In questo momento la Turchia di Erdogan è in piena politica di espansione geopolitica nel Mediterraneo e l’Italia sta a guardare, rimproverando all’attuale ministro degli Esteri l’abbronzatura piuttosto che la sua inconsistenza. Eppure c’è stato un periodo in cui l’Italia non solo ha combattuto una prima volta l’Impero Ottomano con la guerra di Libia e l’occupazione del Dodecaneso (1911-12), ma nel 1919 ne ha addirittura occupato una parte in Asia minore, ritirandosene solo nel 1922. Una proiezione di potenza impensabile oggi, dovuta a circostanze eccezionali, ma tutto sommato una pagina di storia italiana poco nota, che vale invece la pena di riesumare per la sua attualità. La storia ci riporta alla fine della Grande Guerra, con la disgregazione di tre imperi: germanico, austro-ungarico e ottomano. Quest’ultimo, pur difendendosi bene sui Dardanelli, alla fine della guerra perse le sue componenti arabe e africane, più l’Armenia cristiana ed era quasi sul punto di veder nascere alle frontiere uno stato curdo. In sostanza gli equilibri post-bellici seguivano il patto segreto Sykes-Picot (dal nome dei due negoziatori, uno inglese e francese l’altro), che assegnava il mandato sulla Siria alla Francia e la Palestina più la Mesopotamia agli Inglesi, tradendo di fatto il nazionalismo panarabo pur appoggiato dagli inglesi stessi (ricordate Lawrence d’Arabia?). Segreto e discutibile, era un patto che comunque avrebbe regolato per un secolo l’equilibrio del Medio Oriente, assente in questo caso il presidente americano Wilson, che ben altri guai avrebbe causato con le sue confuse idee in materia di nazione e autodeterminazione dei popoli. Le pretese italiane nell’Adriatico e in Asia minore risalivano comunque al Patto di Londra (1915); davano per scontata lo smembramento degli imperi centrali, ma non potevano prevedere l’intervento del presidente Wilson, l’ostilità franco-inglese verso un Mediterraneo “italiano”, e soprattutto nessuno metteva in conto il peso dei futuri nazionalismi: slavo, albanese e turco. La politica estera italiana alla fine riuscì solo a ottenere il Brennero, giustificato da reali motivi strategici (ancora nel 1943 i tedeschi occuparono l’Italia passando da quel valico), mentre poco o nulla ottenne in Adriatico. Il controllo sul Dodecaneso garantiva invece una buona base per la costa turca, e infatti da lì partì il corpo di spedizione che occupò la zona di Adalia, dove era registrato un interessante bacino carbonifero. Anche se prevista dal Patto di Londra del 1915, l’iniziativa italiana apparve come un colpo di mano per compensare la “vittoria mutilata” in Dalmazia; irritò Francesi e Inglesi e soprattutto il governo greco, estraneo a quel patto e che aspirava ad occupare parte dell’Anatolia. In assenza della delegazione italiana capeggiata dal presidente del consiglio Orlando, alla conferenza di pace di Parigi, la Grecia riuscì ad ottenere dal Consiglio Supremo il permesso di intervenire sulla costa egea dell’Anatolia. Il 15 maggio 1919, pertanto, l’esercito greco operò uno sbarco a Smirne. L’attrito con l’Italia fu risolto con un accordo segreto (ancora un altro!) sottoscritto il 29 luglio 1919 dal nostro Tittoni e dal greco Venizelos, in cui l’Italia rinunciava a Adalia e alle isole del Dodecaneso salvo Rodi, in cambio dell’appoggio greco a un mandato italiano sull’Albania. Tale accordo, peraltro, fu denunciato dal successivo Ministro degli esteri italiano Carlo Sforza (giugno 1920), né gli Albanesi (mai chiamati in causa) lo volevano. La Conferenza di Pace di Parigi per queste zone si risolse nel Trattato di Sèvres (10 agosto 1920), che riconosceva all’Italia una zona di penetrazione economica su Adalia e dintorni, oltre al possesso del Dodecaneso, e l’occupazione greca di Smirne e i suoi dintorni. Era un altro trattato di carta: i nazionalisti turchi guidati da Kemal Atatürk dichiararono defunto l’Impero Ottomano, nulle le sue firme e passarono alla riscossa, costringendo entro il 1922 i Greci a ritirarsi da Smirne. Il governo italiano dal canto