L’attacco della Destra al direttore del Museo Egizio di Torino è l’ultimo di una serie di disavventure della cultura e della sua conservazione e diffusione. Christian Greco è un noto egittologo e anche bravo manager, qualità che non si trovano sempre insieme nelle direzioni di musei e sovrintendenze. Eppure c’è chi spinge per la sua rimozione in base a motivi ideologici. Vittorio Sgarbi, pur legato all’attuale governo, ha difeso Greco riconoscendone la cultura e i meriti, ma resta la domanda: perché la politica si occupa di governare la cultura senza averne competenza? In più il Museo Egizio di Torino è una fondazione, quindi le nomine comunque non le fa il Ministero della Cultura ma il consiglio di amministrazione della fondazione stessa, organizzata in modo privatistico. Quanto poi all’ingresso di favore agli arabi residenti a Torino, nessuno ha pensato che l’Egitto è sì patria dei faraoni e delle piramidi, ma gli eredi del patrimonio archeologico e artistico dell’antico Egitto sono in questo momento gli arabi. In più c’è un movimento di pensiero – non necessariamente settario – che vede nello sviluppo dell’antico Egitto l’incontro fra culture africane e asiatiche piuttosto che un “unicum” sorto dal nulla e fiorito in modo autonomo per migliaia di anni.
Altro museo nei guai: il prestigioso British Museum, dove un curatore addetto all’organizzazione di mostre ha sottratto per una ventina d’anni almeno duemila reperti dai magazzini per rivenderli persino su Ebay. Questo collaboratore era stato licenziato, ma evidentemente George Osborne, nella sua veste di presidente dei trustee del British Museum, aveva cercato di non dar troppa pubblicità alla notizia, che invece è alla fine esplosa e ha portato non solo alle sue dimissioni, ma anche a pressioni da parte di governi stranieri – quello della Grecia per primo – per chiedere la restituzione dei reperti ”acquisiti” in passato: se un museo straniero non ne garantisce la sicurezza, meglio allora riportarli a casa.
Avendo lavorato per molti anni nei musei, ne ipotizzo però anche alcune criticità. La prima è la mancanza di investimenti nella cultura, soprattutto per quanto riguarda le strutture di conservazione. Musei, archivi e biblioteche richiedono personale specializzato ma producono risultati nel lungo periodo, mentre rendono dividendi immediati se trasformati in economici contenitori per mostre temporanee finanziate da ditte esterne e con un forte indotto commerciale. Non a caso il ladro del British Museum era un noto curatore di mostre. Ma questo spostamento di risorse penalizza gli altri investimenti: a parte i sistemi di allarme, la catalogazione può rimanere indietro di anni per mancanza di archivisti e funzionari specializzati. Ogni museo ha i magazzini pieni di materiale acquisito per donazioni private, recuperi di fondi da altri enti, scavi archeologici o sequestri giudiziari. Ma se un pezzo non è catalogato e fotografato non sarà possibile identificarlo se immesso sul mercato antiquario. In più c’è anche l’imprudenza di alcuni funzionari che permettono l’accesso ai magazzini anche a persone esterne alla struttura, sempre che gli interni siano tutti onesti. I furti nei musei avvengono sempre nei magazzini e non certo in sala dove tutto è esposto. Ma posso citare anche l’esempio di un funzionario di museo che per la compilazione del catalogo ha chiamato un collezionista, senza rendersi conto della possibilità che un reperto nei depositi possa essere sostituito con un altro dello stesso tipo ma di minor valore.
Strano
destino quello dell’Autunno caldo, ad ogni decennale si deve fare i conti con
un sempre minore interesse della storiografia e del discorso pubblico sull’annus mirabilis del movimento operaio
italiano. Che lo si guardi dal punto di vista della storia del movimento
sindacale, che proprio dal 1969 e almeno fino al 1975 visse i suoi anni d’oro,
riuscendo anche parzialmente a influenzare – se non determinare – l’agenda
politica del Paese, o da quello della storia della conflittualità sociale più
in generale, questo cinquantesimo
anniversario sembra scorrere in un assordante silenzio, proprio in un’epoca in
cui i lavoratori e le lavoratrici non sono viste – e spesso non si vedono –
come soggetti dell’agire sociale e politico – ma come un melting pot (frastagliato per condizioni economiche, normative,
etniche, di genere, generazionali) in attesa di elargizioni e concessioni
dell’imprenditore o del politico di turno. Un disinteresse crescente, quindi ha
caratterizzato le vicende del movimento operaio italiano negli anni della sua
“rigenerazione” e della sua esplosione, sul quale aveva già messo in guardia 30
anni fa, proprio nei giorni in cui cadeva il Muro di Berlino, Marco Revelli, quando
nella sua introduzione alla raccolta di interviste fatte da Gabriele Polo agli
operai della Fiat di Mirafiori, scriveva di «ventennale dimesso» del 1969
operaio[1].
