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Galata, piede italiano ad İstanbul

Da sempre ponte fra due mondi, la città di İstanbul fu uno snodo centrale per il commercio delle Repubbliche marinare, le quali proprio qui posero alcuni dei propri centri più importanti. Menzione d’onore, naturalmente, per Galata, un possedimento genovese destinato a far la storia di questa città.

Colonia genovese

 Come tutte le altre Repubbliche, anche Genova aveva fondato la propria base commerciale nell’allora Costantinopoli, in un luogo separato dal resto della città e fino ad allora chiamato Sykais Peran, alla lettera: Il campo di fichi dall’altra parte. Sarà la Quarta crociata, però, a trasformare definitivamente in genovese il quartiere, legando per sempre la sua storia al Bel Paese. Durante quest’ultima, infatti, i crociati, capeggiati da Venezia, misero a ferro e fuoco la città, fondando l’Impero latino di Costantinopoli e creando la spaccatura che tutt’oggi esiste fra cattolici ed ortodossi. I genovesi, però, aiutarono i bizantini a riprendere il controllo della città e così, nel 1273, il quartiere di Galata venne donato Michele VIII Paleologo ai liguri.

Galata
İstiklal Caddesi a Galata

La colonia crebbe e prospero, diventando senza dubbio l’insediamento italiano più storico al di fuori della Penisola e permettendo ai suoi abitanti incredibili ricchezze e rotte privilegiate verso la Crimea, all’epoca centro nevralgico per il commercio di pellicce. Nel 1453, essendo certi della capitolazione della città, non fecero troppe resistenze alla conquista ottomana, consegnando, anzi, di propria spontanea volontà le chiavi della celebre torre di Galata.

Galata

Le fortune del quartiere non finirono, però, con la conquista turca venendone agevolati in moltissimi aspetti. L’Impero tenderà infatti a suddividere i popoli per fede, piuttosto che per etnia, e ciò porterà le anime cattoliche della città a riunirsi proprio in questa zona, trasformandola in una delle vie principali della città per il commercio.

Galata
İstiklal Caddesi a Galata

La cosiddetta “Nazione latina”, composta sopratutto da italiani e francesi, godrà di un ruolo privilegiato nel traffico di mercanzie e nel ruolo di ambasciatori, situazione ulteriormente favorita dalle “capitolazioni” ottomane. Tramite questi trattati, i cittadini stranieri residenti nell’Impero venivano giudicati secondo la propria giurisdizione, cosa che gli permise spesso di ottenere condizioni agevolate rispetto ai locali. Con le guerre fra Italia e Sublime Porta, il quartiere venne pian piano svuotato della sua popolazione italica, che tuttavia risiede ancora oggi nel luogo fondato dai propri antenati. Un pezzo d’Italia in Turchia. (Non a caso il Galatasaray è tutt’oggi il club calcistico più “europeo” di Turchia)

Il sogno della Turchia nuova


Alla fine non hanno retto neppure Fatih e Üsküdar. Anche quelle moschee a cielo aperto che sono le strade dei due popolari quartieri che dalle sponde europea e asiatica amoreggiano sul Bosforo hanno votato a maggioranza per l’uomo nuovo dell’immensa metropoli turca. 49.51% a Fatih, 54.26% a Üsküdar contro il 49.37% e il 44.80% presi da Yıldırım. L’Akp regge ampiamente solo in qualche area (Esenler 61.03%, Arnavutköy 60.22%, Bagcilar 56.62%). Invece dove pulsa il cuore giovanile, il turismo e le rivendite commerciali (Beşiktaş, Kadiköy, Bakirköy) le percentuali sono scudisciate taglienti per il partito di governo, e İmamoğlu trionfa con quote stratosferiche: 83.90%, 82.36% 79.33%. Brividi sulla schiena del navigato Erdoğan che dovrà – e lo sa – rapportarsi al nuovo orizzonte. Visto che altre elezioni  non sono previste sino al 2023, per starsene in sella tranquillo sino a quella scadenza da lui tanto ambìta per via del centenario della Turchia moderna che lo condurrà nella grande Storia al pari di Atatürk e finanche di Solimano, dovrebbe ridimensionare le smanie di potere e strapotere. Abbassare i toni polemici, il clima da guerra civile, le vendette e le divisioni polarizzanti. Ci riuscirà? In molti casi gli avversari, che diventano nemici, creano essi ulteriori percorsi di scontro, ma il Sultano  direttamente o meno è protagonista di questo processo.

