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Africa: Un Continente in ostaggio

Le società “occidentali” sono indirizzate all’aiuto in “sede”, trasformando la solidarietà in cooperazione e quindi in una occasione di stipulare contratti più con le comunità che con i governi centrali che hanno dato dimostrazione d’inefficienza e malafede nel gestire i cospicui fondi che organizzazioni internazionali e singole nazioni hanno destinato allo sviluppo di certe aree fondamentalmente ricche di risorse naturali.

Governi corrotti impegnati ad impoverire le varie popolazioni per arricchire i propri conti e che l’economista Dambisa Moyo mette sotto accusa, al pari degli stati “donatori”, nel libro La carità che uccide (2011), sottolineando Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo. Una spietata analisi per sollecitare le nazioni a non distribuire soldi a pioggia, ma creare delle partnership modello cinese.

In questo panorama di buone azioni si inserisce la Cina che, avulsa dai sensi di colpa per decenni di colonialismo, è ormai stabilmente presente in gran parte degli stati africani, senza far differenza tra governi autoritari e dittatoriali, con la realizzazione di infrastrutture ed industrie, raramente ecosostenibili, che con un piano di investimenti da oltre 60 miliardi di dollari pongono una seria ipoteca sul futuro sviluppo indipendente dell’Africa.

Un futuro dove la popolazione si sente consigliata ad imparare il mandarino ed a cedere le loro terre per coltivazioni gradite ai cinesi, ma senza i basilari diritti per i lavoratori.

Nel periodo coloniale anglofrancese i nativi dovevano parlare in francese o in inglese e coltivare cotone, caffè, tabacco, tè e così via, per ottenere la possibilità d’istruirsi, vedere le prime ferrovie e fare i domestici nei comodi edifici coloniali.

La Cina si sta sostituendo all’Occidente nello sfruttamento africano e la differenza sta nell’aver cancellato il debito ad una trentina di paesi, concedendo prestiti a lungo termine a tassi bassi, ma in entrambi i colonialismi non si fanno scrupoli nel procurarsi le materie prime a discapito dei diritti umani, della rappresentanza sindacale e della difesa dell’ambiente.

Come un pusher, la Cina, prima ti cancella il debito per poi prospettare altre forme di collaborazione, allettando i Governi con il fantasmagorico progetto della “Nuova via della seta” e fornendo infrastrutture in cambio di ricchezze naturali, aprendo nuovi canali di credito pronti a lievitare e con un futuro senza possibili di riduzioni.

Una politica quella cinese, in questo nuovo sfruttamento dell’Africa, che ha aperto la via ai paesi arabi, all’India e alla Turchia, nella cosiddetta strategia del soft power, accattivandosi l’amicizia e magari la fiducia, attraverso la vendita di tecnologie e formazione, illudendo i vari governi nell’astenersi ad intromettersi nelle politiche dei singoli paesi.

Le trame cinesi si allungano sul continente con l’adozione di 13 paesi della nuova valuta ‘ancorata’ allo yuan cinese, decretando la fine del predominio francese con il franco CFA (attuale acronimo di Comunità Finanziaria Africana), che porterà 350 milioni di persone ad usarla nel 2020 e farà tanto felice Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, allontanando il continente dall’Europa.

L’Occidente continua a perdere e varie strutture private, fondazioni e Ong, sembrano aver ispirato un nuovo modello di cooperazione allo sviluppo come strumento di politica estera, magari con la Ue come capofila, con Exco (The International Cooperation Expo) http://www.exco2019.com/ nel pensare e far conoscere “piccoli” prodotti che aiutano la vita in aree sfavorite, rivolgendosi alle aziende ed alle istituzioni impegnate nella ricerca scientifica, nell’innovazione tecnologica e nella formazione.

L’Italia, nel suo piccolo, è il primo Paese europeo per investimenti, con complessivi 4 miliardi di dollari nel solo 2016 per un totale di 20 progetti, posizionandosi al quarto posto dopo Cina, Emirati arabi uniti e Marocco.

La collaborazione tra le diverse organizzazioni nel confrontarsi e mettere a frutto le singole esperienze non è stata solo un’occasione di business, ma fa capire che non è necessario varare grandi progetti per stimolare l’economia di luoghi remoti. Coinvolgere l’infanzia nel rimboschimento o la costruzione di una scuola è un passo per l’emancipazione delle comunità a costi irrisori.