suo utilizzò la base di Adalia per armare e addestrare le truppe di Atatürk contro i Greci, intuendo da che parte stava la vittoria e sperando in futuri vantaggi non ben definiti. Il contingente italiano fu ritirato entro il 1922 e il Trattato di Losanna (1923) sottoscritto con la nuova Repubblica Turca confermava all’Italia il possesso del Dodecaneso e riconosceva per la prima volta la sovranità italiana sulla Libia, ma non le accordava nessuna zona di influenza economica né di occupazione militare in Anatolia. Come si vede, le potenze vincitrici della Grande Guerra avevano fatto i conti senza l’oste, in una proiezione di potenza imperialista che sottostimava l’ascesa dei nazionalismi che il dopoguerra stesso aveva esasperato dalla disgregazione degli Imperi centrali. La stessa Italia irredentista alla fine si comportava esattamente come i suoi alleati imperialisti, senza che all’epoca nessuno notasse la contraddizione. Forse anche per questo, di questa italica avventura nella memoria resta poco o niente. Gli unici che la ricordano con orgoglio sono i Carabinieri: inviati sia ad Adalia che a Costantinopoli in collaborazione con la gendarmeria turca, esercitarono in modo imparziale le loro funzioni e contribuirono a evitare scontri etnici e vendette private. Responsabile dei Reali Carabinieri in organico alla spedizione italiana era un nobile fiorentino, il colonnello Balduino Caprini. Un nome da ricordare.
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Europa e la geopolitica
La politica estera europea è manchevole nello scacchiere internazionale, escludendo l’accordo sul nucleare iraniano, nonostante un capace Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea non hanno gli strumenti per offrire una posizione unitaria dei paesi membri verso le varie crisi.
I paesi membri della Ue, nel dossier libico, sono schierati con la posizione dell’Onu, stando alle varie dichiarazioni, nel sostenere il cosiddetto governo di unità nazionale guidato da Al Serraj, senza un vero esercito e con gruppi armati eterogenei assoldati, incapace di avere autorità neanche sulla sola Tripoli, mentre con il generale Haftar, militarmente compatto e vincente sulle fazioni jadeiste più estreme, rimane attendista nell’aprire un serio canale di dialogo con il padrone della Cirenaica.
A parole sono schiarati con Al Serraj, ma di fatto nel miglior dei casi si disinteressano se non parteggiano per il generale, lasciando che la Francia e l’Italia si muovano in ordine sparso. Parigi ha fatto incontrare i due contendenti per stipulare un cessate il fuoco e indire un referendum, Roma li incontra separatamente per poter organizzare la conferenza sulla Libia a Palermo il 12 e 13 novembre.
Una gara, quella italofrancese, che ha come trofeo gli interessi petroliferi dell’Eni e della Total che provano a trovare una pax sulle sabbie libiche che potrebbe facilitare anche la strada a una risoluzione politica.
Non sarebbe la prima volta che le soluzioni dei conflitti si trovano nei “corridoi” delle conferenze e quello che si prospetta tra l’Eni e la Total potrebbe essere l’inizio di una collaborazione su progetti in Algeria, Libano ed Egitto, ponendo fine all’ostracismo francese verso l’impegno italiano.
Lo sforzo italiano per la conferenza internazionale sulla Libia si è incentrato sul riunire allo stesso tavolo non solo Al Serraj e Haftar, ma anche l’Unione europea con l’Alto rappresentante per gli affari esteri Federica Mogherini, il governo turco, quello egiziano, quello russo ed altri paesi coinvolti nella crisi libica (Tunisia, Ciad, Niger etc.), mentre dagli Stati uniti è arrivata una “approvazione” all’iniziativa. Alcuni degli invitati hanno anche degli interessi nella situazione siriana e normalizzare l’una può acquietare l’altra.
La situazione siriana è un altro dossier dove l’Unione europea non la si vede protagonista, ma neanche invitata, mentre al summit del 27 ottobre ad Istanbul erano presenti la Francia, la Germania, la Turchia e la Russia, che ha spedito gli inviti e dato le carte.
