Nel presentarvi la mostra Inquieta Imago, inaugurata la scorso 19 febbraio nel piccolo e accogliente teatro di Villa Pamphilj, ho scelto di incominciare da qualche citazione d’autore sulla follia.
Se non ricordi che l’amore t’abbia mai fatto commettere la più piccola follia, allora non hai amato. (William Shakespeare)
Le idee migliori non vengono dalla ragione, ma da una lucida, visionaria follia. (Erasmo da Rotterdam)
Tutti siamo costretti, per rendere sopportabile la realtà, a tenere viva in noi qualche piccola follia. (Marcel Proust)
Alcune persone non impazziscono mai. Che vite davvero orribili devono condurre. (Charles Bukowski)
Ci sono pochi grandi spiriti che non abbiano un grano di follia. (Seneca)
Gli uomini mi hanno chiamato pazzo; ma la questione non è ancora risolta, se la follia sia o non sia l’intelligenza più alta. (Edgar Allan Poe)
E’ evidente che per provare grandi emozioni, fare grandi cose possibilmente originali, diverse, addirittura per cambiare il mondo, ci vuole un certo grado di follia, di irregolarità, oserei dire di sana trasgressione. Sana perché l’impulso interiore ad andare oltre, quella certezza irrazionale che è la cosa giusta e che non rischiare equivarrebbe al suicidio di una possibilità che è appena nata, l’abbiamo provata tutti e non ce ne siamo pentiti a distanza di tempo. Anzi, spesso sono i momenti in cui ci siamo sentiti più vivi. L’esempio naturale è quando si perde la testa per una persona, l’innamoramento. Come diceva anche Shakespeare, come ci si può innamorare senza essere un po’ pazzi, senza rinunciare al controllo della ragione che, se alla guida o durante un colloquio di lavoro è molto utile, in tale circostanza sarebbe di grande ostacolo? Ma come pensare che Caravaggio avrebbe rappresentato in maniera così potente l’irruzione del divino nel quotidiano, nel miserevole e abbietto, senza essere quell’artista “maledetto” e ribelle capace di vedere dietro il volto sofferente di una prostituta la grazia e la dolcezza di una Madonna? Capace di dipingere una canestra di frutta avvizzita come si dipinge una persona. Come avrebbe mai potuto Michelangelo affrescare da solo la Cappella Sistina, soffrendo molti stenti, se non avesse avuto quella sublime ispirazione che lui considerava un dono divino ma che noi sappiamo essere,in realtà, il suo intimissimo genio? Ancora Cézanne, Matisse, Picasso, Modigliani e tanti altri. Anche Galileo Galilei ha avuto bisogno di una sana dose di follia per prefigurare il futuro della scienza moderna e sovvertire le regole del mondo e dell’Universo tolemaico, rischiando la sua stessa pelle: Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. Doveva apparire un pazzo agli occhi dei contemporanei! Occorre però fare una distinzione, sottile ma decisiva, tra la pazzia sterile, priva di qualsiasi slancio poetico anzi atrofizzante del poveraccio, e la follia visionaria del genio e dell’artista, che sublima il suo sentire nei rossi, nei neri, nei gialli delle pennellate, nella sinuosità della linea, nella forza del trapano che toglie la materia e regala luci e ombre profonde. Questo per dire che non bastano due bicchierini di troppo, un abbigliamento stravagante, andare in giro con un leopardo al guinzaglio e i baffi all’insù per essere degli artisti e dei folli nel senso che abbiamo cercato di spiegare. Non c’è genialità e non c’è alcuna grande espressione creativa se essa è sepolta in acqua ristagnante, se gli occhi sono senza scintille, se non sono in grado di cogliere quella che Picasso chiamerà “la quarta dimensione”. In poche parole senza una sconfinata sensibilità che prende tutto il corpo. Ma questa non riesce a parlare da sola, a scorrere veloce come fa l’acqua da un’altissima cascata, senza il saldo possesso di un linguaggio artistico: il mestiere, l’adorato onesto saper fare dell’artigiano che ha familiarità con i diversi materiali e si sporca le mani con l’ orgoglio di chi impasta e sforna il pane.
Ho voluto fare questa premessa perché noto che il concetto di follia dell’artista è suscettibile di innumerevoli confusioni e strumentalizzazioni. In sostanza, tutti vogliono essere degli artisti ma pochi lo sono veramente: è un privilegio raro non uno status symbol.