Far conoscere i lampioni mobili http://www.eland.org/ ideati da Matteo Ferroni per illuminare la vita delle comunità rurali del Mali, paese attraversato da un conflitto, l’energia solare per i pannelli al liceo Lwanga (Ciad) o il progetto Syria Solar, organizzato dall’Union of Medical Care and Relief Organizations (UOSSM) https://www.uossm.org/who_we_are, per svincolare gli ospedali siriani da una rete elettrica fatiscente e dall’utilizzo del diesel, le cucine solari promosse da Magis https://magis.gesuiti.it/progetto/cucine-solari/, la campagna “Più luce alla vita dei rifugiati” https://www.ikea.com/ms/it_CH/good-cause-campaign/brighter-lives-for-refugees/index.html di Ikea Foundation e UNHCR per fornire illuminazione sostenibile alle famiglie nei campi profughi, come anche le tende di ultima generazione http://www.abeerseikaly.com/weavinghome.php, sono solo alcuni esempi per non lasciare il campo ai mega finanziamenti come quello per la nave estrazione diamanti in Namibia o quello per il commercio del gas in Mozambico che non aiutano la popolazione, come dimostra la ricchezza petrolifera in Nigeria di esclusiva pertinenza di un ristretto gruppo politico-affarista.

Progetti ambiziosi come quello legato all’impianto idroelettrico della diga Gibe, sul fiume Omo, che si è rivelato fallimentare e che doveva anche favorire la coltivazione intensiva di canna da zucchero, ma che ha per l’ennesima volta sfavorito le popolazioni indigene, obbligate ad abbandonare le loro terre e costrette alla fame.

In questo panorama di esclusione delle popolazioni all’accesso alle ricchezze si inserisce l’elezione del vice ministro dell’agricoltura e degli affari rurali cinese alla carica di Direttore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (Fao) http://www.fao.org/news/story/it/item/1199205/icode/, che rafforza a tutti i livelli la presenza cinese, non solo in Africa, per indirizzare le economie dei paesi in cerca di uno sviluppo autoctono.

L’intervento della Fao, sino ad ora, si è dimostrato timido e con grandi studi di settore, ma forse il nuovo direttore sarà attento alle necessità delle comunità, facendo tesoro dell’esperienza delle piccole realtà nella realizzazione di orti comunitari e banche dei cereali, svincolando le comunità dai capricci dei potenti e magari sostenere la formazione di ragazzi e ragazze alla coltivazione del Pleurotus Ostreatus, un fungo che cresce in Africa occidentale, o nei progetti di piscicoltura, per renderli economicamente indipendente.

Un direttore che ha annunciato di far lavorare l’elefantiaca struttura, con la speranza che scelga di sostenere  quelle iniziative che non richiedano impegni finanziari milionari e di non essere il cavallo di Troia della finanza internazionale.

Uno sviluppo che l’Occidente, ancorato al suo senso di colpa, continua a contribuire con l’elargizione di soldi sino a quando trasformerà le sue “buone azioni” in una fruttuosa cooperazione per entrambe le parti.

Partnership difficilmente realizzabili in aree di conflitto come nella R.D. del Congo sconvolto da scontri etnici, come  in Etiopia e nella Repubblica Centrafricana, come gli scontri separatisti anglo-francofoni in Camerun e in Sudan con i militari che non mostrano di dare una svolta democratica alla destituzione di Al Bashir e in Malì e in Burkina Faso dove i jadisti fanno vivere la popolazione nella paura, come anche in Nigeria con i saccheggi e i rapimenti di Boko Haram e la presenza di varie missioni militari nei diversi stati riescono appena a contenere la violenza e sono ben lontani a stabilizzare la situazione.

Conflitti che alimentano le fughe e l’Occidente non potrà continuare ad erigere muri, rinviando una scelta condivisa per attrezzarsi all’accoglienza e renderla una ricchezza.