Una riunione preparatoria ad una conferenza sulla Siria dove esporre ai siriani, governativi o ribelli, ma anche alle milizie iraniane un piano di normalizzazione.
Per arrivare a trovarsi ad Istanbul sono stati necessari gli incontri di Sochi e Astana, senza statunitensi ed europei, ma con siriani e iraniani, con il risultato di generiche dichiarazioni sulla necessità di trovare una risoluzione politica al conflitto, con un Assad riluttante ad accettare un compromesso con un’opposizione che in otto anni non è riuscita a scalfire il suo potere.
Anche il 28 e il 29 novembre i russi, i turchi e gli iraniani hanno continuato a disquisire per l’11 volta, nella capitale del Kazakhstan, sul futuro siriano e la spartizione delle regioni occidentali.
L’Onu, con il suo inviato per la Siria Staffan de Mistura, ha portato avanti sconfortanti incontri a Ginevra per accordarsi sul riformare la Costituzione e convocare elezioni politiche, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, ma l’unico risultato di tutti questi incontri è stato, almeno per ora, di evitare un ennesimo massacro nella provincia nord-occidentale di Idlib, in cui vivono oggi tre milioni di persone, in gran parte profughi provenienti da altre zone di conflitto siriano.
La Siria potrebbe essere sottoposta ad una spartizione per aree d’influenza, replicando, a distanza di poco più di un secolo, la spartizione di quelle terre, ma questa volta non sarà il diplomatico francese François Georges-Picot e il britannico Mark Sykes a tirare le linee, ma il russo Putin e il turco Erdogan, con l’avallo dell’Iran, mentre, in assenza degli Stati uniti, la Francia e la Germania saranno i testimoni.
Ma gli Stati uniti sono presenti, con il loro continuo minacciare, nello scenario internazionale con il fare e disfare, come insegna il dossier iraniano, unica crisi dove l’Unione europea ha avuto un ruolo nel sintetizzare le varie posizioni per una soluzione che ora Trump utilizza nel punire o premiare le nazioni, non solo cancellando gli accordi raggiunti con l’Iran, ma applicando sanzioni a tutti quei paesi che intratterranno rapporti economici con Teheran senza l’autorizzazione statunitense.
Questo imbarazzo europeo nella politica estera è ben manifestata nella necessità dell’Alto rappresentante Ue anche nell’appoggiarsi ad una dichiarazione congiunta con i ministri degli Esteri e delle Finanze di Francia, Germania e Gran Bretagna, nell’esprimere il “profondo rammarico” dell’Europa per il ripristino delle sanzioni statunitensi nei confronti dell’Iran.
Anche nell’escalation provocatorio e conflittuale tra la Russia e l’Ucraina ecco l’asse franco-tedesco che si rende disponibile a fare da mediatori.
Un’Europa che prima di parla di esercito unico dovrebbe avere una politica estera condivisa, poi sapere cosa dovrebbe fare di una forza militare comune: se porsi in concorrenza con la Nato o farne parte come Ue e non più come singoli paesi.
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Il pianista di Yarmouk in un libro
di Enrico Campofreda –
“Cosa serve Mozart a noi palestinesi?” chiedeva Aeham al padre mentre questi lo spronava a ripetere qualche cavatina. Erano i primi passi da pianista, il bambino era curioso, il padre un violinista appassionato, il luogo dove si svolgevano le lezioni aveva acquisito solide pareti in muratura. Quando il padre era anche lui un bambino le pareti erano fragili o di lamiera. Ai tempi del nonno non esistevano, si dormiva sotto le tende. Yarmouk è l’immenso campo palestinese a otto chilometri dalla periferia meridionale di Damasco. Lì il padre del padre di Aeham ebbe l’autorizzazione di piantare la tenda nel 1957, assieme a migliaia di palestinesi diventati profughi nove anni prima, a seguito della Nakba. Le autorità siriane acconsentirono alla creazione d’un accampamento non ufficiale che nel tempo è stato gestito dalle Nazioni Unite. In quel posto sono nate almeno due generazioni, palestinesi di Siria che non hanno mai visto la Palestina. Dopo le rivolte della primavera 2011 Aeham ha visto scenari che mai avrebbe voluto conoscere: la scomparsa di amici e familiari, la guerra civile, quella per procura, il fanatismo dei jihadisti, il cinismo dei lealisti di Asad. Un’altra catastrofe. E loro profughi, in mezzo, come tanti altri civili. Non solo Yarmouk è stata sbriciolata dai missili, assediata dalla fame, ma quel che Aeham Ahmad, diventato il celebre “Pianista di Yarmouk”, narra nell’omonimo libro pubblicato in Italia da “La nave di Teseo” è la storia dei mesi d’assedio e della sua visionaria follìa di suonare fra bombe e macerie.
