Dopo la grande mostra personale “Di terra, acqua e vento”, nel Museo Nazionale Etrusco di Rocca Albornoz di Viterbo nel 2023, Vincenzo Scolamiero presenta a Roma gli ultimi lavori inediti. La mostra è a cura di Paolo Di Capua, artista e fondatore di HyunnArt Studio. Sono esposte alcune grandi tele e, su una lunga mensola, un ‘libro’ a leporello, esemplare unico, che in totale estensione raggiunge i 5 metri di lunghezza. Nel testo in catalogo, Paolo Di Capua scrive: «Per le opere che vengono esposte in questa circostanza mi sento di parlare di una pittura plastica di Vincenzo Scolamiero eppure senza pesi, in assenza di qualsivoglia sensazione di gravità, in cui si alternano simultaneamente profondità, delicatezza e trasparenza sullo stesso avvolgente piano percettivo, secondo dinamiche imprevedibili di limpida essenzialità».
Scolamiero è docente di Pittura presso il Dipartimento di Arti Visive dell’Accademia di Belle Arti di Roma, città nella quale vive e lavora. Sue opere sono conservate in importanti collezioni pubbliche e private. La sua prima personale, nel 1987, fu nella storica galleria Al Ferro di Cavallo di Roma. In seguito ha esposto in rilevanti spazi pubblici e privati in Italia e all’estero (New York, Seul, Busan, Pechino, Fenghuang). È stato invitato alla Quadriennale di Roma (1996), alla Biennale di Venezia (2011) ed è vincitore della LXV Edizione del Premio Michetti (2014). Tra le ultime personali, oltre a quella a Viterbo: nel 2019 “La declinante ombra”, a cura di Gabriele Simongini, al Museo Carlo Bilotti di Roma; nel 2021/22 “Del silenzio e della trasparenza” al Palazzo Pubblico a Siena – Magazzini del Sale e presso la Fondazione Accademia Musicale Chigiana a cura del Comune di Siena.
Vincenzo Scolamiero DI ALTRI LUOGHI Dal 10 febbraio al 15 marzo 2024 PubblicitàImpostazioni sulla privacy
Lo scarno titolo non rende appieno la ricchezza del libro, il quale è diviso in due parti ben distinte: la storia del teatro a Roma, inteso sia come struttura fisica che come espressione artistica, e uno schedario sistematico, esauriente e aggiornato di schede dei singoli teatri. La prima parte è organizzata in ordine cronologico, la seconda è divisa per ordine alfabetico e completata da un indice analitico. L’autrice è già nota come artista e curatrice di mostre (1) e per una serie di monografie di arte e altro, tra cui citiamo: I mosaici a Roma dall’antichità al Medioevo, Santa Maria in Montesanto, Il vino a Roma e nel Lazio, Sciamè. Alchimia del rosso, Il canto della terra, L’ essenza della solitudine, Dolores Prato, Vostra Veronica. In questo libro appena uscito Stefania Severi ripercorre non solo la storia degli edifici teatrali dall’antica Roma a oggi, ma anche degli autori, artisti, impresari e promotori che hanno reso possibile una continuità culturale che supera i duemila anni. E naturalmente si parla anche del pubblico, il vero protagonista delle fortune e sfortune della scena romana, dove la storia del teatro presenta caratteristiche uniche: da un lato c’è l’origine sacrale dello spettacolo – pagana o cristiana non importa – e dall’altro la coesistenza da sempre di espressioni di cultura alta insieme a spettacoli plebei, popolari, con curiose ibridazioni fra i due registri – sarcasticamente commentati nei sonetti del Belli – dovute alla particolare struttura sociale romana: la Chiesa condizionava la durata della stagione teatrale (iniziava a dicembre, ma per la Quaresima i teatri erano chiusi) ma promuoveva le sacre rappresentazioni e lasciava una certa libertà al teatro popolare o aulico che fosse, purché non si discutesse di politica o di religione. Ma nei teatri come nei palazzi convivevano, sia