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Trump attacca la Cina ma colpisce la UE

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

L’ha detto recentemente anche Mario Draghi, il presidente della Banca centrale europea:“Nel protezionismo i mercati sembrano vedere molto di più che un danno all’economia. Potrebbero vederci un fenomeno molto più ampio che mette in dubbio l’intero ordine multilaterale raggiunto dopo la seconda guerra mondiale. Le incertezze sui dazi sono aumentate“. Il rischio, poi, è che la guerra dei dazi possa degenerare in guerra delle valute.

Le altalenanti minacce americane “dazi si-dazi no”, le ritorsioni, le sospensioni condizionate hanno creato l’instabilità che l’intero sistema economico mondiale sta pagando. Finora non ci ha guadagnato nessuno, non gli Usa, non la Cina e tanto meno l’Europa.

L’Europa e, di conseguenza, anche l’Italia ci rimettono più di tutti.

Direttamente, quando i dazi sono imposti sui settori agroalimentari e dell’auto. Giustamente la Coldiretti teme che la “black list” americana colpisca pesantemente i prodotti agroalimentari del made in Italy che sono esportati fuori dai confini comunitari per ben 4,2 miliardi di euro.

Dopo i settori dell’acciaio e dell’alluminio, il bersaglio numero uno dei dazi americani è quello dell’auto, in particolare le imprese automobilistiche tedesche. La Germania, com’è noto, esporta negli Usa auto per 42 miliardi di dollari. Il che significa un duro colpo anche per le imprese italiane della componentistica i cui prodotti sono esportati in Germania. La Germania, si ricordi, è il primo partner commerciale mondiale dell’Italia.

Poi indirettamente, poiché i dazi imposti alla Cina o al Messico colpiscono soprattutto prodotti altamente tecnologici, di cui molte parti provengono dall’Europa.

Inoltre, un’importante area di scontro è quella dell’aviazione civile, tra la Boeing americana e l’Airbus europea. Washington si lamenta dei sussidi erogati dall’Unione europea, dimenticandosi che tutti i suoi settori tecnologicamente importanti, militari e civili, godono da sempre di sostanziosi sostegni statali. Trump ha avuto l’ardire di portare la controversia persino davanti all’Organizzazione del Commercio Mondiale, la stessa istituzione che quotidianamente boicotta.

I dazi nei confronti della Cina, inizialmente del 10%, poi aumentati al 20%, su 200 miliardi di dollari di prodotti cinesi, potrebbero vedere una pericolosa escalation, e arrivare al 25% su altri 325 miliardi. Pechino ha annunciato ritorsioni su 60 miliardi di dollari di prodotti americani. Per esempio, sulle importazioni di soia, che finora coprivano il 60% della produzione americana.

Una delle aree di scontro più pericoloso verte intorno alle tecnologie informatiche, considerate di rischio per la sicurezza nazionale americana. Di conseguenza Trump si è mosso per il blocco verso l’azienda cinese Huawei e altre imprese simili. Come risposta, Pechino ha fatto subito sapere di voler sfruttare la sua posizione di principale esportatore mondiale di materiali delle cosiddette “terre rare” utilizzati per le tecnologie avanzate.

Si tenga inoltre presente che la Cina possiede obbligazioni del Tesoro americano per più di mille miliardi di dollari.

Anche la minaccia di Trump di applicare il 5% di dazi su tutti i beni importati dal Messico, per poi alzarli fino al 25%, andrebbe a colpire, tra l’altro, i settori delle automobili, dei mezzi di locomozione e dei televisori, dove la componentistica europea è molto rilevante.

Il Messico è il terzo partner commerciale degli Usa con circa 265 miliardi di dollari di esportazioni di merci. Negli anni passati molti produttori americani vi hanno trasferito le loro fabbriche per sfruttare il basso costo della mano d’opera. Gli effetti dei dazi non penalizzeranno solo gli esportatori messicani ma anche gli importatori americani, che, poi, aumenteranno ovviamente i prezzi per i consumatori finali.

Poiché la questione è il blocco dei flussi immigratori, la guerra dei dazi diventa immediatamente una guerra sociale con conseguente destabilizzazione politica. Trump, però, non può ignorare che la questione immigrazione ha ragioni economiche e sociali profonde e dimensioni epocali.