Per ora ci sono stati i complimenti al nuovo sindaco e i pronunciamenti di collaborazione di quest’ultimo che da semisconosciuto s’appresta a lanciare la leadership nazionale nel partito repubblicano. Ovviamente coi dovuti tempi. Alcuni politologi hanno avvicinato i due proprio riguardo allo sviluppo di carriera. L’elezione di İmamoğlu somiglia per certi versi a quella del primo Erdoğan che si prendeva una città dinamica dove la politica degli anni Novanta non voleva lasciar spazio all’opposizione, in quel caso islamista. Il desiderio di novità può smuovere quei turchi meno ideologizzati, che guardano al giorno per giorno e al portafogli da riempire col lavoro e svuotare con buone prospettive presenti e future. Quelle per un buon tratto garantite dall’Akp e da almeno un biennio messe in discussione anche dalle fluttuazioni politiche spregiudicate e personali dell’uomo che vuole essere tutto. In queste ore, grazie alle buone maniere fra vincitori e sconfitti, i mercati finanziari hanno offerto un po’ di tregua alla Banca nazionale e alla malandata lira turca che ultimamente ha perduto l’8% sul dollaro statunitense. Un’incognita addirittura maggiore di quella dei rapporti cordiali col maggior partito d’opposizione riguarda ipotetiche scissioni interne all’Akp.

Dividere le forze sarebbe suicida, ma ciò che è accaduto in questi anni a personaggi di primissimo piano: l’ex premier e presidente Gül, l’ex ministro degli esteri Davotoğlu, il tecnocrate Babacan, tutti messi da parte dalla strapotere erdoğaniano, da oggi non dovrebbe essere più possibile. Per il suo futuro di governo, di partito e anche della sua funzione pubblica Erdoğan dovrebbe ridimensionare il super Io che lo caratterizza da sempre. Però una questione vitale è: quali personaggi di spessore può mostrare un partito nell’ultimo quinquennio letteralmente fagocitato dal personalismo del capo? Pur dotato di enorme fiuto tattico il Sultano s’è guadagnato l’epiteto proprio per aver promosso solo ‘yes men’ e fidatissimi politici di clan e in qualche caso parenti acquisiti. Ora – il gossip che neppure il Mıt riesce a tacitare – racconta che Berat Albayrak piazzato alle Finanze per presunte competenze e per la fidelizzazione con cui anni addietro avrebbe condotto operazioni finanziare favorevoli ai tesoretti speculativi di quello che diventava suo suocero, sembra essere in rotta col potente papà di sua moglie Esra. Motivo della contesa l’infedeltà coniugale del genero, che un leader e uomo di mondo “può capire”, ma un padre della patria islamico deve censurare. Per ora silenziato è da alcuni giorni il chiacchiericcio del web che commentava le scappatelle erotiche del ministro con una turca tutt’altro che casa e moschea: l’avvenente modella Özge Ulusoy.

Con un contorno neppure poetico come quello offerto dal celebre triangolo amoroso Kemal-Füsun-Sibel dello splendido “Museo dell’innocenza” di Orhan Pamuk. Ecco, forse nella Turchia che si prospetta per i prossimi mesi dove, per attutire il colpo della perdita di Istanbul il presidente dovrebbe attenuare la polarizzazione, proprio le menti libere degli scrittori finiti nella macina della repressione contro tutto e tutti potranno ricevere il conforto della tolleranza. Forse. I giornalisti molto meno, poiché l’orgoglio del cuore laico di Istanbul difficilmente potrà creare un’enclave nell’attuale ordinamento giuridico che nei tre anni della repressione anti-golpe ha assimilato qualsiasi pensiero diverso da quello di Erdoğan ad attentato alla sicurezza nazionale.  Con conseguenti processi e condanne. L’abbraccio festoso fra İmamoğlu e la folla dei suoi elettori è risultato assai scenografico, come il suo ringraziamento: “Voi avete protetto la reputazione della democrazia nel nostro Paese”. Bisognerà vedere cosa potranno fare per la democrazia a livello nazionale i partiti d’opposizione grandi e piccoli. Qualche commentatore turco s’aspetta un rimpasto governativo, soprattutto per tenere botta su politica economica ed estera e non allargare al quadro istituzionale il ko tutt’altro che marginale di ieri.

Enrico Campofreda
Pubblicato il 24 giugno 2019
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TUrchia, dai buoni propositi ai pugni


Son durate un batter di ciglia le buone intenzioni che lenivano le polemiche del dopo voto in Turchia. Per due settimane i rappresentanti dell’Akp, sconfitti, soprattutto a Istanbul e Ankara avevano ripetuto il mantra di necessari riconteggi dei voti, di ricorsi peraltro inoltrati dal partito alla Commissione elettorale. Poi d’incanto il 20 aprile era giunto un discorso conciliatore di Erdoğan: “… E’ tempo di pensare al futuro della nazione, di raffreddare i bollori elettorali, di stringerci le mani e collaborare sui temi dell’economia e sicurezza” dichiarava il presidentissimo. “Abbiamo completato una maratona elettorale, le consultazioni si sono svolte nello spirito della democrazia e della legge. Ci sono state discussioni politiche, ma queste non gettano ombre sul funzionamento democratico”. Pur riferendosi ai ricorsi, evidenziava la necessità di rimettersi alle decisioni supreme, come a voler parlare all’intera classe politica volta agli interessi del popolo rispetto a quelli di parte. Faceva intendere che l’intero establishment ha di fronte quattro anni sino alla prossima scadenza elettorale, dovrà utilizzarli per la stabilità nazionale. Il fulcro della ricetta dettata è esplicito: per eliminare il terrorismo e rilanciare una crescita economica servono i segmenti di tutta la società, perciò gli addetti ai lavori devono occuparsi degli 82 milioni di turchi, superando le  differenze pur esistenti. “Vista la campagna della stampa occidentale contro la nostra economia, qualunque siano i titoli dei giornali noi continueremo il nostro percorso”. In coda all’intervento attaccava il Financial Times, reo di giudicare l’economia turca collassata. “Hey,sei a conoscenza che la Turchia ospita quattro milioni di siriani?” chiedeva alla prestigiosa testata con la spocchia di chi si sente al sicuro. Questo il recentissimo Erdoğan-pensiero. Ai vertici del Chp non pareva vero. Sostenitori, come si dichiarano, del bisogno di accantonare polemiche e soprattutto vincitori delle amministrative erano lieti della distensione.

Non avevano fatto i conti con la base dura e pura dell’Akp. Così  quando il 21 aprile il leader Kılıçdaroğlu s’è recato in un momento  caldo, in una zona ancora più calda (Çubuk nel distretto della capitale), è stato preso a pugni da un gruppo di uomini. Erano i  partecipanti al funerale d’un soldato morto nei giorni precedenti sul confine iracheno, durante un conflitto a fuoco con guerriglieri del Pkk. Il leader repubblicano scosso è stato portato via dalle guardie del corpo che l’hanno tenuto in una casa nelle vicinanze, dove comunque la folla s’è radunata minacciosa. Per sbrogliare la situazione sono giunti reparti di polizia e squadre speciali. Il ministro dell’Interno dell’attuale governo (Akp più Mhp) Soylu e anche altri esponenti della maggioranza si sono immediatamente attivati per tamponare e giustificare il buco della sicurezza che riportava alla mente le scazzottate istituzionali avvenute nell’aula parlamentare durante le accesissime sedute per l’approvazione della riforma costituzionale che ha trasformato la Turchia in Repubblica presidenziale, con gli attuali superpoteri al presidente. Allora a darsele erano focosi onorevoli (dell’Akp e del Chp). Stavolta il mite Kılıçdaroğlu risulta bersaglio, mentre fra gli aggressori, inizialmente indicati quali familiari e amici della vittima, c’è un leader locale dell’Akp. La faccenda ha messo imbarazzo al partito di governo che ha repentinamente riunito i probiviri annunciando l’espulsione di quell’elemento, visto che lo statuto Akp bandisce ogni violenza pubblica e privata. Ma è bastata la giornata di ieri a rinfocolare accese dichiarazioni dei vertici dei due partiti. Il segretario repubblicano afferma: l’aggressione non è stata casuale, bensì pianificata. Il ministro dell’Interno rinfaccia a Kılıçdaroğlu un intento provocatorio: in campagna elettorale in varie località aveva accettato sostegno e voto degli attivisti del Partito democratico dei popoli, considerati dal governo fiancheggiatore del Pkk. Dunque, in cinque giorni, il Paese si ritrova a fronteggiarsi e la volontà di collaborare appare già archiviata.

Pubblicato il 23 aprile 2019
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Europa e la geopolitica

La politica estera europea è manchevole nello scacchiere internazionale, escludendo l’accordo sul nucleare iraniano, nonostante un capace Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza dell’Unione europea non hanno gli strumenti per offrire una posizione unitaria dei paesi membri verso le varie crisi.

08 GL OlO Ue Europa e la politica estera_Congresso_di_ViennaI paesi membri della Ue, nel dossier libico, sono schierati con la posizione dell’Onu, stando alle varie dichiarazioni, nel sostenere il cosiddetto governo di unità nazionale guidato da Al Serraj, senza un vero esercito e con gruppi armati eterogenei assoldati, incapace di avere autorità neanche sulla sola Tripoli, mentre con il generale Haftar, militarmente compatto e vincente sulle fazioni jadeiste più estreme, rimane attendista nell’aprire un serio canale di dialogo con il padrone della Cirenaica.

A parole sono schiarati con Al Serraj, ma di fatto nel miglior dei casi si disinteressano se non parteggiano per il generale, lasciando che la Francia e l’Italia si muovano in ordine sparso. Parigi ha fatto incontrare i due contendenti per stipulare un cessate il fuoco e indire un referendum, Roma li incontra separatamente per poter organizzare la conferenza sulla Libia a Palermo il 12 e 13 novembre.

Una gara, quella italofrancese, che ha come trofeo gli interessi petroliferi dell’Eni e della Total che provano a trovare una pax sulle sabbie libiche che potrebbe facilitare anche la strada a una risoluzione politica.

Non sarebbe la prima volta che le soluzioni dei conflitti si trovano nei “corridoi” delle conferenze e quello che si prospetta tra l’Eni e la Total potrebbe essere l’inizio di una collaborazione su progetti in Algeria, Libano ed Egitto, ponendo fine all’ostracismo francese verso l’impegno italiano.

Lo sforzo italiano per la conferenza internazionale sulla Libia si è incentrato sul riunire allo stesso tavolo non solo Al Serraj e Haftar, ma anche l’Unione europea con l’Alto rappresentante per gli affari esteri Federica Mogherini, il governo turco, quello egiziano, quello russo ed altri paesi coinvolti nella crisi libica (Tunisia, Ciad, Niger etc.), mentre dagli Stati uniti è arrivata una “approvazione” all’iniziativa. Alcuni degli invitati hanno anche degli interessi nella situazione siriana e normalizzare l’una può acquietare l’altra.

La situazione siriana è un altro dossier dove l’Unione europea non la si vede protagonista, ma neanche invitata, mentre al summit del 27 ottobre ad Istanbul erano presenti la Francia, la Germania, la Turchia e la Russia, che ha spedito gli inviti e dato le carte.

Una riunione preparatoria ad una conferenza sulla Siria dove esporre ai siriani, governativi o ribelli, ma anche alle milizie iraniane un piano di normalizzazione.

Per arrivare a trovarsi ad Istanbul sono stati necessari gli incontri di Sochi e Astana, senza statunitensi ed europei, ma con siriani e iraniani, con il risultato di generiche dichiarazioni sulla necessità di trovare una risoluzione politica al conflitto, con un Assad riluttante ad accettare un compromesso con un’opposizione che in otto anni non è riuscita a scalfire il suo potere.

Anche il 28 e il 29 novembre i russi, i turchi e gli iraniani hanno continuato a disquisire per l’11 volta, nella capitale del Kazakhstan, sul futuro siriano e la spartizione delle regioni occidentali.

L’Onu, con il suo inviato per la Siria Staffan de Mistura, ha portato avanti sconfortanti incontri a Ginevra per accordarsi sul riformare la Costituzione e convocare elezioni politiche, sotto la supervisione delle Nazioni Unite, ma l’unico risultato di tutti questi incontri è stato, almeno per ora, di evitare un ennesimo massacro nella provincia nord-occidentale di Idlib, in cui vivono oggi tre milioni di persone, in gran parte profughi provenienti da altre zone di conflitto siriano.

La Siria potrebbe essere sottoposta ad una spartizione per aree d’influenza, replicando, a distanza di poco più di un secolo, la spartizione di quelle terre, ma questa volta non sarà il diplomatico francese François Georges-Picot e il britannico Mark Sykes a tirare le linee, ma il russo Putin e il turco Erdogan, con l’avallo dell’Iran, mentre, in assenza degli Stati uniti, la Francia e la Germania saranno i testimoni.

Ma gli Stati uniti sono presenti, con il loro continuo minacciare, nello scenario internazionale con il fare e disfare, come insegna il dossier iraniano, unica crisi dove l’Unione europea ha avuto un ruolo nel sintetizzare le varie posizioni per una soluzione che ora Trump utilizza nel punire o premiare le nazioni, non solo cancellando gli accordi raggiunti con l’Iran, ma applicando sanzioni a tutti quei paesi che intratterranno rapporti economici con Teheran senza l’autorizzazione statunitense.

Questo imbarazzo europeo nella politica estera è ben manifestata nella necessità dell’Alto rappresentante Ue anche nell’appoggiarsi ad una dichiarazione congiunta con i ministri degli Esteri e delle Finanze di Francia, Germania e Gran Bretagna, nell’esprimere il “profondo rammarico” dell’Europa per il ripristino delle sanzioni statunitensi nei confronti dell’Iran.

Anche nell’escalation provocatorio e conflittuale tra la Russia e l’Ucraina ecco l’asse franco-tedesco che si rende disponibile a fare da mediatori.

Un’Europa che prima di parla di esercito unico dovrebbe avere una politica estera condivisa, poi sapere cosa dovrebbe fare di una forza militare comune: se porsi in concorrenza con la Nato o farne parte come Ue e non più come singoli paesi.

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Qualcosa di più:
Siria: sette anni di cinismo
Siria: Aleppo peggio di Sarajevo
Siria: due coalizioni tra decisioni e desideri
Siria: la fuga diventa un videogioco alla Super Mario
Siria: continuano a volare minacce
Islam: dove la politica è sotto confisca
Ue divisa sulla Siria: interessi di conflitto
L’infelicità araba
La guerra in Siria vista con gli occhi di Sahl
Primavere Arabe: il fantasma della libertà

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La Turchia si libera dell’emergenza, non dell’ingerenza

  • – di Enrico Campofreda –

Il presidenzialismo assolutista studiato, cercato, ottenuto da Recep Erdoğan con l’ostinazione e il trasformismo con cui ha scioccato il mondo, mette ai suoi piedi tutti i settori del Paese. In questi giorni in cui si prepara un decreto di uscita dall’emergenza post golpe (rinnovata per sette volte nel corso di due anni), ne giungono altri riguardanti gangli economico-finanziari, istituzioni militari e culturali, tutti posti sotto strettissima ‘osservazione’. Vengono addirittura sciolti veri pilastri del laicismo culturale kemalista come l’Opera e i Balletti di Stato, il Teatro di Stato; veranno sostituiti da nuove entità le cui nomine di vertice spettano alla presidenza, non di particolari enti, ovviamente della Repubblica turca. Lo stesso Consiglio Superiore per la vigilanza, che aveva competenze ispettive su istituzioni pubbliche e private, eccezion fatta che per gli ambiti militari e giudiziari, subirà trasformazioni. I controlli s’allargheranno alle stesse istituzioni militari, al di là del rango fino alle alte gerarchie.

Scuole delle Forze armate, la Fondazione dell’apparato della sicurezza, le industrie che si occupano della difesa saranno oggetto delle verifiche del nuovo Consiglio. Il ministero delle Finanze avrà occhio e mani su Banca Centrale, Ziraat Bank e Halkbank, così come una serie di strutture (Agenzia di Supervisione e Regolamento Bancario e simili) verranno gestite dal ministro competente. Un tempo i ministeri coinvolti erano più d’uno. Un controllo ferreo più che dello Stato, del governo e soprattutto del sistema presidenzialista che può collocare uomini di propria totale fiducia nei ruoli chiave. Il settore dell’educazione, terreno in cui il gülenismo del movimento Hizmet aveva creato una rete fittissima di presenze e relazioni fra i suoi adepti, dopo lo stravolgimento operato con migliaia di arresti e decine di migliaia di rimozioni e dimissioni forzate, è in piena ristrutturazione. Le università vedranno collocati ai vertici rettori selezionatissimi, non tanto sul fronte delle competenze, quanto su quello delle obbedienze. Sarà l’occhio del presidente a scegliere i dirigenti degli atenei, per una certezza di omologazione al libero pensiero della nazione turca di modello erdoğaniano.

 

Un sistema al momento assolutamente vincente, e non solo elettoralmente. La forza del leader islamico che si fa nazione sta nella rete di alleanze interne e internazionali. Quelle globali lo hanno riposizionato, dopo la crisi di tre anni fa, nell’aggrovigliato scacchiere mediorientale. Il rapporto cordiale con l’omologo, anche in capo populistico-autocratico, Vladimir Putin, attualmente lo pone in una posizione di forza davanti a Trump medesimo. Che deve sciogliere il nodo delle forniture militari difensive previste dalla Nato (missili Patriot), aggirato dall’accordo per l’acquisizione del sistema russo S-400. Da gran giocatore d’azzardo qual è, per un ripensamento pare che Erdoğan chieda in cambio al presidente Usa la testa (nel senso di estradizione) di Fethullah Gülen. Se il baratto dovesse riuscire – sarà difficile, ma la folle idea vellica la vanità geopolitica del sultano – lui porterebbe al cospetto del popolo turco l’attentore all’unità patria. Un colpo di teatro opposto al colpo di stato. In questo il presidentissimo si supera, quasi giustificando l’ingerenza in materia teatrale.

Pubblicato il 17 luglio 2018
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dal blog di Enrico Campofreda