Il rischio di morte si ripeteva in ogni ora di giornate rese drammaticamente uguali dal fanatismo di chi combatteva per la propria supremazia: i fondamentalisti islamici che avevano occupato il campo e le truppe governative che cannoneggiavano per farli sgomberare. Fra i due fuochi una popolazione prigioniera, disperatamente aggrappata alla speranza che l’incubo terminasse. Ai più piccini ossessionati dalle bombe, una mattina in cui il cielo era intensamente azzurro e lindo dal pulviscolo della calce frantumata dalle esplosioni, Aeham regalò la soavità di note classiche. Eseguì brani di Beethoven, e ripensava a quanto utile ai profughi palestinesi potesse diventare Mozart. Dopo la domanda rivolta al papà, il bambino aveva compreso l’importanza di musica e cultura per chi è privato di tutto, e negli attimi in cui la morte s’aggirava per i vicoli di Yarmouk le melodie dolci o frenetiche avrebbero aiutato quella sfortunata grande famiglia di assediati. Quando un amico muscoloso trascinò per via il pianoforte che Aeham aveva in casa, potendo ancora conservare l’uno e l’altra, la gente rimase ipnotizzata dalle note. Dopo vari “concerti” i jihadisti vollero punire il gesto e bruciarono lo strumento. Ma indomiti ragazzi avevano immortalato le esibizioni di Aeham con un video finito sul web, così il mondo conobbe il ragazzo che sfidava bombe con le melodie. Poi, con l’esodo di massa dal campo, anch’egli scappò. Dal 2015 è rifugiato in Germania, vive a Wiesbaden, suona in diversi Paesi sebbene non possegga un passaporto. Glielo consentono la notorietà e l’arte che lo aiuta a vivere. Altri profughi, anche fra i familiari, non hanno questo privilegio e devono sperare che la politica di accoglienza del mondo fortunato non chiuda i battenti.
Pubblicato 11 maggio 2018
Articolo originale
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Il pianista di Yarmouk
di Ahmad Aeham
Traduttori:Lucia Ferrantini
Editore: La nave di Teseo, 2018, pp. 348
Prezzo: € 20,00
EAN:9788893444903
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Syria Crisis- Giochi pericolosi
Talune forze, negli Stati Uniti, proprio non accettano le sconfitte e come dei bambini, in preda al peggiore dei capricci, iniziano a scalciare per ripicca ora a destra ora a sinistra. Se non fosse un film già visto ci si dovrebbe veramente preoccupare e vivere queste ultime ore che mancano all’ecatombe planetaria come se fossero gli ultimi istanti della nostra esistenza e quindi facendo tutto ciò che non ci è stato possibile fare fin’ora, ma fortunatamente non siamo ancora all’Armageddon.
Infatti, esattamente un anno fa, Trump, come oggi, era fortemente assediato per il cosiddetto Russiagate e per smorzare i toni in madre patria, verso la sua presunta russofilia, non trovò niente di meglio da fare che attaccare, nella provincia di Homs, alle 03:45 (ora di Damasco) del 07 aprile 2017, con 59 missili “Tomahawks”, la base aerea di Shayrat da cui sarebbe partito, il 04 aprile dello stesso anno, il presunto raid chimico del regime di Assad verso gli inermi civili di Khan Shaykhun. Raid che, è bene ricordarlo, allora come oggi, sarebbe avvenuto in una fase in cui l’Esercito Arabo Siriano era nettamente in vantaggio, perciò, cui prodest? Ai siriani lealisti di sicuro no!
Comunque sia, a fine operazione, gli americani avevano distrutto solo 6 vecchi Mig-23 e causato poco più di dieci vittime. Un attacco, insomma, a bassissima intensità, infatti solo 23 missili, dei 59 “Tomahawks” lanciati, raggiunsero il bersaglio, ma ciò fu sufficiente al Tycoon per avere un po’ d’ossigeno.
Nell’immediato i rapporti tra le due superpotenze sembrarono essere peggiorati di molto tuttavia – dopo che in un sol colpo il Presidente Putin è riuscito a costruire un asse tra la Turchia di Erdogan e l’Iran, chiudendo così positivamente anche la partita in Siria – gli Stati Uniti avevano annunciato, in data 07 aprile 2018, che si sarebbero ritirati dalla Siria a meno che l’Arabia Saudita (Paese che mal vede più di chiunque altro il proseguo del regime di Assad in quell’area) non si fosse sobbarcata totalmente il costo del mantenimento delle truppe americane in Medio Oriente. In altri termini Washington sembrava aver riconosciuto ed accettato, la vittoria di Mosca e dei suoi alleati, in quella porzione di mondo, ma mentre accadeva ciò altre tegole stavano per cadere sulla testa di Trump:
- In primis con il cosiddetto “datagate” che vede coinvolti: Steve Bannon, ex Capo stratega della Casa Bianca nonché ex VicePresidente della società Cambridge Analytica; la Cambridge Analytica, società che combina il data mining, l’intermediazione dei dati e l’analisi dei dati con la comunicazione strategica per la campagna elettorale; e Facebook, uno dei maggiori social network mondiali, in quanto responsabili dell’aver influenzato e falsato il risultato delle ultime elezioni presidenziali americane;
- Secondariamente con il “Sexgate” che vede coinvolti, in un giro di relazioni di fuoco: la pornostar Stormy Daniels; l’ex modella di Playboy Karen McDougal; e l’avvocato Michael Cohen. Quest’ultimo avrebbe provveduto a comprare il silenzio delle due signore pocanzi nominate per conto di Donald Trump.
Ora, questi due eventi, in un America così puritana e russofobica, alle soglie delle elezioni di medio termine, potrebbero seriamente mettere nei guai il Presidente Trump ed allora cosa mai potrebbe fare il Tycoon per distrarre l’opinione pubblica, assecondare le lobby militari ed i nemici interni al Partito Repubblicano, se non organizzare un attacco in grande stile verso i “cattivoni” siriani rei nuovamente di aver usato delle armi di distruzione di massa contro la popolazione inerme?
Detta così potrebbe sembrare anche un’idea geniale, degna di Niccolò Machiavelli, ma, si sa, non è cosa saggia giocare con il fuoco perché, pur non volendo, l’incendio potrebbe pur sempre divampare e, in quel caso, chi potrà mai fermarlo?In fondo, Putin, per quanto sia un uomo dai nervi d’acciaio, è pur sempre un essere umano e, in quanto tale, anche la sua pazienza ha un limite. Pazienza che è già stata fortemente messa alla prova a seguito delle false accuse mosse dal Governo britannico, nei confronti del Cremlino, riguardo l’avvelenamento di Serghej Skripall e di sua figlia Yulia, a Londra, per mano di alcuni agenti russi.
In questo frangente la risposta di Putin a tanta infamia ed alle espulsioni dei propri diplomatici, fu perfettamente simmetrica e 150 diplomatici occidentali furono costretti ad abbandonare il territorio della Federazione Russa. Se in tal modo a volare furono solo le “Feluche” ora rischiamo concretamente che a librarsi nell’aria siano oggetti ben più pericolosi. E tutto questo potrebbe avvenire solo ed esclusivamente perché il Presidente degli Stati Uniti, chiunque esso sia, è prigioniero:
- del proprio ruolo;
- di fortissimi gruppi d’interesse;
- delle lobby degli armamenti.