Recentemente gli Usa hanno tolto anche l’India e la Turchia dalla lista dei partner commerciali privilegiati, costringendo persino Nuova Delhi, da sempre amica di Washington, a reagire con delle contromisure commerciali.

In America, comunque, cresce l’opposizione contro la politica dei dazi e c’è la campagna “Tariffs hurt the heartland”, sostenuta da 150 organizzazioni di vari settori produttivi, che lamenta come i dazi colpiscano il cuore del paese e rischino di generare la perdita di 2 milioni di posti di lavoro.

Non sfugge che l’intento di Trump sia di colpire l’Unione europea. A Londra ha esplicitamente invitato la Gran Bretagna a uscire dall’Ue e le ha offerto accordi commerciali superprivilegiati. È un atteggiamento che va ben oltre l’attitudine di Trump!

È chiaro, tuttavia, che sono in gioco le strategie della grande finanza e i corposi interessi geopolitici di quel sistema che si chiama, fin dai tempi del presidente Eisenhower, “il complesso militare industriale americano”.

Pur mantenendo strette relazioni con gli Usa, il nostro alleato storico, l’Ue dovrebbe sfidare certi disegni dell’unilateralismo di oltre Atlantico. Potrebbe, invece, diventare il perno principale per la creazione di un nuovo sistema monetario internazionale basato su un paniere delle monete più importanti e non soltanto sul dollaro. Così potrebbe svolgere un’importante funzione di equilibrio geoeconomico e geopolitico tra gli attuali grandi attori internazionali.

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi
Pubblicato il 27 Giugno 2019
Articolo originale
da Frontiere


Europa: identità per esclusione

Molto prima delle elezioni europee la comunità del web si è interrogata sul senso dell’identità europea, a prescindere dall’immagine negativa percepita da chi vede nella UE solo un’eletta di burocrati e tecnocrati concentrati sull’economia e sulle regole, ma poco comunicativi con l’Europa dei popoli. Ma nei siti diciamo identitari l’immagine dell’Europa è mitica più che storica, icona di una comunità più sognata che reale, legata a una società preindustriale. A guardare anche superficialmente questi siti, intanto si direbbe che il Mediterraneo è totalmente escluso da un’Europa nordica e continentale. Volti, paesaggi, usi e costumi rimandano al repertorio del Sacro Romano Impero o del Reich millenario, dimenticando un grande imperatore come Federico II di Svevia, l’unico che ha realmente cercato di integrare nord e sud d’Europa. Vero è che nell’UE egemonia franco-tedesca si è sempre imposta sugli altri paesi, ma questa visione mitologica non fa altro che marcare l’esistente invece di ricrearlo. Il messaggio è emblematico: il sud dell’Europa non partecipa da protagonista all’identità europea, il che dimostra che certi pregiudizi datano dai tempi dei Franchi e Longobardi. Eppure la parola Europa parte da sud, è fenicia (Ereb, occidente). Europa era la figlia di Agenore re di Tiro, città fenicia oggi in Libano. Zeus, innamoratosi di lei, decise di rapirla e si trasformò in uno splendido toro bianco. Mentre coglie i fiori in riva al mare, Europa vede il toro che le si avvicinava. E’ spaventata ma il toro si sdraia ai suoi piedi ed Europa, tranquilla, vi sale in groppa. Ma il toro si getta in mare e la conduce fino a Creta, dove Zeus si ritrasforma in dio e le rivela il suo amore. Avranno tre figli: Minosse, Sarpedonte e Radamanto. Il senso del mito è che la civiltà arriva dal Medio Oriente, ma una volta traversato il mare quella cultura si sviluppa con una vita propria.

