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Trump: I buchi del Distruttore

 

Il Mondo, dopo un anno dall’elezione di Trump a presidente della nazione leader, ha subito dei cambiamenti geopolitici, prospettando per gli Stati uniti una incredibile retrocessione.

Il presidente si è dato molto da fare nel distruggere l’eredità di Obama che lo ha preceduto, senza limitarsi alle innovazioni nella politica interna, definito dalla BBC US government shutdown: How did we get here again? uno “scontro tra bande” che dalla disputa sulla sanità e il clima ha coinvolto non solo la situazione migrante islamica ma che con i Dreamers è arrivato a coinvolgere lo shutdown nel confronto politico nell’era dell’amministrazione Trump, anche nel rapporto con le altre nazioni.

Con Obama il rapporto con islam era in evoluzione e con l’accordo sul nucleare iraniano aveva contrariato i paesi arabi sunniti e gli israeliani, mentre con i russi era un muro contro muro, ma tutto era delineato senza ambiguità.

Un panorama confuso se non nel fatto che tutto sembra ricondurre ad una forte volontà di svolgere il tradizionale ruolo di veditore di armi, ma anche in quest’ambito non sembra fare grandi affari se la Turchia, secondo esercito della Nato, preferisce fornirsi di sistemi missilistici russi, come anche i sauditi, riuscendo a mettere in crisi, non solo con le sue dichiarazioni “isolazioniste”, il rapporto con gli aderenti all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord. Con l’enunciazione della sua personale dottrina nucleare basata sulle mini bombe, capaci di scatenare tsunami radioattivi si disattiva l’impegno di Obama contro la proliferazione nucleare e la Russia risponde con un missile dalla traiettoria “imprevedibile”.

Trump è ambivalente nel suo lusingare la Turchia e armare i curdi, rafforzare i legami con i sauditi senza rinunciare ai rapporti con il Qatar, dichiara Gerusalemme capitale di Israele facendo infuriare i paesi islamici, andando incontro alle critiche dell’Onu e ai rimproveri degli alleati europei.

Con il mancato blocco degli insediamenti ebraici Trump fa sospettare il reale disinteressa di Israele per i colloqui di pace con i palestinesi.

Il presidente statunitense sta creando dei buchi nella politica estera che la Russia, la Cina e la Turchia si stanno impegnando a colmare, creando delle alleanze ambivalenti. Tanto ambivalenti che hanno portato la Turchia a chiedere il permesso alla Russia per intervenire nella zona siriana di Afrin per cacciare i curdi con l’operazione “ramoscello d’ulivo”, mentre i curdi trattano con Damasco per arginare l’avanzata turca in Siria e Trump sta a guardare gli alleati che si rivolgono agli avversari per risolvere un conflitto atavico, mentre Bashar Assad rade al suolo Ghouta Est alla periferia della capitale siriana.

Una resa dei conti “incrociati”, con alleanze variabili che nascono e muoiono sul batter di un interesse.

Un presidente impegnato, con lo sfilarsi dall’accordo di Parigi sul clima, nell’attivare le miniere di carbone, dare autorizzazioni di trivellazione ovunque si ritiene utile, che vuol completare i lavori dell’oleodotto progettato per transitare sul territorio della riserva dei nativi americani nel North Dakota.

Periodicamente lancia messaggi di distensione per un possibile rientro nell’accordo sul clima di Parigi, per poi manifestare tutto il suo scetticismo sui cambiamenti climatici, come sulle tematiche dell’evoluzionismo e creazionismo.

Mentre la Cina diventa il capofila per l’impegno ambientalista e rafforza la sua presenza in Africa. Un continente quello africano che ha colto interesse turco. La Turchia gareggia con la Russia e l’Iran anche per un posto d’onore nello scacchiere mediorientale.

Un presidente che appare confuso senza una chiara politica economica che probabilmente ha portato la “Trumphoria” a sbattere contro il muro delle fluttuazioni finanziarie, conducendo alla crisi dei mercati e al ridimensionamento della crescita, con la fine dell’era del denaro a poco, in attesa di un’impennata nei tassi di interesse.

All’interno della stesso staff non mancano i contrasti come in occasione dei dazi promossi da Trump sull’acciaio e l’alluminio senza confrontarsi con i suo consigliere economico, come aveva fatto in precedenza con altri consiglieri sui più disparati ambiti.

Trump è un presidente che si muove senza alcuna remore, creando non solo scompiglio e sconcerto tra gli avversari, ma anche tra alleati e collaboratori.

È probabile che Trump potrà fare “meglio”, nel peggio, del presidente Zuma nel distruggere il miracolo sudafricano e rendere gli Stati uniti soli.

 

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Qualcosa di più:
Trump: un confuso retrogrado
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Trump: un elefante nella cristalleria del Mondo
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Damasco, il viaggio che non si può più fare

Viaggiare: il concetto di viaggio gemma dal viatico, cioè da ciò che occorre per il viaggio stesso. L’idea del viaggiare è quindi in origine misurata da ciò che portiamo con noi per il viaggio. In questo tempo estivo la redazione di Q Code Mag proverà a raccontarvi i suoi viaggi, non per forza spostamenti, non solo metafore, in una narrazione collettiva che ci accompagni sotto sole e temporali, fra i palazzi cittadini e gli ombrelloni marini. Buona lettura.

di Costanza Pasquali Lasagni

Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare

È un viaggio che inizia alla stazione degli autobus di Charles Helou, a Beirut, sotto un lurido cavalcavia in mezzo al traffico e alla polvere, all’altezza di Gemmayzeh.

I pulmini sono ordinati per destinazioni, e attendono scientemente di essere pieni per poter partire. Il nostro, destinazione Damasco, è lì che ci attende. Decidiamo un viaggio VIP, cioè in un pulmino nuovo, con l’aria condizionata, e al massimo una decina di posti, per una decina di dollari ben investiti. È il fine settimana di Pasqua del 2010, e in Medio Oriente il caldo già si fa sentire.

Alla frontiera siro-libanese, Masna’a, ci mettiamo in fila per fare il visto per la Siria, dieci dollari, e pochi minuti di attesa, perché siamo italiane. Un gruppo di backpackers americani attende da ore, e il loro visto costa molto di più. Ci scambiamo un’occhiata solidale e ringraziamo mentalmente di essere cittadine di uno stato la cui politica estera è senza spina dorsale. A volte, come in questi casi, può essere utile. Stessa fazza, stessa razza.

In tre-quattro ore siamo alle porte di Damasco, il pulmino ci lascia a Sulemanye, la vecchia stazione degli autobus, e prendiamo un taxi che per meno di un dollaro ci porta a Bab Touma, la porta orientale della città vecchia.

È un sogno che si avvera.

Nei vicoli del quartiere cristiano troviamo con fatica – queste bellissime porte sembrano tutte uguali – la nostra casa. C’è il cortile in stile omayyade, la fontana in mezzo, il cortile coperto. Come in un libro di Khaled Khalife. È una casa di studenti, in Siria prima della guerra ci si veniva a studiare l’arabo, da tutto il mondo, e i nostri compagni di casa sono inglesi, pakistani, indiani, oltre che siriani.

Una porta damascena

Le case damascene si sviluppano attorno al cortile centrale, e nei piani superiori ogni stanza è un microcosmo. Ci si ritrova poi nel cortile, nella parte coperta per proteggersi dal sole del giorno o dall’umido della notte, per le chiacchere serali, un bicchiere di arak, un tè zuccherato. Si parla di sogni, viaggi, lezioni di arabo.

Pochi anni dopo, tutto questo sarebbe finito, infranto, rotto, come uno specchio scagliato via con violenza.