Una
consapevolezza ben presente anche in Diego Giachetti, fra i pochi studiosi che
in questo frangente ha mantenuto viva la fiammella della ricerca sulla
conflittualità operaia degli anni Sessanta e Settanta in Italia. La sua idea,
che condivido, è che il ’69 operaio interessi meno perché nell’immaginario collettivo
sembra un evento più lontano dalle condizioni dell’oggi, meno assimilabile alle
esigenze del discorso pubblico: «roba da vecchi operai [e militanti politici
aggiungerei io] irrecuperabili e prigionieri del passato colpiti dall’”infamia”
originaria e incancellabile di una classe operaia che, si dice, oggi non esiste
più» (p. 11). Eppure, e qui sta l’importanza del lavoro dell’autore, oggi
invece vale la pena uscire da una vecchia tematizzazione dell’Autunno caldo, ma
ne va evidenziato il suo ruolo nel contesto spazio-temporale dell’epoca:
perché, Giachetti lo afferma subito nell’apertura del saggio, non è possibile
scindere le vicende operaie di quegli anni da quelle studentesche che le
avevano precedute (e che anzi alle quali si erano affiancate proprio le prime
lotte autonome, come a Valdagno, Milano, Porto Marghera, Pisa, ecc., né
dall’ondata di lotte operaie che in tutto il mondo occidentale capitalistico,
ma anche in diversi Paesi del socialismo reale e del cosiddetto Terzo mondo in
via di industrializzazione, avevano fatto salire alla ribalta una nuova classe
operaia (Hobsbawm). L’obiettivo di questa riedizione ampliata del lavoro di
Giachetti è quindi, da una parte, sgombrare il campo da artefatte separazioni
fra un ’68 studentesco e un ’69 operaio, mentre, dall’altra quella di far
uscire l’Autunno caldo dal recinto (altrettanto artefatto) del provincialismo
italiano.
Oggetto
centrale della ricerca è la cosiddetta “battaglia di corso Traiano”, i violenti
scontri che, a ondate, si perpetrarono nella giornata del 3 luglio del 1969 a
Torino nell’area che grosso modo va da Corso Tazzoli (Porta 2 della Fiat) e,
attraverso Corso Traiano per l’appunto, si estende verso Est nella direzione di
Piazza Bengasi e, verso Sud, in quella dei comuni di Nichelino e Moncalieri. La tesi sostanziale è che dietro la violenza
di piazza del 3 luglio a Torino si nascondevano le nuove caratteristiche della
lotta operaia sia dal punto di vista dei contenuti (aumenti salariali uguali
per tutti e sganciati dalla produttività, riduzione dell’orario di lavoro), sia
da quello delle forme di lotta, di comunicazione, di organizzazione (le
assemblee, i cortei interni, le spazzolate dei reparti, i cartelli e gli
striscioni, anche la violenza). Soprattutto, corso Traiano rappresenta il
collegamento di questo con quelle che Giachetti chiama le “variabili esterne”
alla fabbrica, come il diritto alla casa, alla scuola ai servizi essenziali.
Il
libro si struttura in due parti. La prima (capitoli 1-6) illustra la cosiddetta
“primavera” di Mirafiori e i suoi prodromi: dalla ripresa della lotta operaia
del 1968, con le punte rappresentate dalla Fiat e dalla Lancia, all’esplosione
degli scioperi più o meno spontanei dell’aprile-maggio 1969 a Mirafiori; l’analisi
dei soggetti politici e sindacali e delle loro condizioni in quel momento
(sindacati, Pci, Psiup, ma anche i gruppi dell’estrema sinistra torinese, da Il
Potere operaio di Torino, al Fronte della gioventù lavoratrice, alla Lega
studenti-operai), e poi del movimento studentesco torinese, nella sua parabola
e crisi proprio nei primi mesi del ’69, fino alla decisione (su spinta di
Adriano Sofri e del Potere operaio pisano) di riversarsi alle porte di
Mirafiori; il soggetto sociale della primavera di Mirafiori, che all’inizio è
ancora la classe operaia piemontese più specializzata, ma che da giugno passa
la mano ai “meridionali”, la cui immigrazione, dopo la parentesi 1960-62, era
ritornata a scorrere copiosa a Torino, grazie all’espansione di Mirafiori e
all’apertura di Rivalta; la miscela esplosiva che l’incontro fra questi
soggetti diede vita all’Assemblea operai studenti (di cui proprio domani
ricorre l’anniversario della fondazione ufficiale).
La
seconda parte è suddivisa in nove capitoli e riprende l’impianto narrativo che
Dario Lanzardo aveva usato nel suo brillante lavoro su Piazza Statuto
(d’altronde Giachetti non fa mistero di esservisi ispirato). Partendo da una
cronaca minuziosa dei fatti (attraverso sia le fonti giornalistiche, quelle
autoprodotte dal movimento e le fonti giudiziarie), l’autore passa poi ad
analizzare le varie versioni che degli scontri diedero la Questura, i mass
media, i partiti di sinistra (Pci, Psi e Psiup), i sindacati, l’Assemblea
operai e studenti e gli anarchici. Infine l’autore affronta la coda giudiziaria
che gli eventi ebbero successivamente e l’epilogo dell’esperienza
dell’Assemblea operai studenti, col convegno del 26/27 luglio al Palazzetto e
l’esplosione delle divisioni non solo fra le due aree egemoni nell’Assemblea
(il gruppo Sofri-Viale da una parte, quello de La Classe dall’altra), ma anche
con quelli locali che poi avevano svolto il ruolo di pionieri e che si
allontanano per primi dall’Assemblea (Soave, Gobbi, Rieser, Lanzardo). Il libro
si chiude con la pubblicazione (o la ripubblicazione) di alcune testimonianze
dei protagonisti di quella giornata (Mario Dalmaviva, Luigi Bobbio, Renzo
Gambino).
Il
volume di Giachetti, meticoloso nella ricostruzione degli eventi, è anche
foriero di spunti e suggestioni interpretative che meritano – e meriteranno –
di essere approfondite su alcuni temi: il ruolo dell’operaismo, la
sottovalutazione della capacità di rinnovamento sindacale, l’autunno caldo come
fase di apertura rivoluzionaria o in realtà come canto del cigno dell’operaio-massa.
[1] M. Revelli, “Dimenticare Mirafiori”?, in G. Polo, I Tamburi di Mirafiori, Torino, Cric Editore, 1989, p. V.
La rivolta di Corso Traiano. Torino, 3 luglio 1969
Diego Giachetti
Editore: BFS Edizioni, 2019, p. 152
Prezzo: € 16,00
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