Ora, se il mito di Europa è greco, il concetto di Europa risale al medioevo; prima era tutto Imperium Romanum e il termine geografico per i greci indicava in modo generico una terra a nord del Mediterraneo, dai confini ancora indefiniti. Il primo a usare il termine è a fine del VI secolo l’abate irlandese San Colombano, futuro fondatore dell’abbazia di Bobbio, che lo cita (tutus Europae) in una delle lettere al papa Gregorio Magno. Il termine lo usa anche il monaco Isidoro Pacensis, per indicare i soldati di Carlo Martello che avevano combattuto a Poitiers (prospiciunt Europenses Arabum tentoria, nescientes cuncta esse pervacua). La battaglia aveva assunto infatti un grande valore simbolico: l’Occidente cristiano, idealmente rappresentato dall’Europa, aveva fermato l’espansione araba; e quindi Isidoro usa l’aggettivo “europeo” per attribuire un’identità collettiva ai guerrieri franchi che avevano fermato gli invasori musulmani. E infatti l’Europa politica nasce con l’impero di Carlo Magno, all’inizio del IX secolo, realtà che riunisce simbolicamente popoli romani, celti e germanici, sotto la guida dell’Imperatore e del Sommo Pontefice. Peccato che si ignorasse l’Impero Romano d’Oriente, che pur è durato mille anni ed era ben più solido del Sacro Romano Impero.

Tornando però ai nostri siti web, alcuni vanno più indietro: la vera Europa non è cristiana, ma pagana, ancestrale. L’iconografia è un misto di Nibelunghi e Trono di Spade, fra rune naziste, rudi guerrieri e bionde fanciulle in un paesaggio cupo e boscoso che fa rimpiangere il trascurato Mediterraneo. E se l’Europa è un continente che possiede una massima diversità culturale in distanze geografiche minime, questi siti misticheggianti esaltano l’identità europea non accogliendo o assimilando la varietà, ma operando solo per esclusione, esaltando un cupo nordismo e mostrando famiglie patriarcali, guerrieri scorciati dal basso, uomini inseriti in un’economia contadina e una cupa vegetazione forestale, in mezzo a simboli runici ossessivamente ripetuti. Da un punto di vista elettorale, ci si può anche chiedere quanta presa possono avere queste immagini sulle masse inurbate che vivono nelle periferie delle metropoli piuttosto che nelle province del continente o nelle comunità locali isolate, serbatoio di voti per i partiti c.d. sovranisti (1). Sui motivi di questa immagine neopagana e paleoecologista in stile Frei Korps Kultur si potrebbe discutere, ma è probabilmente anche una reazione alle politiche cattoliche di accoglienza dei migranti e di dialogo con l’Islam che papa Francesco porta avanti quasi in modo ossessivo, provocando l’ostilità o almeno la diffidenza dei cristiani più conservatori e non solo di quelli, visto il successo dei partiti europei “sovranisti”.

Si è parlato di Islam. Ebbene, abbiamo scoperto che per ogni sito razzista europeo che incoraggia la maternità ariana ce n’è parimenti uno islamista o africanista che sogna unioni con bionde fanciulle da usare come fattrici per sommergere la vecchia Europa con nidiate di bimbi musulmani e donne convertite al velo. Gli stilemi ricordano una certa pornografia e sono anche pieni di minacce e profezie, le quali danno solo una giustificazione o almeno un appiglio ai teorici del complotto della sostituzione razziale e religiosa, altro mito che fa tutt’uno con il complotto mondiale dei banchieri. Ma si sa, in rete tutto è permesso. L’importante è che chi vota usi anche il proprio cervello

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NOTE

  1. La differenza fra nazionalismo e sovranismo potrebbe essere così definita: il nazionalismo tende ad aggregare popoli etnicamente e culturalmente affini, mentre il sovranismo crea un’identità mitologica esclusivamente per sottrazione, escludendo non solo i diversi ma persino gli affini.

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Europa: una speranza di Unione
Europa: Il clima delle nuove generazioni
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Europa: anche i tecnocrati sognano
Migrazioni, cooperazione Ue-Libia | L’ipocrisia sovranazionale
Migrazione | Conflitti e insicurezza alimentare
Migrazione in Ue: il balzello pagato dall’Occidente
Macron: la Libia e un’Europa in salsa bearnaise
L’Europa e la russomania
Europa: Le tessere del domino
Europa: ogni occasione è buona per chiudere porte e finestre
Migrazione: il rincaro turco e la vergognosa resa dell’Ue
Europa: cade il velo dell’ipocrisia
Arroccarsi nell’Arrocco: la posizione dell’Europa sull’immigrazione
Europa: i nemici dell’Unione
Russia: dalle sanzioni al tintinnar di sciabole
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Europa, fortezza d’argilla senza diplomazia
Erdogan, il pascià autocrate
Tutti gli errori dell’Unione Europea
Un’altra primavera in Europa

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Europa: Una speranza di Unione

Sono un monito per tutta Europa le traversie che sta affrontando il governo britannico per esaudire il risultato del referendum consultivo indetto da Cameron nel 2016,  del quale non si è mai pentito, per allontanarsi dall’Unione europea. I britannici stanno scoprendo di avere una economia debole, con dei politici incerti che rendono l’uscita dalla Ue un percorso ad ostacoli, tra hard e soft, che li sta portando ad eleggere, tra il 23 a il 26 maggio  insieme ad altri 27 paesi, i suoi parlamentari a Strasburgo.

Quello che la premier britannica si è trovata ad affrontare è un percorso accidentato, dove nessuno voleva arrivare ad un compromesso, con il risultato di una polarizzazione degli schieramenti che ha fatto crescere, nelle elezioni locali e parziali del 2 maggio, i partiti europeisti “minori” ed il rinato euroscetticismo di Nigel Farage con il suo Brexit Party, ex Ukip, punendo i Conservatori della May e i Laburisti di Corbyn, con un complessivo 30%, per i loro tentennamenti.

I risultati delle elezioni amministrative britanniche, quelle politiche spagnole, quelle presidenziali in Slovacchia con l’elezione di Zuzana Čaputová ed anche il vigore dell’opposizione in Polonia, fanno ben sperare in un nuovo spirito europeista.

Un europeismo da riscoprire anche grazie alla campagna antiastensionista Stavolta voto https://www.stavoltavoto.eu/, varata dal Parlamento europeo, per riflettere sul futuro dell’UE e su quale Europa volere, come suggeriva Vaclav Havel “Se non saremo capaci di sognare una Europa migliore, non costruiremo mai una Europa migliore”.

Un voto che potrà evitare il futuro apocalittico disegnato nel videogame sulla post Brexit Not Tonight http://nottonightgame.com/, Regno Unito autoritario che costringe ai lavori forzati i cittadini europei e l’economia britannica a rischio game over.

Anche l’iniziativa Bandiere al Balcone #unabandieraueinognibalcone, promossa da EuropaNow! http://www.europanow.eu/, vuol far uscire dall’anonimato i cittadini che credono che l’Unione permetterà di confrontarsi alla pari con la Russia, la Cina e gli Stati uniti, evitando di essere a rimorchio dei capricci di Trump o di Putin e non trovarsi manipolati dal premier cinese Xi Jinping con la sua via della seta.

Scegliere un futuro ripiegato su se stessi o aperto, sovranista e individualista, perché i cultori del proprio giardino non possono fare l’interesse di una comunità o di quello europeista per non essere obbligati a scegliere partner scomodi e trovare delle politiche comuni per un benessere condiviso.

Gli europeisti potranno fare, se uniti, gli interesse degli europei, salvaguardare i diritti e i doveri di tutti, mentre i sovranisti-nazionalisti hanno solo un comune obbiettivo: depotenziare l’Unione europea per disgregarla e dissolverla negli egoismi.

Sovranisti in ordine sparso, senza avere altro interesse che instillare paura nei singoli elettori e non lavorare insieme, come ha dimostrato il disinteressamento di Viktor Orban e Marine Le Pen nell’incontro milanese promosso da Salvini, ma un coro di applausi e lodi quando si tratta di chiudere porti, innalzare muri e inneggiare a blocchi navali per rendere l’Europa una fortezza inaccessibile alle persone in fuga da conflitti e carestie.

Una fortezza, quella europea, che sarà espugnata se non aiuterà le persone che cercano un luogo dove vivere senza paura e dal 23 al 26 maggio i 400 milioni di cittadini europei voteranno per eleggere non solo il nuovo Parlamento europeo, ma anche quale futuro vorranno dare alle prossime generazioni, magari riflettendo ai moniti dei giovani sui cambiamenti climatici e su una Europa del libero scambio di idee e di merci.

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Europa: Il clima delle nuove generazioni

Uno degli ambiti di conflitto tra le differenti popolazioni europee è il rapporto con i cambiamenti climatici, come lo dimostra la pacatezza dell’Unione europea e dei singoli parlamenti, e quando i governanti prendono dei provvedimenti “ambientalisti” una parte della popolazione esprime il suo dissenso per i costi che comporterebbe al loro bilancio famigliare nel cambiare le metodologie di vita.