Ho conosciuto per la prima volta Claudia Bellocchi all’apertura della sua mostra. Leggo dalla sua biografia che è un’ artista eclettica, che si muove tra Roma e Buenos Aires e non si limita alla pittura, esplorando anche le istallazioni, i video, la poesia fino al teatro. Quale luogo più adatto di questo, dunque? Infatti le piace molto per i suoi quadri. Capisco subito che le categorie di “normale” e “disciplinata” non fanno per lei, artista veemente e smisurata. Mi dice che il tema della follia è fondamentale nella sua vita e nella sua creazione artistica, ma riesco a “cavarle” con l’ingenuità di chi fa tante domande due cose per me importantissime: il modo saggio di vivere questa follia come occasione di esplorazione appassionata del mondo, per andare oltre la realtà materiale e logica delle cose verso orizzonti invisibili e ignoti a chi si ferma all’apparenza; in secundis, l’auto consapevolezza del mestiere: sono un’artista innanzitutto perché so fare, conosco la corretta esecuzione di un’opera. Prima dello stato di invasamento provocato dalla musica (come una moderna sibilla), quindi, prima dell’istinto, c’è la fase preparatoria del pensiero, dello studio, di ricerca con se stessa. Non è una folle sprovveduta e non è che i quadri si possono buttare giù di sola foga espressiva.
Questa volta sono nati dieci oli su papel misionero, dieci presenze dotate di vita propria nel magma instabile di una pennellata fortemente gestuale e dal segno graffiante e violento. Mi ha ricordato molto De Kooning, in particolare quegli inquietanti archetipi femminili, La Madre, così mostruosi e detentori di un grande potere sull’Universo. C’è tanta materia che si incrosta sul supporto, denotando una forte urgenza espressiva che ci riporta ai tempi di Van Gogh e all’Espressionismo di Heckel, ma la tavolozza è tutt’altro che solare come nei girasoli o nei campi di grano. C’è tanto dell’angoscia e dell’instabilità delle forme di Munch. Dominano le tinte fredde, il blu, il viola, il nero, con lampi di rosso crudo e verde acido e improvvise incandescenze lunari (a mio avviso, il punto forte della pittrice) che rappresentano la conquista del mondo irrazionale e sovrasensibile la cui unica porta d’accesso è la follia: insieme un privilegio e un prezzo
da pagare alla società dei cosiddetti normali. I soggetti sono per lo più tratti dall’infanzia, dal mondo delle favole (Claudia organizza anche laboratori creativi per bambini): c’è la volpe con grandi occhi di civetta, il lupo mannaro, il clown, la terribile casetta nel bosco della nonna di Cappuccetto Rosso o della strega di Hansel e Gretel;
c’è la bambola con le grandi labbra rosse, una femminilità che non riesce a prendere vita e movimento, a fuggire dalla fissità di una creatura di pezza, da quello che gli altri si aspettano. La grande scimmia che ridacchia: una risata perfida, la paura di impazzire. Titoli che rimandano ai doppi che si completano, ragione e sentimento, allegria e tristezza, a un dissidio interiore che deve rimanere un enigma inestricabile, pena la piattezza emotiva, l’assenza di ispirazione, la normalità. Mi ha colpito molto l’immagine di un asino a riposo nel pulviscolo dell’atmosfera rosata, di un’alba amena. Lì ci ho visto il sentimento più positivo di tutti, il sogno come ricreazione dell’anima e Paradiso perduto, e ho subito pensato ai quadri notturni e romantici di Chagall, dove l’asino è un elemento presente nella mitologia popolare e contadina e, naturalmente, all’Asino d’oro di Apuleio: la mente è volata verso Amore e Psiche, la mia favola preferita. Si rivela qui l’“anima gentile”, la ricerca di un mare calmo dentro un inconscio in burrasca.
Rileggo il testo poetico e bellissimo che introduce l’opuscolo della mostra, di Sarina Aletta: «Quando l’impulso irresistibile del gesto svela abissi tormentati dell’anima dove bellezza e orrido lottano in passionale amplesso.» In queste poche e preziose parole, c’è tutto. L’abisso, l’estasi, la ricerca, l’angoscia, la Donna.
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INQUIETA IMAGO
di Claudia Bellocchi
da domenica 19 febbraio a sabato 11 marzo 2017
Teatro Villa Pamphilj (Villa Doria Pamphilj)
Via di S. Pancrazio, 10
Roma
Finissage ed incontro con l’artista Sabato 11 marzo alle 16:30
Orario mostra:
martedì – domenica 9.00 – 19.00
Informazioni:
tel. 06/5814176
Ingresso libero
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