pur in settori diversi, nobili e plebei, borghesi e “generone”, senza quella separazione di casta presente in altre società anche italiane. I viaggiatori stranieri notavano da un lato la grande passione dei romani per il teatro a tutti i livelli, ma dall’esterno vedevano i romani come parte stessa dello spettacolo, fosse per la prima di un’opera lirica o per una processione della Settimana Santa (2). Nell’antica Roma il pubblico non pagava (panem et circenses..) e i teatri col tempo erano divenuti monumentali. Il teatro di Ostia antica ancora è attivo, gli altri – teatro di Pompeo, di Marcello, di Traiano – restano monumenti a memoria di fasti passati. Il medioevo vede sacre rappresentazioni, cerimonie, cortei e processioni registrate da precisi cronisti e cerimonieri come il Burcardo, ma col Rinascimento e il Barocco rinasce il teatro laico, patrocinato dalle famiglie nobili, le quali inseriscono fino a due secoli dopo un teatro privato nei loro palazzi, mentre ben presto l’iniziativa privata si adegua alla domanda e diversifica l’offerta, che va dal dramma e melodramma alla commedia, dall’aulico alla farsa popolare, dal teatro di parola al mimo e ai burattini. Giustamente l’autrice parla in questo senso di “sistema teatrale”, data la quantità e la diversificazione dell’offerta romana, col suo ampio spazio per nobili mecenati e impresari privati, attori e cantanti professionisti e confraternite di dilettanti, primedonne, gigioni, musicisti, artisti di scena e artigiani. Alla fine di ogni secolo è riportato l’elenco dei singoli teatri con la data di apertura. Se manca l’asterisco la struttura è ancora aperta alla scena. Se l’Apollo non esiste più, alcuni sono ancora in attività, magari con repertorio diverso. Penso al teatrino di palazzo Altemps, al teatro Argentina ora di prosa ma nato lirico (vide la prima del Barbiere di Siviglia), ma anche all’Oratorio del Borromini. Pur nella relativa stasi dello Stato Pontificio, la vita teatrale romana ha sempre avuto un grande impulso creativo e una grande popolarità
La cesura tra due epoche avviene quando nel 1870 Roma diviene capitale d’Italia, con la rapida trasformazione urbanistica e sociale delle sue strutture e del pubblico. Risale alla seconda metà del XIX secolo la costruzione di nuovi teatri. La gran parte dei teatri di fine secolo è attiva: il Costanzi per l’Opera, il Quirino, l’Eliseo, la Sala Umberto, il Salone Margherita, l’Ambra Jovinelli, tanto per citarne alcuni. Carente è invece il secondo dopoguerra, che ha visto solo ristrutturazioni e riconversioni spesso discutibili (la distruzione dell’Adriano per farne una multisala è emblematica) e soprattutto ha penalizzato la periferia continuando a concentrare lo spettacolo al centro storico, a parte gli introvabili teatri tenda. Ma dagli anni 60 ci immergiamo in nella realtà più difficile da schedare: l’esplosione del teatro sperimentale e dei “teatrini” – talvolta scantinati o locali recuperati – che renderanno Roma una delle città più vivaci d’Italia. “Uno, cento, mille teatrini” è più di uno slogan. Concentrati fra Trastevere e Testaccio ma non solo, pur in autentica povertà di mezzi diventano un mondo parallelo che per osmosi trasmette al Teatro Stabile nuovi linguaggi e rinnova un repertorio all’epoca fin troppo alimentato dagli abbonamenti del pubblico borghese. Ripercorrere con la Severi le vicende dell’avanguardia teatrale romana è divertente quanto difficile, ogni segmento essendo originale e non sempre documentabile con precisione. Non era il mondo dell’Effimero dell’assessore Nicolini – grande rinnovatore della periferia e inventore dell’estate Romana – ma ne ha preparato il terreno.