La notte è viva a Damasco, specialmente a Bab Touma, il quartiere cristiano. Ma a Damasco si sta tutti insieme, cristiani con musulmani, l’aria è leggera, il gelsomino diffonde il suo profumo tra i vicoli, si respira l’odore dolciastro dei narghilè, e ci tuffiamo a Beit Jabri per assaggiare le mezze più buone del medio oriente, con i chicchi di melograno che colorano il babaghannouj, i camerieri di una gentilezza estrema, e il gruppo di oud che suona in sottofondo. Poco più avanti verso le mura, il ristorante Oxygène ha una terrazza vista città vecchia, ed è lì che si balla il giovedì sera, musica arab-pop sì, ma anche salsa e disco.

È un’iniezione di vita questa Damasco, ci perdiamo nel souq Hamidiye, quello coperto, dove trovi qualsiasi cosa, dai profumi ai merletti, dai chiodi ai broccati damasceni, ai vestiti da sposa. Quello del gelato Bakdash, crema di latte e scaglie di pistacchio, che ancora adesso è aperto e la fila si vede da fuori, anche se i pistacchi, che in tempo di crisi costano tanto, ora sono mischiati alle noccioline.

Nei negozi del souq Hamidiyeh si trovano vestiti per tutte le occasioni

Cercando cercando, scoviamo un hammam per donne, dietro il santuario sciita di Sayyda Rukayb. Bisogna seguire la strada, “doughry”, ci dicono i vecchietti a cui chiediamo aiuto, e poi ci sarà una tenda sulla sinistra. Bello nascosto da occhi indiscreti, non si sa mai. Scansiamo la tenda, scendiamo i pochi gradini, e si apre l’ennesimo universo magico. Il calore del vapore, i divani rialzati, la tazza di tè bollente che neanche sei entrata e già ti arriva in mano.

È il mondo delle donne, protetto da una tenda impenetrabile, che si ritrovano il sabato per fumare, bere il tè, chiacchierare, prendersi cura di sé.

Le signore dell’hammam, dalla pelle bianca e liscissima, ci guidano nelle stanze interne, tra i lavandini di pietra e le coppette di ottone, qui si fa lo scrub, qui invece il massaggio agli olii, lavanda, gelsomino, rosa damascena. C’è un’aria di festa, si canta e si balla, un gruppo di ragazze sta festeggiando una ragazza in procinto di sposarsi. Mai e poi mai avrei immaginato che anni dopo, nella stessa Damasco anestetizzata dalla guerra, le mie amiche avrebbero ritrovato quello stesso hammam, intatto, e organizzato per me la mia festa di addio al nubilato.

È finalmente la domenica di Pasqua, e Bab Touma è in festa. I bambini sono vestiti con il vestito buono, le chiese sono addobbate con festoni e palloncini, le bande di scout suonano le marce pasquali, i sacerdoti ortodossi e cattolici guidano le processioni tra le mura di pietra bianca e nera dei quartieri cristiani, i forni sfornano il pane di Pasqua, quello tondo con i semini di anice e il sapore dolciastro. A me la Pasqua è sempre piaciuta, si rinasce, ci si rinnova. Ci accodiamo alla processione, un corteo di persone che cantano e sorridono, salutiamo le persone che si affacciano dai balconi.

La moschea Omayyade vista dai tetti di Damasco

Per visitare la moschea Omayyade, dobbiamo seguire l’ingresso per le donne, dietro l’angolo, dove prendiamo in prestito un lungo e pesante abaya, nero o verde scuro, “coprite bene i capelli mi raccomando”, si premurano all’ingresso. Ora nel cortile della moschea non si può più sostare, né fare le abluzioni alla fontana centrale, per i famosi “motivi di sicurezza” che giustificano un po’ tutto in ogni parte del mondo.

Ma almeno la moschea c’è ancora, mentre ad Aleppo è solo un raggelante mucchio di sassi, guardati a vista da qualche soldato.

È lunedì mattina presto, il canto del muezzin ci accompagna mentre riprendiamo un taxi sgangherato che per il solito dollaro, ora il cambio è dieci-undici volte tanto, ci riporta alla polverosa stazione degli autobus, dove saliremo su un pulmino VIP che, una volta pieno, ci riporterà nella rumorosa Beirut.

La magia sembra finire, ma rimane addosso, come il profumo di gelsomino, e la speranza di un posto e una vita che ci auguriamo sopravviva, mentre già arrivano notizie infelici dai paesi vicini. È solo la primavera del 2010.

Questa è la storia di un viaggio che non si può più fare, ma che sogno di tornare a fare al più presto.

Per gentile concessione del magazine QCode
del 10/08/2017

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Chi è Costanza Pasquali Lasagni

Costanza, cervello da geopolitica e cuore da umanitaria, sta benissimo in mezzo ai conflitti, meglio se mediorientali. Per Q Code Magazine ha scritto I Diari Palestinesi.

Tutti gli articoli di Costanza Pasquali Lasagni

Siria: Un aiuto per una generazione

In Siria 220mila morti in 4 anni di guerra, dilaniata tra Assad e Isis, dove ogni diritto è negato ad ogni persona, soprattutto all’infanzia che gli viene negata non solo la possibilità di giocare per strada senza correre il rischio di saltare su di una mina o essere il bersaglio di un cecchino, ma di un’istruzione.

La tragedia dei bambini siriani non è solo per un’infanzia rubata, è anche il rischio di essere una “generazione perduta”, senza istruzione e con una quotidianità tra macerie o in campi profughi, con una vita fatta sacrifici e lavoro minorile.

Una crisi umanitaria di oltre 2,3 milioni di persone fuggite dal paese per rifugiarsi nei paesi limitrofi e più della metà sono bambini. Mentre sono 9,3 milioni di persone quelle colpite in varie forme dalla guerra civile all’interno della Siria e 4,3 milioni sono bambini.

Una generazione perduta, una lost generation, condannata a subire la guerra e confidare negli aiuti umanitari per poter sopravvivere.

Una guerra all’infanzia e alla cultura, oltre che per il predominio di un modo di vivere sull’altro, costringendo intere famiglie a lasciare le proprie case abbandonare la scuola, gli amici e i parenti, gli affetti più profondi.

 

L’Unicef, insieme ad altri partner, ha aperto una campagna per chiedere ai governi di sostenere i bambini della Siria, per raccogliere 1 miliardo di dollari per aiutare una intera generazione di bambini siriani ad avere l’opportunità di un futuro più stabile e sicuro.

Non solo i governi sono coinvolti in questa raccolta di fondi, ma anche le singole possono aiutare i bambini siriani, con una donazione non solo online per contribuire a salvare la vita dei bambini.

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Siria New Syrian Voices

Non si potrà dire che non si sapeva nulla: la follia assassina di Bashar el-Assad, l’orrore delle sue galere, la tortura, i bombardamenti, le armi chimiche, la distruzione di un intero paese e la sofferenza di un intero popolo. No, non si potrà dire: “io non sapevo”. Da ormai quasi tre anni il web documentario “Syrie. Journeaux intimes de la revolution” (“Siria. Diari intimi della rivoluzione”), ideato da Caroline Donati e Carine Lefebvre-Quennell e prodotto da Emmanuel Barrault, racconta attraverso le testimonianze per immagini di quattro protagonisti – Oussama Chourbaji, Amer abdel-Haq, Majid abdel-Nour e Joudi Chourbaji – la vita quotidiani dei siriani presi in trappola tra la violenza cieca del regime e il terrore degli estremisti dell’IS, lo Stato Islamico.

continua

Anche:

Free-Syrian-Voices

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Medio Oriente: Un Buco Nero dell’islamismo

Il conflitto israelo-palestinese aveva momentaneamente oscurato ogni notizia sul buco nero che si sta creando tra la Siria e l’Iraq.