Sembra sempre più difficile la convivenza tra l’Europa urbana e quella rurale, così il benessere metropolitano permette di guardare il futuro senza idrocarburi, mentre la mancanza di infrastrutture nella provincia non permette di rinunciare ai derivati del petrolio per la mobilità.

In questo ambito si inserisce la silenziosa protesta della giovane svedese Greta Thunberg che dopo anni di lettere e appelli decide, nel 2014, di protestare davanti al Parlamento del suo paese per sollecitare una diversa politica ambientale e contrastare i cambiamenti climatici.

Una protesta iniziata in sordina che ha raccolto dei giovani proseliti in tutta Europa, trovando pessimi i governanti impegnati a muoversi su dei tornaconti elettoralistici immediati invece di guardare al futuro per figli e nipoti.

La mobilità elettrica aiuterà a rendere l’aria delle città meno inquinata e con un’oculata gestione delle riserve idriche limiterebbe il moltiplicarsi degli incendi, ma anche le scelte alimentari possono porre un argine allo scioglimento dei ghiacciai.

Il manifestare davanti ai parlamenti delle varie città europee possono rendere visibile lo scontento ed indirizzare le politiche economiche, ma anche il comportamento dei singoli aiuterebbe l’ambiente a non uccidere la flora e la fauna.

Una marcia per preparare la manifestazione che si terrà il 15 marzo in tutto il mondo “Global strike for future” .

Greta Thunberg era presente, lo scorso dicembre, alla COP 24 (Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite) tenutasi nel sito carbonifero polacco di Katowice, additando gli adulti che si rifiutano di confrontarsi con le nuove generazioni e gli scienziati, rendendo, con il loro comportamento infantile, ogni conferenza inconcludente.

Nell’intervento di John Lanchester Climate change is the deadliest legacy we will leave the young, sul quotidiano The Guardian di febbraio avanza l’ipotesi che la peggiore eredità da lasciare ai giovani non è l’inflazione, le pensioni e l’austerità, ma il cambio climatico e  riscontra nella questione ambientale il vero motivo della disuguaglianza intergenerazionale.

Sempre a febbraio, sul The Guardian, David Wallace-Wells afferma, con l’articolo ‘The devastation of human life is in view’: what a burning world tells us about climate change di non essere stato un ambientalista e non pensa a se stesso come un amante della natura, ma come un “animale” urbano, circondato da tutti i gadget che gli rendono la vita facile, ma è stato sempre convinto della necessità di un ambiente pulito, accettando anche un compromesso tra crescita economica e salvaguardia della natura, perché la più grande minaccia che la vita umana sul pianeta abbia mai affrontato sono i cambiamenti climatici.

Con l’enciclica “Laudato si’ Papa Francesco esprime tutta la sua preoccupazioni per l’ambiente e la necessità di difendere la Natura o il Creato come meglio si preferisce, anche per il fatto che dal Protocollo di Kyoto (1997) a quello di Parigi (2015) non è cambiato nulla. Tanti buoni propositi, ma pochi i passi concreti, come dimostrano Cop24 di Katowice e gli incontri di Marrakech (Marocco) nel 2016 e di Bonn nel 2017, i grandi politici non sono andati oltre al fissare le regole per applicare l’accordo di Parigi.

Oltre oceano è Alexandria Ocasio Cortez, di poco più di un decennio più grande, la più giovane deputata eletta a Washington, che propone la Green New Deal, spingendo i democratici a sostenere una soluzione al cambiamento climatico in contrapposizione alla politica carbonifera di Trump.

È in atto una sorta di scontro tra le metropoli e le aree rurali, tra gli anziani non tutti restii ai cambiamenti e i giovani in gran parte aperti al Mondo, come si è potuto constatare nella ripartizione dei voti pro e contro la Brexit o nelle politiche polacche.

Il Futuro, non solo dell’Europa, è nelle mani delle nuove generazioni, come ottimisticamente viene annunciato su Liberation con Nous, enfants du XXIe siècle, allons prendre les commandes .

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