E il nuovo secolo come si presenta? Da un lato Roma con l’Auditorium Parco della Musica di Renzo Piano (2001) ha finalmente uno spazio adeguato a un capitale europea e l’offerta teatrale si è decentrata anche in zone prima culturalmente deserte, vuoi per intervento pubblico (Tor Bella Monaca, Quarticciolo, Corviale, circuito TIC, Teatri in Comune) che privato (Teatro degli Audaci, Il Globo fondato da Proietti), mentre i “teatrini”, decimati dalle nuove leggi di sicurezza e dall’età dei fondatori, sopravvivono o passano il testimone ai loro allievi, visto che proliferano le scuole di teatro a tutti i livelli. Passato il Covid, in questo momento il teatro non è in declino, a differenza delle sale cinematografiche che chiudono. Il motivo? C’è il desiderio naturale di vedere fisicamente l’attore e lo spettacolo dal vivo è un salutare antidoto all’inflazione da immagini registrate e/o scaricabili.
Addenda: per contenere il prezzo (22 euro per 327 pagine) il libro è privo di illustrazioni. Per integrarne la lettura consiglio un sito completo di immagini, schede e indicazioni topografiche: https://www.info.roma.it/teatri_di_roma.asp
La mostra, a cura di Michela Becchis e Gabriella Bocconi, presenta una trentina di opere grafiche di Maria Pina Bentivenga e Mei Chen Tseng, così da poter mettere a confronto due mondi espressivi, quello dell’artista italiana e quello dell’artista di Taiwan la quale, pur avendo studiato in Italia, porta con sé una concezione estetica legata alle sue origini. La direttrice dell’Istituto, Maura Picciau, sottolineando che la mostra è stata realizzata grazie ad un protocollo d’intesa tra l’Istituto centrale per la grafica e l’Ufficio di rappresentanza di Taipei in Italia – Divisione Culturale, auspica che tale protocollo costituisca una tappa significativa per entrambe le istituzioni, con l’obiettivo di portare avanti la cooperazione e lo scambio culturale tra Taiwan e l’Italia. L’Istituto centrale della grafica è il luogo espositivo perfetto per questa mostra, infatti le due artiste, nate entrambe negli anni Settanta, convergono su due punti: la scelta dell’incisione come mezzo espressivo e la scelta del paesaggio come soggetto. Le lega anche la peculiare concezione del paesaggio, inteso non già sotto il profilo vedutistico, bensì come metafora di un luogo d’elezione. Eppure, nonostante i punti di contatto, le opere delle due artiste sono molto diverse e questo consente un interessante raffronto. Infatti, pur partendo da un denominatore comune, che è costituito dall’opera grafica, cioè quella che si ottiene tramite il trasferimento su carta da una matrice inchiostrata, le due artiste, utilizzando matrici diverse, hanno realizzato opere nelle quali soprattutto emerge una diversa valutazione dello spazio: ampio e arioso è quello dell’artista italiana, esaltato da un segno morbido e largo; completamente esautorato dai segni è lo spazio dell’artista di Taiwan. Ne scaturisce una esposizione in cui le idee sottese nelle varie incisioni si intrecciano e si valorizzano reciprocamente. Maria Pina Bentivenga utilizza il metodo calcografico, cioè una matrice di metallo sulla quale lascia fondi vuoti o al massimo crea sottofondi tenui su cui far spiccare il segno. Per le opere in mostra ha utilizzato carte italiane (Magnani e Fabriano), giapponesi (Gampi) e cinesi (Shengxuan). Mei Chen Tseng utilizza la matrice di legno di testa, per le sue xilografie, ma lascia spazi minimi tra segno e segno, offrendo una visione d’insieme compatta che sembra dettata dall’horror vacui. Utilizza prevalentemente Carta Puo Luo, con le fibre delle foglie di ananas Taiwanese. Maria Pina Bentivenga, si è diplomata all’Accademia di Belle Arti di Roma ed ha subito seguito un suo percorso nel campo grafico dedicandosi anche al libro d’artista. Impadronitasi di tutte le tecniche incisorie ha insegnato presso la Scuola delle Arti Ornamentali del Comune di Roma ed insegna ora all’Accademia di Belle Arti di Roma e alla Rome University of Fine Arts. Numerosi sono i workshop da lei tenuti in Italia e all’estero (Londra, New York, Lussemburgo). Mei Chen Tseng si è formata in Italia, prima all’Accademia di Firenze, poi alla Rome University of Fine Arts. Ha insegnato a Taipei, Taiwan, sia alla Fu-Jen Catholic University sia alla National University. Una sezione della mostra è dedicata ai libri d’artista concepiti in dialogo con i testi poetici di Leonardo Sinisgalli, Reiner Maria Rilke, Dante e del filosofo taiwanese Peter Mau-hsiu Yang.