Ora che Israele ha ritirato le truppe dalla striscia di Gaza, dopo un quotidiano lancio di razzi islamisti sul territorio israeliano e le inevitabili ritorsioni israeliane, sembra che oltre 2mila e la distruzione di edifici si è giunti ad una tregua indeterminata, l’attenzione si sposta un po’ più al di là dell’altra sponda del Mediterraneo. In quell’area che sembra risucchiata in un buco nero di mille anni addietro. Un buco nero che sembra voglia allargarsi verso il Libano, dopo la Siria e l’Iraq, allungando la lista delle ormai migliaia di morti sgozzati o con una pallottola in testa.

Un’area sempre meno sicura per le persone che seguono confessioni differenti dal dettame sunnita imposto dal nascente califfato dello Stato islamico.

Per fronteggiare l’avanzata dell’Isis (Stato islamico di Iraq e Siria), ormai più famigliarmente Is (Stato Islamico) qual sia dir si voglia, sono intervenuti gli Stati uniti con martellanti raid aerei per distruggere gli armamenti di cui miliziani islamisti si sono impossessati con la ritirata dell’esercito iracheno e facilitare l’azione delle milizie curde dei peshmerga.

L’Occidente, dopo tanta incertezza, ha deciso di appoggiare le forze curde nel contenimento dell’affermazione islamista tra la Siria e l’Iraq che, nel tentativo di allargare l’influenza dell’Is nell’area con i continui sconfinamenti in Libano, si può quantificare come un territorio ampio quanto l’Ungheria.

I curdi, combattendo anche con le armi dell’Occidente per la loro terra e la loro autonomia, difendono anche noi e per non far crescere la considerazione sul loro operato e mitigare le future richieste curde che gli armamenti non andranno direttamente nelle zone di guerra, ma passeranno per Bagdad per ribadire la centralità del governo iracheno a spese dell’autonomia del Kurdistan.

A facilitare l’intervento occidentale in Iraq è il palese o il tacito consenso che non solo i paesi arabi ma anche la Russia e la Cina hanno dato, cosa che non poteva avvenire per la Siria, certo non perché i cristiani erano al sicuro, ma per gli interessi incrociati sullo scardinamento degli equilibri nell’area e rischiare di trovarsi in una situazione d’interminabile conflitto modello libico.

È per questo che dopo l’esempio di leadership debole riscontra in Iraq con il governo Nuri al-Maliki, celata dalla voce grossa che esibiva con il risultato di alzare l’acredine tra gli sciiti e i sunniti, è ora la volta di un governo inclusivo di tutte le realtà culturali irachene, cercando una rappacificazione tra schieramenti e togliere agli islamisti consenso.

Nel grande gioco delle alleanze variabili si sceglie chi è più nemico dell’altro e non il più affine negli intenti e nei sistemi. Così è possibile trovare un esponente di primo piano del regime di Saddam come il generale Izzat Ibrahim al Douri guidare l’avanzata di quelli dello Stato islamico in Iraq solo perché sono più odiosi gli sciiti che gli jihadisti. L’Occidente riflette sulla possibilità di aprire un dialogo con Assad, un’ipotesi impensabile sino a pochi mesi fa, perché è sin dalla prima ora avversario dei jihadisti. I cristiani in Libano si alleano con gli Hezbollah che combattono in Siria affianco del regime di Assad contro gli islamisti, per non diventare dei bersagli come in Nigeria o in altre parti del Mondo. I cristiani nel Medio oriente, vittime predestinate come ogni altra minoranza, sono in cerca di protezione. Una situazione di persecuzione già evidenziata da Francesca Paci del libro del Dove muoiono i cristiani
(2011).

Una persecuzione delle minoranze, da parte jihadisti, che annovera non solo le comunità cristiane, ma anche yazide e shabak, oltre che turcomanne, atta a perseguire una pulizia etnica di balcanica memoria.

È l’arroganza dell’ex premier Nuri al-Maliki, con il suo fomentare le violenze settarie che ha insanguinato il Paese, ma anche l’ottusità statunitense nel cancellare un esercito che ha portato un laico come al Douri a scegliere di unificare le sue forse baathiste a quelle dei jihadisti.

Un’alleanza contro natura, se la realtà jihadista era da eliminare sotto il regime di Saddam, accomunati non solo nello scansare dal potere la maggioranza sciita, ma anche dai modi sbrigativi nell’eliminare i “problemi”.

Questa’esaltazione della violenza ha esercitato una forte attrazione per molti adolescenti annoiati e senza un’ideale di vita, portandoli a seguire degli invasati per esternare il loro lato teppistico. Giovani in cerca di una guida che non vivono necessariamente in periferie disagiate, ma provenienti anche da i ceti benestanti dell’Occidente, mossi dal disagio di vivere, il cosiddetto mal de vivre. Una realtà basata sulla disciplina e la cieca adorazione del capo che sarebbe stata l’ovvia conclusione dei farneticanti protagonisti dell’Arancia Meccanica o dei “perseguitati” Guerrieri della notte nel vedere un futuro inquadrati in milizie religiose di vari credo.

In questo scambio di fronti e di alleanze s’inserisce anche l’intervento di Alessandro Di Battista, deputato del M5S, che offre una giustificazione all’uso del terrorismo come unica arma per i ribelli, dimenticando che le milizie del nascente Stato islamico non sono dei dissidenti perseguitati, ma un’orda conquistatrice. Rincara la dose del politicamente “scorretto” i twitter del cosiddetto ideologo dei penta stellati Paolo Becchi che offre una lettura di consequenzialità nel dare le armi ai curdi con la salvezza delle due volontarie italiane.

Ribellarsi è giusto, ma quelli dello Stato islamico sono degli aggressori e non si può dare una parvenza di legittimità alla violenza perpetrata da un esercito di conquista e non di difesa. Un gruppo di persone che sono discriminate possono arrivare all’utilizzo della violenza, ma chi si organizza in una forza di conquista per formare dal nulla uno stato tirannico, imponendo le sue regole di vita, non può essere paragonato a chi viene perseguitato e si vede negato ogni diritto fondamentale.

L’esercito del califfato per uno stato islamico non è un popolo scontento in cerca di una vita pacifica, ma è in guerra con tutto il mondo che non professa il loro senso della vita, ma non per questo si deve escludere un dialogo, anche se per dialogare bisogna essere almeno in due per trovare un compromesso, e quelli delle bandiere nere non sembrano disponibili ad una convivenza con altre religioni.

Oscurantismo jihadisti che si sta affermando anche nel caos libico, scene di prigionieri mostrati al pubblico ludibrio in Ucraina o la giustizia sommaria nei confronti di sospette spie a Gaza, il tutto condito con la crudeltà contro la popolazione, fa retrocedere la storia dell’umanità di alcuni secoli.

La situazione israelo-palestinese e quella iracheno-siriana sono la dimostrazione di come gli organi d’informazione appaiono incapaci di seguire contemporaneamente le varie aree di conflitto nel Mondo se non sono ai nostri confini o coinvolgono i rapporti tra schieramenti ideologico-economici.

Solo l’Ucraina non ha perso spazio informativo, forse perché oltre ad essere in Europa sta compromettendo i già difficili rapporti con la Russia di Putin nell’ambito delle esportazioni e dei rifornimenti energetici invernali che in una crisi economica europea diventa un grande problema.

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Francesca Paci
Dove muoiono i cristiani
Editore: Mondadori
Milano, 2011
pp. 204
€ 17,50
EAN9788804606925

Franco Cardini
Cristiani perseguitati e persecutori
Salerno Editrice
Roma 2011
pp. 188
€ 12,50
ISBN 978-88-8402-716-0

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