Tutte questioni che, a noi italiani poco interessano o meglio, dalle quali, per la nostra posizione geografica e per la nostra storia, non possiamo che avere solo influssi negativi. Di conseguenza ci conviene continuare ad essere alleati degli Stati Uniti? La risposta, a questo punto, è chiaramente no! E, a tal riguardo, venuto a sapere della domanda del reggente del PD, Maurizio Martina, rivolta al leader del Carroccio in merito al fatto se: << Salvini vuole cambiare le alleanze internazionali del nostro Paese? Se è così, lo dica chiaramente >> mi sento in dovere – pur non essendo il leader della Lega, ne legato a quest’ultimo in nessun modo e ne conoscendo il suo pensiero più recondito – di rispondergli in qualità di puro sovranista con un’altra semplice domanda: << Caro Martina, ma se non ora, quando? … Cosa e quanto, dovremo ancora aspettare per comprendere che continuando a seguire l’Europa, l’Euro e la Nato ben presto ci ritroveremo nel baratro più profondo? >>
Persino un euro/atlantista convinto come il Senatore forzista Paolo Romani si è reso conto dell’inconsistenza delle accuse americane tanto da dichiarare che: “nel momento in cui i ribelli jihadisti di Duma si stanno per arrendere, immaginare che Assad abbia utilizzato armi chimiche, che avrebbero scatenato di sicuro la reazione internazionale, oltre a essere inutile sarebbe un’idea stupida >> e c’è chi, come Lei, crede ancora a queste fandonie? In tal caso le questioni sono due: o chi sostiene posizioni filoatlantiste è in mala fede o non è in grado di leggere la realtà che lo circonda, e, in entrambi i casi, ciò può denotare solo una cosa: una grave incompatibilità con il ruolo che riveste, ergo non è degno di sedere in Parlamento.
Pertanto il mio appello – come semplice cittadino, rivolto a tutto l’arco costituzionale – è quello che si uniscano tutte le forze di buona volontà affinché, nell’immediatezza della crisi, l’Italia non partecipi in alcun modo a nessuna azione militare in Siria, ne inviando truppe o mezzi, ne mettendo a disposizione le proprie basi.
Anzi il nostro Paese, anche attraverso l’ausilio della diplomazia vaticana, dovrebbe farsi carico di una Conferenza di Pace per tentare di risolvere la Guerra Civile Siriana.
12 aprile 2018
Articolo originale
su Frontiere
Siria: Sette Anni di cinismo
Nel 2013 Obama aveva minacciato di intervenire in Siria dopo che i governativi di Damasco avevano fatto uso di armi chimiche, ma papa Francesco era riuscito a dissuaderlo. Quattro anni dopo Trump ordinava di colpire la base aerea di Shayrat, come rappresaglia per l’uso da parte dei governativi siriani di agenti chimici. Ora Trump si ripete triplicando gli obbiettivi a poche ore dalla sua esternazione di voler disimpegnare i 2mila militari in Siria, ma questa volta con l’appoggio dei britannici e dei francesi.
Il presunto attacco chimico ha portato gli Stati Uniti, la Francia e la Gran Bretagna a scendere in campo con i propri mezzi non limitandosi a dei reparti speciali o ad armare i curdi e le varie milizie. Trump schiera unità navali armate di missili “belli ed intelligenti”, fiancheggiato dai britannici e con i francesi impegnati a fare da comparsa. Un raid giustificato da Macron, davanti al Parlamento europeo con un laconico “sono intervenuti per difendere l’onore della comunità internazionale” e profetizzando per l’Europa una guerra civile.
Una dimostrazione di forza indirizzata a Damasco, ma che per interposta persona è la Russia il destinatario e ancor di più l’Iran, che è nel mirino di Trump e dell’israeliano Netanyahu, come dimostra il raid aereo di Israele del 9 aprile che, a differenza degli statunitensi, ha colpito senza avvertire nessuno e facendo vittime anche tra militari iraniani.
La fievole voce dell’Onu, per una via diplomatica, è rimasta inascoltata, anche quando l’OPAC (Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche) si era messa a disposizione per indagare sulla presenza di agenti chimici e le discussioni in seno della Lega araba non hanno avuto alcun effetto.
Sarà cinismo, ma si ha l’impressione che della popolazione siriana, vittima da sette anni di sofferenze, a nessuno dei contendenti interessa. Certamente non ai russi ed agli iraniani chiamati da Assad a difendere il suo potere più che il suo dominio. I Turchi, più che a spodestare Assad, sono impegnati nella caccia ai curdi, gli statunitensi cercano di addestrare ed armare i curdi ed alcune formazioni antigovernative, mentre i sauditi, con i paesi del Golfo, finanziano il variegato schieramento islamico. Sopra tutti – letteralmente – i raid aerei, di ogni schieramento, impegnati a scaricare bombe e bidoni chimici su scuole ed ospedali, oltre che su case e moschee.
Erdogan, dopo Afrin, esorta gli Stati Uniti a riprendere le armi date ai curdi e promette di restare a lungo in Siria minacciando di togliere ai curdi anche Kobane. In questa vera e propria caccia al curdo c’è l’indignazione dell’artista grafico Zerocalcare, che a Kobane ha dedicato una graphic novel, nel trovare l’Occidente “distratto” dopo aver festeggiato i curdi come eroi nella guerra ai fanatici daesh ed ora vengono abbandonati al loro destino.
I turchi sembrano impegnati ad occupare il nord della Siria, forse non è che un primo passo per un nuovo impero ottomano, i russi vogliono tenersi stretti la base navale Tartus sul mediterraneo e quella aerea di Hmeimim, mentre gli iraniani, con gli hezbollah, si sono insediati, minacciando Israele, sulle alture del Golan.
Un recente rapporto di Save the Children sulla Siria è già obsoleto con vittime su vittime e profughi su profughi che continuano ad allungare l’elenco dopo Ghuta ed ora con Douma, i massacri continuano.
Il conflitto siriano si muove anche nell’ambito della propaganda ed ecco che si discute a chi può convenire impiegare o fomentare voci sull’uso di agenti chimici sulla popolazione, mentre si minacciano, dopo una risposta “adeguata”, altre azioni militari non finalizzate a deporre Assad, ma solo ad impedire l’uso di agenti chimici ed ignorare il rapporto delle Nazioni Uniti dedicato alle brutalità commesse dal regime di Damasco.
I governativi stanno riconquistando le macerie della Siria senza lasciare spazio a tregue “umanitarie” ed all’apertura di corridoi per l’evacuazione, colpendo indiscriminatamente civili ed armati.
Una riconquista fatta di cannoneggiamenti e bombardamenti concepiti per radere al suolo ogni possibile rifugio, trasformando città prospere in spianate e gran parte del territorio siriano in un cumulo di rovine, come Aleppo.
Un campo di battaglia dove si fronteggiano, con eserciti ed armando milizie, i sostenitori di Damasco e di chi vuol spodestare al Assad. Un conflitto mondiale che rischia di non rimanere circoscritto, coinvolgendo oltre al debole Libano anche tutto il medio oriente in una nuova spartizione delle aree di competenza, come avvenne nel 1916 tra il diplomatico francese François Georges-Picot e il britannico Mark Sykes, dando luogo all’accordo Sykes-Picot, per le rispettive sfere di influenza in seguito alla sconfitta dell’impero ottomano nella prima guerra mondiale.
Un trattato, quello franco britannico, redatto con righello e squadra, senza tener conto dei popoli oltre che di fiumi e montagne, ma che ha garantito per 150 anni un minimo di stabilità dell’area.
Era apparso sul The Guardian, in prossimità della rappresaglia, la riflessione di Simon Jenkins sulla possibilità che solo una vittoria di Assad metterebbe fine alla guerra civile in Siria – Only Assad’s victory will end Syria’s civil war. The west can do nothing – e con l’intervento militare occidentale si prolungherebbe la sofferenza della Siria.
Al quotidiano britannico si era aggiunto il suggerimento di Caroline Galactéros (colonnello nella riserva, direttore della società di intelligence strategica Planeting, direttore del gruppo di esperti GeoPragma) su Le Figaro con Pourquoi la France ne doit pas s’associer aux frappes en Syrie (Perché la Francia non deve aderire agli attacchi in Siria) per una posizione “pragmatica” dell’Occidente.
Dopo oltre sette anni di sofferenze per i siriani e di sperimentazioni diplomatico-militari si arriva alla conclusione che è meglio lasciare i siriani al loro destino?
Ma i venti di guerra sul Mediterraneo non può farci dimenticare della tragedia del popolo yemenita, vittima del conflitto iraniano saudita.
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Qualcosa di più:
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Siria: continuano a volare minacce
Islam: dove la politica è sotto confisca
Ue divisa sulla Siria: interessi di conflitto
L’infelicità araba
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