Maria Pina Bentivenga e Mei Chen Tseng Immediati dintorni Dal 24 marzo al 30 aprile 2023
I veri poeti sono dei profeti, e Franco Campegiani è uno di loro. Era il 1986 quando recensivo il suo libro di poesie, non il primo nonostante la giovane età, Selvaggio Pallido, con illustrazioni di Umberto Mastroianni (Rossi & Spera). Scrivevo allora su Avvenire (9/11/1986): «…una costante sembra sempre riproporsi: una lacerante dicotomia. È come se il sorriso più radioso fosse comunque e sempre offuscato dalla più viscerale delle angosce. Una dicotomia tutta contemporanea, oserei dire, di quel contemporaneo che comunque e sempre sente aleggiare su di sé i miasmi del terzo conflitto mondiale, vuoi scatenato dall’uomo, vuoi dalla natura in rivolta». Quelle parole trovano una incredibile attualità in una visione peggiorativa perché mentre all’epoca proponevo un conflitto scatenato o da l’uomo o dalla natura, siamo arrivati oggi ad un conflitto globale. Ancora nel 1990 scrivevo, sempre su Avvenire (7/1/1990), e questa volta sulla raccolta “Cielo Amico” (Ibiskos,1990), che mentre nell’altra raccolta l’uomo era visto distinto dalla natura, qui la natura era protagonista e l’uomo, al massimo, comprimario. Sono trascorsi molti anni e Campegiani ha dato alle stampe altre raccolte poetiche ed anche testi di natura filosofica, fino all’attuale raccolta di poesie Dentro l’uragano (Pegasus Edition, 2021) ma è rimasto sostanzialmente nell’animo quello di sempre: un poeta-contadino particolarmente sensibile alle problematiche ecologiche. Ma la sua è una sensibilità che non sfocia solo in una prassi ecologista, ma entra prepotentemente nella poesia perché nasce dal profondo del suo essere che si sente parte della natura. Aldo Onorati, critico e scrittore che da sempre segue il lavoro di Campegiani, sottolinea, nella prefazione, tra l’altro, proprio il legame profondo del poeta con la terra, definendo il suo un “sentimento georgico”. Due sono i rimandi che, a mio avviso, affiorano in queste liriche. Il primo è la vicinanza ad un movimento letterario che, sebbene datato, è pur sempre vivo nella sua concezione: l’Arcadia. Il poeta si sente parte di quel mondo di pastori e pastorelle dove la vita è in assoluta simbiosi col creato, dalle forme animate a quelle inanimate. Un esempio è nella poesia “Epitaffio”: «Sto nel dolce sonno degli appassiti rami / che si ravvivano a maggio, / nell’anima del fiume che si dissangua nella foce / ed evapora dal mare in nubi cariche / che tornano sui monti per nutrire le fonti sorgive». L’altro rimando, che occhieggia a Seneca ed allo Stoicismo, è la ciclicità ineluttabile ed ineludibile dal ciclo vita-morte: «L’aldilà sprofonda nell’abisso, / scivola nel vuoto, precipita a ritroso / verso gli inizi perenni, verso l’eterna fine /, in cieli e terre senza spazio e senza tempo / da cui riparte sempre la ruota della vita…» (“L’essere è qui”). Ma le conclusioni del poeta-filosofo non sono mai nichiliste ed una sostanziale fiducia nell’Amore, sia quello umano che quello divino, non lascia mai l’uomo completamente solo. Certo il mondo futuro non sarà più quello del passato come affiora nella lirica “Lettera a Pier Paolo” (Pasolini): «S’è disseccato Pier Paolo, per sempre / il fiume del sacro primordiale» tuttavia «la palingensi è inesorabile». Campegiani lascia aperto uno spiraglio al rinnovamento, alla rinascita ed alla rigenerazione. Dentro l’uragano ha vinto il Premio Letterario Internazionale Golden Selection, 2021.
