L’improvvida, estemporanea uscita del v. premier Salvini sul ripristino della leva militare ha prima provocato lo scetticismo del ministro della Difesa e dei militari di carriera, per poi trasferirsi polemicamente su giornali e social. Eppure sarebbe stata un’ottima occasione per metter ordine in argomento e duole la superficialità con cui il tema è stato affrontato e subito rimosso.
Tanto per cominciare, la funzione principale ed esclusiva del soldato è il combattimento. Tutte le altre funzioni (controllo sociale e sanitario della popolazione maschile, recupero dell’analfabetismo, vigilanza statica, protezione civile, supporto alle forze dell’ordine, educazione civica) sono da considerare accessorie. Riproponendo la naja come antidoto alla maleducazione dei giovani, Salvini è dunque partito col piede sbagliato. Anche se tutte le altre funzioni di cui sopra sono state sfruttate in modo sistematico dagli stati moderni, la leva obbligatoria serve sostanzialmente ad ottenere il massimo degli uomini addestrati al combattimento a un prezzo minore dei costosi professionisti, e infatti gli inglesi, il cui esercito è sempre stato professionale, hanno ripristinato la leva solo durante le due guerre mondiali, quando la qualità doveva essere necessariamente integrata dalla quantità. Se poi non ci fosse stata la Guerra Fredda, in Europa la leva sarebbe stata verosimilmente abbandonata entro il 1950, mentre la presenza di cinque milioni di soldati dell’Armata Rossa e dei loro satelliti ha praticamente obbligato la NATO a fare altrettanto dal Baltico alla Turchia. Guarda caso, gli unici stati europei che oggi mantengono la leva confinano con la Russia.
Dalla fine degli anni ’80 se non prima è però cambiata la scena internazionale e con essa la natura delle operazioni militari: non più il confronto fra masse di uomini e mezzi meccanici distribuiti in due blocchi simmetrici, ma un quadro frammentato e mutevole che ha spostato l’accento su quelle che una volta sarebbero state definite operazioni di polizia coloniale: missioni di pacificazione, interposizione o stabilizzazione in aree di crisi, condotte da poche unità di professionisti motivati, ben addestrati ed equipaggiati e in qualche misura spendibili senza provocare la caduta del governo. In questo quadro l’Italia si è subito adeguata alle nuove esigenze operative, aderendo alle varie missioni all’epoca c.d. in area esterna, ma presto rendendosi conto dei limiti del personale di leva, sia pur integrato in reparti più affidabili. Dal canto suo la leva – ufficialmente “sospesa” nel 2004 – oltre che impopolare, era un’istituzione già fortemente compromessa sia dalle carenze di bilancio che dai cambiamenti sociali. Il benessere non ha mai prodotto soldati e le progressive leggi favorevoli all’obiezione di coscienza alla fine hanno infine reso il servizio militare obbligatorio qualcosa di simile all’attuale obbligo facoltativo dei vaccini. Dal canto loro, i militari per primi si rendevano conto che la stessa tecnologia richiedeva ormai personale a lunga ferma. Marina e Aeronautica avevano già una forte componente di professionisti, vista la natura tecnica delle due armi, mentre l’Esercito rischiava di rimanere indietro. Quindi il passaggio dalla leva al professionismo, almeno da un punto di vista militare fu un processo razionale, mentre meno razionale è stata la sua gestione. Gli inglesi – che avevano affrontato il problema ben prima di noi – all’epoca dissero che passare dalla leva al professionismo doveva essere un’operazione condotta gradualmente, essendo comunque quasi impossibile tornare indietro. In Italia si è invece fatto tutto in fretta, col miraggio di risparmiare risorse e intercettare il voto dei giovani. Ricordo bene la rapida rimozione delle storiche idee sull’esercito di popolo garante della democrazia, nonché il malcelato disprezzo degli ufficiali di carriera verso l’impegno profuso per anni da milioni di giovani obbligati a un servizio che avrebbero volentieri evitato. A vincere due Guerre Mondiali e la Guerra Fredda non erano stati comunque i professionisti, ma proprio le masse addestrate dei coscritti. In ogni caso, la fretta con cui si è smontato tutto per arruolare volontari di bassa estrazione sociale ha causato l’effetto collaterale di avere strutture ormai sovradimensionate e un corpo di ufficiali e sottoufficiali sproporzionato rispetto alla truppa. I calcoli sul costo di un esercito di mestiere poi erano ottimistici: addestrare e mantenere in efficienza un esercito di professionisti sindacalizzati costa caro e la crisi economica degli anni successivi ha fatto il resto, penalizzando gli ambiziosi progetti iniziali e tagliando i fondi per l’arruolamento delle nuove reclute e la manutenzione di mezzi e istallazioni. E se vogliamo dirla per intero, concepire l’esercito come ammortizzatore sociale ha provocato il progressivo invecchiamento della massa dei sottoufficiali di truppa e dei militari in genere. Un caporalmaggiore ha oggi il doppio degli anni di un najone d’epoca, quasi potrebbe essere suo padre.
Detto questo, vale davvero la pena di tornare indietro? Ripristinare la leva significa rimettere in piedi quanto si è sfasciato: distretti militari, caserme oggi cadenti e neanche riconvertite, aree addestrative, magazzini. Significa vestire, nutrire, alloggiare e addestrare personale in servizio per pochi mesi; tutto questo ha un costo eccessivo rispetto al vantaggio immediato, in un’Italia dove la stessa nozione di confine da difendere è stata nei fatti annullata dalle circostanze storiche e dalla politica. Che poi il costoso professionista sia impiegato anche in operazioni di piantonamento urbano è secondario: venuta ormai meno l’osmosi con la società civile, è lecito ricorrere anche a iniziative di facciata per far sentire vicini alla gente i propri soldati.
Più interessante e fertile sembra invece l’idea di un Servizio civile universale, o addirittura europeo, obbligatorio e aperto a uomini e donne. Ne aveva parlato Renzi, ne ha parlato anche la Merkel. Rispetto al servizio militare il costo intanto sarebbe minore, non dovendo lo Stato vestire, nutrire e alloggiare il personale impegnato nel servizio civile. E soprattutto, potrebbe offrire ai giovani una gamma di opportunità che vanno dalla formazione all’assistenza sociale, dalla possibilità di fruire di una specie di Erasmus all’estero al tirocinio presso enti pubblici e privati. Importante che ci sia un coordinamento e soprattutto una gestione pubblica del servizio, evitando la frammentazione a uso e consumo dei privati che caratterizzò per anni la c.d. obiezione di coscienza.