa del 13% servì anzitutto a riportare un certo ordine e un po’ di razionalità nel sistema economico. Fu il modo per garantire un minimo di stabilità politica e un minimo di entrate fiscali.

Pertanto il vero motore della ripresa russa, più che la flat tax, è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche, del petrolio e del gas, le cui riserve, insieme alle altre ricchezze naturali, sono enormi.

Per anni, la Russia ha incassato elevate fatture dalla vendita di crescenti quantità di risorse energetiche. Nel frattempo si è frenata in qualche modo sia la corruzione sia la fuga dei capitali. Si ricordi che in questi anni la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita di petrolio e gas ha garantito entrate davvero eccezionali. Tanto che nel 2008 il classico barile di petrolio ha toccato la vetta di 150 dollari!

L’andamento della diseguaglianza. Il 10 percento della popolazione arriva a detenere il 56 percento degli introiti nazionali per anno in India; in Canada, USA e Russia detiene circa il 45 percento degli introiti annui. Nei Paesi dell’Unione Europea la diseguaglianza è relativamente più contenuta.

Oggi, però, la Russia, come altri paesi, sta vivendo una crescente e pericolosa ineguaglianza economica e sociale. Soprattutto dopo le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio. C’è un recente studio del Credit Suisse in cui si dimostra come la Russia sia uno dei più «disuguali» paesi del mondo: il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza della nazione. L’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari.

Anche la situazione della tanto decantata Ungheria merita un’attenta disamina. Il paese, si ricordi, è entrato nell’Unione europea nel 2004 mantenendo però la sua moneta nazionale, il fiorino.

Con una popolazione di 10 milioni di persone, nel 2008 aveva un pil di 157 miliardi di dollari a prezzi correnti. A seguito della crisi globale, nel 2011 il prodotto interno scese a 140 miliardi e nel 2012 a 125.

Nell’ultimo periodo ci sono stati dei miglioramenti nell’economia magiara, trainata dalla piccola ripresa europea e soprattutto dall’attivismo industriale della vicina Germania.

Non sembra che l’introduzione della flat tax del 16%, avvenuta nell’anno 2001, abbia aiutato la ripresa e le crescita in Ungheria. Ciò che ha invece veramente aiutato Budapest a mantenere una certa stabilità sono stati gli aiuti rilevanti da parte dell’Unione europea e la sua partecipazione al mercato unico europeo.

Gli aiuti sono stati riconfermati anche recentemente: dal 2004 al 2020 l’Ungheria riceverà da Bruxelles sovvenzioni per complessivi 22 miliardi di euro, cioè oltre 3,5 miliardi l’anno. Sono soldi che provengono anche dall’Italia, nonostante la forsennata propaganda magiara anti euro e anti Unione europea.

Si ricordi che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Ue con ben 20 miliardi di euro e ne riceve 12. Gli 8 miliardi rappresentano il contributo netto dell’Italia. Se fossimo trattati come l’Ungheria dovremmo ricevere, in proporzione alla popolazione italiana che è 6 volte quella magiara, aiuti da Bruxelles per 22 miliardi di euro ogni anno. Altro che flat tax!

(Questo articolo è pubblicato in Italia Oggi del 16-02-2018)

Pubblicato il 17 febbraio 2018

su Frontiere

Articolo originale

 

I PPP (Paesi Parole Personaggi) del 2017

Secondo l’Economist è la Francia di Emmanuel Macron ad essere scelta come il paese del 2017. Con lo scegliere la Francia di Macron, con il suo movimento La République En Marche, il settimanale britannico mescola paese, parola e personaggio. Una Francia che ha superato il Bangladesh capace di accogliere 600.000 rohingya in fuga dall’esercito birmano, per non essere violentati e massacrati, o l’Argentina del presidente conservatore Mauricio Macri, forse per evitare polemiche sul drastico taglio alle spese “superflue” come sulle pensioni. Una “riforma” quella del sistema previdenziale, fiore all’occhiello dei governi Kirchner, che sta suscitando tante proteste nel paese, ma ritenuta necessaria dal presidente per sistemare la situazione finanziaria ed economica e sicuramente in linea con il credo liberale dell’Economist.

Un’altra istituzione britannica che si è adoperata nell’eleggere un simbolo del 2017 è l’Oxford Dictionaries, indicando come parola dell’anno “youthquake”, per sintetizzare il “cambiamento significativo culturale, politico o sociale, creato dall’azione dei giovani”. Uno “scuotimento”, un terremoto che resta difficile da percepire guardando una gran massa di individui con il naso incollato al display dei smartphone e tablet, il più delle volte per messaggiare o giocare e certamente non per cambiare il Mondo. In Europa sono la minoranza i giovani, in un continente che sta decisamente invecchiando, giovani che si dedicano ai cambiamenti e lo fanno lontano dai riflettori. Ma il più grande cambiamento che i britannici si possono aspettare potrà venire dal settantenne Jeremy Corbyn, come negli Stati uniti le speranze di rinnovamento erano state affidate a Bernie Sanders. Forse l’Oxford Dictionaries ha visto Macron in Francia o l’ascesa della destra austriaca del trentenne Sebastian Kurz come un positivo cambiamento.

Meglio la scelta del settimanale Time che ha designato “Persona dell’anno” le donne, le cosiddette “Silence Breakers”, che hanno rotto il silenzio sulle molestie sessuali nell’ambito lavorativo.

Interessante è la scelta fatta dal Courrier International sugli eventi del 2017 attraverso i cartoon mensili, partendo da gennaio con la strage di capodanno ad Istanbul con 39 persone uccise e 79 ferite per mano di un fanatico Daesh, per arrivare all’impossibilità per gli atleti russi di partecipare sotto la propria bandiera alle Olimpiadi, ma per partecipare individualmente dopo le accuse alle autorità sportive russe, da parte del Comitato Olimpico Internazionale (CIO), per aver coperto un sistema di doping istituzionalizzato, senza dimenticare l’ascesa all’Eliseo di Emanuel Macron.

In questo calendario degli eventi troviamo la svolta autoritaria del presidente turco Erdogan con lo stato d’emergenza instaurato dopo il colpo di stato fallito nel luglio 2016, che dopo purghe, arresti e restrizioni sull’informazione, è stata varata la riforma costituzionale, firmata a febbraio e convalidata dal referendum del 16 aprile, consentendo di concentrare tutti i poteri nelle mani del presidente, ma abbiamo la Brexit, la repressione in Venezuela e la proclamazione dell’indipendenza della Catalogna.

Mentre il settimanale cinese Beijing Review non si limita a celebrare le prodezze del presidente Xi Jinping con la nuova Via della Seta o il rapporto instaurato con il presidente statunitense Donald Trump e le sue varie scelte dalla migrazione al clima, ma sottolinea la sconfitta dell’Isis dichiarata dal governo iracheno, la crisi nella penisola coreana per i test balistici condotti dalla Repubblica democratica popolare di Corea, la Brexit, la verifica dell’esistenza delle onde gravitazionali, il boicottaggio diplomatico ed economico promosso dall’Arabia saudita alle spese del Qatar per i suoi migliorati rapporti con l’Iran. A concludere l’elenco dei 10 eventi rilevanti per il settimanale cinese sono le dimissioni del Presidente dello Zimbabwe Mugabe.

 

 

Trump: Un confuso retrogrado

Con la fine del primo Millennio si erano intravisti i primi sintomi di una geopolitica fatta di alleanze variabili, ma oggi, nel secondo Millennio, stanno scomparendo gli schieramenti, anche se spesso mettevano insieme improbabili “amici”, per far posto alla variabilità dei fronti e la velocizzazione di questo processo lo si deve in gran parte all’attuale presidente statunitense.

Le iniziali scelte isolazionistiche in politica estera e quelle poste a mettere in prima fila l’interesse per la sua “America” ha reso gli Stati uniti non più sinonimo potenza autorevole e in quanto tale ascoltata, ma di una nazione inaffidabile che offre ai suoi alleati, prima che amici, le occasioni per guardarsi intorno e allacciare nuovi e inverosimili legami non solo commerciali.

Trump, in poco tempo, si è inimicato i paesi mussulmani con le sue restrizioni migratorie, a gran parte degli europei non è simpatico e col pianeta Terra ha intrapreso una guerra senza quartiere con l’ archiviazione del “Clean Power Plan”, revocando il programma di tagli alle emissioni degli impianti a carbone, spalleggiato da Scott Pruitt, responsabile dell’agenzia federale Usa dell’ambiente (Epa), nell’abbandonare gli Accordi di Parigi, mettendo in discussione le prove del cambiamento climatico.

Più che un conservatore, il presidente di quelli che erano gli Stati uniti, è un retrogrado che potrà mettere al bando i libri sull’evoluzione e mettere in discussione tutta la scienza.

Il regnante saudita si reca a Mosca, dopo aver visto Erdogan a braccetto con Putin, non solo per interessi economici derivanti dai prezzo del petrolio, ma anche per definire lo scenario siriano e decidere l’esito del conflitto in Siria, lasciando per la seconda volta Trump fuori dai giochi mediorientali.

Quello che i sauditi e i turchi non riescono a sopportare dagli Stati uniti potrebbero tollerare dai russi, acquistando sistemi d’armamento che permetteranno ad Erdogan e a re Salman di avere degli arsenali misti russo-statunitensi, per poterli studiare e mettere a confronto.

Non è ben chiaro se Trump è più contrariato dal fatto che i turchi e i sauditi acquistino i sistemi di difesa aerea S-400 russi o dal fatto che i tre paesi lavorino per far sedere al tavolo dei negoziati per rappacificarsi con la Siria, preservando l’integrità territoriale, i rappresentati governativi e un’opposizione unita.

Sta di fatto che Trump si trova in difficoltà quando con degli alleati come la Turchia, membro strategico della Nato, deve fare i conti con vedute e interessi divergenti, oltre al fatto di adottare dei sistemi difensivi differenti.

Il rapporto tra Trump e il suo entourage è un continuo contraddittorio, sottoponendosi a grotteschi e repentini voltafaccia.

Il presidente cambia opinione come le mutande, per le mutande è un augurio, per le opinioni è una sciagura, che confonde tanto quanto il suo voler cancellare ogni scelta del suo predecessore Obama e da far sospettare che sotto quella chioma non c’è poi molto.

Più che “American first” è una America sola, come il presidente davanti ai giornalisti quando i suoi ministri sono in disaccordo con le dichiarazioni di quel momento, nel voler sanzionare l’Iran per delle pretese violazioni all’accordo sul nucleare, quando la Ue e la Russia lo smentiscono.

Gli Stati uniti stanno diventando una macchietta nello scacchiere internazionale e il voler fare la voce grossa con Cuba e con l’Iran, mettendo con la prima a rischio l’apertura all’imprenditoria turistica e con la secondo la reputazione di una nazione della quale non ci si può fidare se con un presidente si firmano degli accordi e con un altro si vengono messi in discussione, anche con la Corea del nord ha difficoltà a trovare un comportamento condiviso, rendendo la Corea del sud e il Giappone sicuri con l’alleato statunitense.

Anche l’avviare le pratiche per uscire, dopo aver disconosciuto gli accordi parigini sull’ambiente, dall’Unesco, non rende Trump e il suo paese popolare.

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Aleppo peggio di Sarajevo

siria-aleppoÈ difficile comprendere il motivo di tanto giubilo di Damasco nell’aver riunificato Aleppo est con la parte ovest, quando le truppe che permettono ad al-Assad di imporre la sua dittatura si dimostrano baldanzose verso donne e bambini, ma dei pavidi davanti ai neri stendardi del Daesh.

Aleppo sarà di nuovo tutta sotto l’autorità di Damasco, ma Palmira, con la “ritirata” delle truppe governative siriane, è nuovamente terreno di scorrerie dei fanatici seguaci dello sceicco nero.

Sicuramente in Italia c’è chi come Francesca Paci ha interesse della sorte, con arrivo dei liberatori, di migliaia di persone, ma è certo che in parlamento non siede un solo individuo che abbia alzato la voce in difesa delle vittime.

I pentastellati o quelli della sinistra italiana, ma neanche Giuliano Ferrara e Il Foglio sempre pronti a prendere giustamente le parti delle vittime, non pensano neanche ad un sit-in silenzioso, con delle candele, davanti all’ambasciata siriana.

Le variegate truppe di al-Assad, dopo un durissimo assedio e un incessante bombardamento, si impossessano di Aleppo.

Di quella parte di città dove si erano asserragliati i “ribelli”, quell’Aleppo a est ridotta alle macerie di un cimitero di donne e bambini, di medici e insegnanti, città martoriata sulla quale l’artiglieria e l’aviazione che spalleggia Damasco ha fatto pratica di bersaglio su ospedali e scuole.

Con l’espugnazione dell’altra Aleppo le sofferenze della cittadinanza non sono finite: ora le truppe d’occupazione rastrelleranno in cerca di ogni possibile sospetto che possa essere un “ribelle”.

Se sugli adulti, uomini e donne, si può lasciare anche solo il sospetto di essere terroristi, ma quale colpa devono espiare i bambini?

La Russia, in questo desolante panorama d’incivile convivenza, avalla siria-aleppo-disegno-k2tf-u10901106824934rpc-1024x576lastampa-itse non addirittura si fa promotrice di queste azioni che è difficile non definire crimini contro l’umanità mentre  noi siamo impegnati a far sedere in parlamento delle persone capaci solo di mortificare l’Italia.

Ora stanno cercando di aprire dei corridoi “umanitari” per l’evacuazione, a singhiozzo, dei civili e dei ribelli “moderati”, quelli che non alzano la voce, che camminano con il capo chino e magari faranno ogni tre passi una genuflessione di ringraziamento per tanta magnanimità di aver salva la vita.

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L’Europa e la russomania

Russian President Vladimir Putin speaks during a media conference after a G-8 summit at the Lough Erne golf resort in Enniskillen, Northern Ireland, on Tuesday, June 18, 2013. The final day of the G-8 summit of wealthy nations is ending with discussions on globe-trotting corporate tax dodgers, a lunch with leaders from Africa, and suspense over whether Russia and Western leaders can avoid diplomatic fireworks over their deadlock on Syria’s civil war. (AP Photo/Matt Dunham, Pool)

I primi varchi alla russomania nell’Unione europea si sono aperti alcuni anni fa con Malta che si sostituisce, dopo la crisi finanziaria, a Cipro come paradiso fiscale per i russi.

È facilmente prevedibile scegliere per un rapporto preferenziale la Russia, quando offre, per salvare il sistema bancario cipriota, aiuti “senza condizioni”, ciò che non si può dire della severa troika Ue-Bce-Fmi. Una magnanimità russa che Cipro ricambia schierandosi con Mosca nel conflitto russo-georgiano e con una posizione critica rispetto allo scudo spaziale statunitense.

Un’amicizia di cui ne beneficiano entrambi, con le pretese turche sui giacimenti d’idrocarburi scoperti al largo di Cipro e con Israele che vuol diventare il leader regionale nella produzione energetica, oltre al fatto che la Russia è in cerca, con il conflitto siriano, di un’altra base navale, in alternativa a quella siriana di Tartus o solo per rafforzare la presenza russa nel Mediterraneo.

Anche la crisi economica greca ha facilitato Atene nel vedere Mosca con molta simpatia, senza limitarsi al ruolo di ponte fra l’Unione europea e la Russia. Il gasdotto e forse aiuti economici potrebbero essere dei buoni motivi per la Grecia per spostare il suo baricentro verso la Russia.

L’Ungheria di Orvan guarda a Putin come un modello nel governare con mano autoritaria, capace di ridurre l’opposizione a una flebile voce, un paese fortemente nazionalista, sentendosi sotto pressione dalla Ue per la situazione migratoria che preme ai confini, ma non del tutto xenofobo.

Lo schieramento filorusso, con le recenti elezioni, si arricchisce con la Bulgaria di un altro paese della Ue e con la Moldavia, un candidato ad entrare nell’Unione.

La Germania ha sempre fatto lucrosi affari con la Russia, ma continua a tenere una posizione critica sul continuo disprezzo di Putin verso i Diritti umani, mentre la Francia potrebbe eleggere nel 2017, con François Fillon, un presidente che guarderà alla Russia con meno severità della Ue, ma anche Marine Le Pen, la sua avversaria razzista, ha espresso posizioni russofilie.

La Russia non ha solo scardinato il monolite europeo conquistando le simpatie di alcuni governi, ma concedendo anche finanziamenti bancari non solo a gruppi euroscettici, ma anche populisti e xenofobi, fomentando una situazione d’incertezza che vorrebbe far sfociare, grazie alle formazioni di estrema destra, nel caos per indebolire l’Unione.

I vari governi, in tutto questo riorientarsi verso Mosca, sembrano non aver preso in considerazione i nuovi rapporti russo-turchi. Governi che hanno espresso tutte le loro differenti animosità per il governo di Erdogan e le formazioni nazionaliste verso i turchi in generale, ma c’è da dire che quando si possono fare buoni affari il denaro non puzza.

La messa in discussione dei Diritti umani in Turchia ha partorito un timido altolà alla presa in considerazione di far aderire la Turchia alla Ue che si va scontrare con il ruolo di sentinella dei confini europei affidatogli.

Sono alcune delle contraddizioni di un nuovo assetto geopolitico, dove ci si confonde nel distinguere tra chi corteggia chi è in fuga, in un rincorrersi in cerchio, dove i vari invitati ad una cena a un tavolo rotondo vivono nell’ignorare di chi siede subito dopo il commensale alla propria destra e a quello di sinistra, avendo un panorama limitato, potendo essere un suo amico o anche no.

In Russia i Diritti vengono messi in discussione e in Siria l’aviazione di Putin sembra impegnata a radere al suolo, senza alcuna pietà per gli abitanti, case e ospedali, edifici di culto e scuole, impegnata in una sorta di gara su chi meriterà il trofeo di criminale di guerra con al-Assad e tutte gli altri contendenti di entrambi gli schieramenti.

Mai cosi tanti medici e bambini, perfino i clown, sono le vittime civili di questa mattanza per una inconsulta protezione di Damasco che Putin giustifica con il non voler far diventare la Siria come la Libia.

Un cerchio dove tutto sembra ormai girare intorno a Mosca, come dimostrano le continue affermazioni del nuovo presidente statunitense, dove Putin è ammirato e Castro è bollato come un brutale dittatore, nell’ora della sua scomparsa, a dispetto di quanto il leader russo afferma “Castro è stato un amico sincero e affidabile della Russia”.

Quanto ancora potranno rimanere in vigore le sanzioni che l’Occidente ha varato contro la Russia, in occasione dell’annessione della Crimea, visto il pronunciamento di alcuni leader europei per una loro “rimodulazione”?

E soprattutto come la prenderanno i paesi Baltici, pervasi dalla paura di un’imminente invasione russa, verso questa russomania dei paesi balcanici?

Una paura quella baltica che ha suggerito alla Lettonia e alla Lituania di realizzare un vademecum con le cose da fare in caso d’invasione russa, mentre in Estonia, da novembre, il suo nuovo premier è il filorusso, del partito di Centro, Jüri Ratas.

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