Dentro l’uragano di Franco Campegiani Editore: Pegasus Edition, 202, pp. 88 EAN: 9788872111758 ISBN: 8872111757 Prezzo: € 10.00
Gregory – tre storie in una (Rudis Edizioni, 2022) è un romanzo che si legge con piacere. È la storia di tre generazioni, dal capostipite nobile, ai figli ed al nipote. I pensieri, le preoccupazioni, i tormenti, le gioie sono sempre gli stessi ma anche sempre nuovi perché nel tempo considerato nel romanzo, dalla fine dell’Ottocento alla fine del Novecento, la società si trasforma, il quadro politico subisce numerose mutazioni, gli ideali cambiano e la sensibilità si modifica. In questa storia di uomini il pensiero da assoluto tende nel tempo a diventare relativo e quei valori un tempo inamovibili si rivelano invece perfettamente sostituibili. Il titolo viene dal nome dell’ultimo protagonista che lo assume in omaggio alla sua somiglianza con Gregory Peck. E le donne? Ci sono ma rimangono tutte figure subalterne. Lungo tutta la narrazione la vera protagonista è Roma, anzi il centro storico, dove le vite e gli eventi si intrecciano lungo i vicoli mentre la città si trasforma, per restare però sempre se stessa, una grande dama un po’ indolente. Per i romani o comunque per gli appassionati di Roma il romanzo è soprattutto un modo per ripercorrere la storia della città, con l’eco dei passi sui sampietrini come accompagnamento. Il libro ha in quarta di copertina una nota di Arnaldo Colasanti che così scrive: «Gregory si legge con la curiosità con cui si sfoglia un album di famiglia». Ed infatti gli eventi narrati sono pertinenti a personaggi realmente vissuti ai quali possiamo anche dare un volto grazie alle vecchie foto che accompagnano il testo.
La presentazione del romanzo (14/12/2022) è avvenuta in una storica galleria d’arte, La Nuova Pesa, in via del Corso, e forse la motivazione va ricercata nella circostanza che il romanzo presenta tanti quadri di Roma, di una Roma anch’essa sparita proprio come quella a suo tempo immortalata da Ettore Roesler Franz. Già perché l’ultimo e più importante protagonista, Gregory, va via da Parione per andare sulla Gianicolense. Ed è qui che, non a caso, la storia finisce. La presentazione è stato a cura di Arnaldo Colasanti, critico letterario, e di Massimo Rossi, saggista e critico d’arte. Fabrizio Ludovico Porcaroli, laureato in Giurisprudenza ed in Lettere Antiche, ha lavorato con il Gruppo Tutela Patrimonio Archeologico dalla Guardia di Finanza ed ha già pubblicato il romanzo, Trenta minuti per uccidere (Gangemi Editore, 2009).
Gregory. Tre storie in una di Fabrizio Ludovico Porcaroli
Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti