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Europa che si emancipa

L’Europa esiste, nonostante le minacce dei sovranisti leghisti e dei nazionalismi di Visegrád, forse non per essere una grande nazione, ma sicuramente come una forte confederazione, se riuscirà ad unificare le strategie economiche e la politica estera, trovando in un esercito europeo una forte coesione.

Come una forte coesione darebbe un Servizio civile europeo che possa offrire alle nuove generazioni delle occasioni non solo di essere coinvolte in attività sociali, ma anche di studio e conoscenza in qualsiasi paese dell’Unione.

Nella prospettiva delle Elezioni europee solo un’Unione che integri e che riesca a coinvolgere tutti i paesi aderenti sarebbe l’unico argine agli egoismi dei capi banda capaci solo di additare nemici. Gli appelli ad un fronte anti populista come quello lanciato da Massimo Cacciari può aprire ad un impegno militante degli intellettuali, se mai ha avuto senso questo vocabolo da trent’anni a questa parte.

La chiamata alle “armi” contro le destre sovraniste o nazionaliste che siano non ha prodotto risultati clamorosi, escludendo le parole di consenso di alcuni politici, come il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, per dare vita a un “campo largo”.

Walter Veltroni non si limita a ribadire la necessità di un dibattito sulla costruzione dell’alternativa, ma di distinguere il populismo da questa destra estrema che non si limita ad evocare una società chiusa, ma sbeffeggia il pensiero degli altri e lo demonizza, oltre a mettere in discussione il valore della democrazia rappresentativa, scagliando i propri anatemi contro il “nemico” di turno.

Nel 2015 una serie di intellettuali (Roberto Castaldi, Edmond Alphandery, Enrique Baron Crespo, Franco Bassanini, Vitor Bento, Lorenzo Bini Smaghi, John Bruton, Carlos Closa, Anna Diamantopoulou, Sergio Fabbrini, Franco Gallo, Anthony Giddens, Daniel Innerarity), avevano firmato un appello agli organi dell’Unione europea per integrazione bancaria fiscale economica politica, ma rimase inascoltato.

Anche altri politici hanno espresso la volontà di costruire un cosiddetto “campo largo” che comprenda la sinistra e il centro sinistra, ma è necessario impegnarsi perché manca meno di un anno alle prossime consultazioni europee e non è stato scandito a chiare lettere come dovrebbe essere questa Europa unita.

Sappiamo che dovrà essere ospitale e solidale, ma non basta per mettere d’accordo centinaia di milioni di persone, in gran parte interessate a sapere cosa ci guadagnano concretamente e non filosoficamente. Se si esclude l’impegno europeista di Emma Bonino, con la sua +Europa https://piueuropa.eu/, che si può sintetizzare con l’obiettivo di realizzare gli Stati uniti d’Europa, nessun altro europeista ha contribuito all’Europa dalle molteplici culture.

Gli Stati uniti d’Europa strutturati con un’unica politica economica ed estera, oltre alla difesa integrata, non avrà bisogno di tutori o padrini e l’ultimato di Trump a tutte le nazioni che intendono continuare a fare business con l’Iran potrebbe essere l’occasione per l’Europa di affrancarsi dai capricci statunitensi tronfi e obesi che non possono continuare a mangiare all’infinito: forse è tempo di mettersi a dieta.

In un’epoca dove gli schieramenti sono fluidi, le alleanze variabili e i fronti indefiniti, l’Europa deve contare su sé stessa per una globalizzazione prima di tutto interna che si rapporti concretamente alle realtà locali.

Gianīs Varoufakīs, economista e ministro delle finanze nel primo governo Tsipras, nel 2016 ha lanciato il Democracy in Europe Movement 2025, un movimento politico paneuropeo che cerca di sensibilizzare, criticamente, all’europeismo.

La voglia di Europa si esprime in vari modi ad esempio con Europeana, un sito web inaugurato nel 2008 e cofinanziato dall’Unione europea, che non si limita ad essere un accesso, anche se macchinoso, al patrimonio bibliotecario diverse istituzioni dei paesi membri, ma anche alle opere d’arte e di argomenti storici.

Europeana, nel primo giorno, non resse i 10 milioni di utenti e venne riproposta nel gennaio del 2009 con, inizialmente, più di metà dei contenuti forniti dalla Francia, in gran parte della il 10% dalla Gran Bretagna, l’1,4% dalla Spagna e l’1% dalla Germania.

L’Italia è presente con il portale nazionale CulturaItalia e la Francia con Bibliothèque nationale de France e la Germania, dal 2012, contribuisce con Deutsche Digitale Bibliothek.

Non può essere un Europa dei volontari vuoi in ambito migratorio e ora anche per l’utilizzo dell’ora solare o legale e magari scegliere a quale fuso orario aderire. Non è così che si realizza il sogno di Ventotene di un’Unione europea.

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L’Occidente, Putin e l’effetto domino

    • di Axel Famiglini –

 

Le elezioni politiche italiane e la formazione del nuovo governo nazionale a guida “giallo-verde” rappresentano un chiaro esempio di come lo scenario geopolitico mondiale stia mutando nella direzione della costituzione di nuovi equilibri internazionali. La crisi economica e l’incapacità della compagine politica di stampo moderato di fare fronte alle problematiche più impellenti di una società democratica in grave affanno sociale, economico e culturale quale è quella italiana hanno favorito la scalata verso il potere delle principali formazioni politiche di stampo populista, le quali sono infine riuscite a raggiungere i vertici dei palazzi istituzionali romani. L’utilizzo spregiudicato dei media sociali ha rappresentato l’elemento trainante di una propaganda “anti-sistema” che si è dimostrata a tal punto abile a manipolare ai propri fini la rete di internet da riuscire a fornire un supporto determinante ed indispensabile per la creazione di un inedito e vasto consenso elettorale a favore dei partiti che sostengono l’attuale maggioranza di governo. Non deve altresì sorprendere che sia la Lega che il Movimento Cinque Stelle si ricolleghino a vario modo ad una più ampia galassia di formazioni populiste di stampo “euro-asiatico” quali, ad esempio, quella di Marine Le Pen in Francia, Viktor Orban in Ungheria e Nigel Farage nel Regno Unito le quali, a loro volta e su vari livelli, sono riconducibili al più vasto sforzo politico-militare e mediatico della Russia di Putin, finalizzato primariamente ad accrescere la sfera di influenza russa sia sul continente europeo che in altre aree di crisi come il Medioriente.

L’esito delle elezioni italiane, tuttavia, non può non essere correlato con l’evento politico che ha rappresentato lo spartiacque fondamentale relativo alle più recenti relazioni in essere tra Occidente e Russia ovvero l’elezione alla Casa Bianca di Donald Trump. Il presidente Trump ed i suoi sostenitori, come noto, sono portatori di una subcultura fortemente “anti-establishment”, il che, a mano  a mano che questi soggetti politici si sono infiltrati attraverso la società civile e hanno occupato i principali gangli del potere, li ha condotti in modo naturale a scontrarsi con quelle che erano le “casematte” degli apparati burocratici e governativi tradizionali. Non ci si deve pertanto stupire che Mosca abbia, al momento opportuno, colto l’opportunità di avvicinare i membri più influenti dell’entourage di Donald Trump in modo tale da favorire un candidato che avrebbe indotto gli Stati Uniti a compiere scelte politiche che con ottime probabilità sarebbero risultate assai vantaggiose per gli interessi domestici ed internazionali del Cremlino. In tal senso è noto quanto il controverso Steve Bannon abbia supportato l’affermazione dell’attuale compagine di governo italiana e quanta influenza Bannon possieda ancora in seno all’estrema destra americana, a tal punto da poter essere quasi considerato, nonostante i rapporti assai tesi nonché controversi con Trump, una sorta di agente provocatore itinerante dell’estrema destra “a stelle e a strisce”. La convergenza di interessi tra ultradestra americana, partiti populisti europei e l’agenda del Cremlino è fin troppo palese per essere posta seriamente in dubbio e la recente defenestrazione dal governo del presidente Usa di Rex Tillerson e H.R. McMaster rappresenta purtroppo la cartina di tornasole di quanto gli apparati burocratici tradizionali “a stelle e a strisce” ormai non siano più in grado di tenere a freno un Trump che si sta emancipando dalla tutela impostagli dagli apparati statali stessi e dalla classe politica americana più moderata all’indomani della sua elezione alla Casa Bianca. Lo strappo nel recente G7 in Canada con i principali alleati euro-atlantici e la quasi commovente “corrispondenza d’amorosi sensi” con il giovane dittatore nordcoreano Kim Jong-un testimoniano una volta di più la predilezione del presidente Usa per una gestione verticistica, autoritaria, istintuale nonché familistica della cosa pubblica. Donald Trump ha dimostrato di apprezzare in misura assai maggiore relazioni istituzionali ed umane con quella porzione di globo che l’Occidente ha sempre collocato fra i “paria” della comunità internazionale e questo nonostante il presidente stesso, coltivando tali sconvenienti simpatie, sia più volte caduto nel ridicolo a causa di relazioni interpersonali palesemente sbilanciate a favore della controparte di turno. Purtroppo il presidente degli Stati Uniti non sembrerebbe essere connotato solo da una mera disarmante ingenuità, al contrario appare così profondo il proprio risentimento nei confronti di un “establishment” che non ha affatto sentito il sacro dovere di esprimere il proprio costante apprezzamento nei suoi confronti così come lui si sarebbe aspettato e così come avrebbe ritenuto assolutamente doveroso da parte altrui, che Trump stesso parrebbe piuttosto pronto a buttare alle ortiche decenni di consuetudini politiche collaudate e di relazioni internazionali di capitale importanza pur di continuare ad ottenere facili lusinghe da parte dei suoi sostenitori domestici ed internazionali e pur di danneggiare, al contrario, la vasta massa di critici che, oltretutto, hanno osato ostacolarlo in tutti i modi fin dall’inizio della sua presidenza, financo attraverso l’istituzione di una commissione di inchiesta sulle possibili interferenze russe nel corso delle elezioni presidenziali Usa. L’intera vicenda potrebbe sembrare quasi grottesca se non fosse per il fatto che gli Stati Uniti rappresentano il perno principale attorno al quale è stato edificato l’intero ordine mondiale del secondo dopoguerra e che il presidente Trump si stia prestando ad essere una sorta di (inconsapevole?) demolitore dell’ordine euro-atlantico, seminando discordia e producendo contrasti fra gli stessi alleati occidentali, il tutto a pieno beneficio di Russia, Cina ed alleati, i quali, dopo aver raccolto le macerie lasciate alle proprie spalle da Trump stesso e dai suoi “compagni di merende”, riplasmeranno nuove alleanze a loro uso esclusivo. Ripercorrere, pur per sommi capi, la vicenda politica dell’estrema destra americana degli ultimi anni è fondamentale al fine di analizzare il gravissimo stato di sofferenza geopolitica in cui versano sia gli Stati Uniti che l’intero mondo occidentale da questi dipendente. La crisi economica mondiale del 2007-2008, originatasi, non a caso, negli Usa, ha toccato l’intimo del cuore della società americana, la quale si trovava già da anni all’interno di una grave crisi sociale e culturale nonché identitaria. La stessa economia americana, fin dagli anni ’90 del secolo scorso, aveva iniziato a poggiare le sue fondamenta sulle sabbie mobili prodotte dalla globalizzazione e la tempesta finanziaria scatenata dai mutui subprime non ha fatto altro che mettere in luce tale stato di cose. Il neoeletto presidente Barack Obama, dopo aver cavalcato il malcontento della gente ed aver promesso una svolta radicale per il Paese, ha in realtà promosso una politica meramente volta alla gestione di quello che ormai sembrava essere l’ineluttabile declino degli Stati Uniti d’America. Tuttavia se da un lato la Casa Bianca ha ideologicamente preteso di mostrare con “eccessiva ostentazione” la debolezza degli Usa nel mondo, dall’altro Obama ha fortemente indisposto tutti coloro che si sentivano in qualche modo minacciati dalle politiche spiccatamente ideologiche di Obama stesso. La destra americana, alla disperata ricerca di un uomo forte al comando che la salvasse dal “mondo alla rovescia” proposto da Barack Obama, ha infine riconosciuto nella figura del presidente russo Putin una guida ideale a cui ispirarsi e da cui ripartire per ricostruire il Paese dopo otto anni di governo “castrista” del primo presidente americano di colore. Le politiche divisive e radicali di Obama unite agli effetti sociali della crisi economica hanno creato i presupposti affinché nella destra americana ci potessero essere le condizioni per un impensato avvicinamento ideale tra Mosca e Washington. Pur di evitare che ad Obama succedesse la “liberal” Hillary Clinton, le frange più estreme del partito repubblicano hanno avvallato non solo la candidatura di Donald Trump ma hanno addirittura accettato che l’aiuto di Mosca fosse determinante nell’elezione del presidente degli Stati Uniti. Appare evidente che una situazione di tal fatta risulti globalmente destabilizzante nonché fondamentalmente fatale per l’impalcatura sulla quale si regge l’intera costruzione geostrategica del mondo occidentale, soprattutto se consideriamo il fatto che lo stesso presidente americano e gli apparati burocratici tradizionali si trovano sovente su due linee di condotta palesemente opposte e complessivamente autodistruttive e paralizzanti. Si veda ad esempio il caso siriano, nel quale l’effimero attacco anglo-franco-americano contro gli ormai vuoti depositi di armi chimiche del regime di Assad è stato viziato da ogni genere di contraddittorietà: dalle remore di Mattis per un possibile conflitto con la Russia, alla necessità di Trump di creare una cortina fumogena mediatica finalizzata ad oscurare i numerosi scandali che lo affliggono. Appare evidente che gli unici beneficiari di una America ormai completamente alle deriva siano Russia e Cina, le quali, sfruttando i continui sbandamenti della Casa Bianca, stanno via via erodendo il terreno sotto i piedi del mondo occidentale.

L’insana politica dei dazi promossa dalla presidenza Trump nei confronti di alleati storici come l’Europa ed il Canada rappresenta il più grande regalo che la Casa Bianca potesse mai conferire a Mosca sia in termini politici che militari. Da un punto di vista della storia della politica internazionale, Donald Trump sta riuscendo laddove neppure l’Unione Sovietica aveva mai osato arrivare, ovvero sta iniziando a scolpire la pietra tombale sia della Nato che dei più vasti rapporti transatlantici oggi ancora in essere. Indubbiamente la crisi dell’Alleanza Atlantica possiede radici ben più antiche di quelle della presidenza Trump, tuttavia la contraddittoria politica dell’ “America First”, naturalmente benedetta dal Cremlino, sta fornendo il colpo di grazia ad un sistema di potere politico-militare che ha garantito settant’anni di pace in Europa ed ha allontanato lo spettro globale della guerra nucleare.

Nel caso della Corea del Nord, il regime di Pyongyang ha, a sua volta, ben compreso quali fossero la natura e le esigenze del nuovo inquilino della Casa Bianca e ha sfruttato la situazione a proprio vantaggio per ottenere un’insperata legittimazione internazionale da parte del Paese più potente ed influente del mondo. Da alcuni mesi la Corea del Sud, temendo che “crazy horse” Donald Trump, alla disperata ricerca di un qualche genere di successo sul piano internazionale da sbandierare ad uso domestico,  sferrasse un attacco militare contro il Nord, ha cercato di forzare la mano della riappacificazione fra le due Coree rafforzando indirettamente l’ala più “aperturista” ed “anti-sistema” della amministrazione americana, alla fine ottenendo però in cambio il repentino consolidamento del regime del Nord della penisola, l’inquietante promessa formulata dallo stesso Donald Trump tesa ad un progressivo disimpegno Usa dalla regione (con grande soddisfazione della Cina) ed un fumoso impegno “bipartisan” per la denuclearizzazione dell’intera penisola coreana su cui francamente non si sa ancora assolutamente nulla (in tal senso Mike Pompeo non avrà gioco facile a convincere gli alleati asiatici degli Americani, come il Giappone e la stessa Corea del Sud, che Trump non intendesse affermare esattamente quello che ha promesso pubblicamente al dittatore nordcoreano). La politica della sanzioni alla Corea del Nord, per quanto possa aver avuto alcuni effetti positivi al fine di ammorbidire gli elementi più intransigenti del regime e di portarli al tavolo delle trattative, apparentemente non ha sortito gli effetti voluti perché se da un lato Russia e Cina hanno continuato a tenere in vita  Pyongyang attraverso rifornimenti occorsi in mare in maniera semi-clandestina, dall’altro Mosca e Pechino hanno incoraggiato la Corea del Nord ad assecondare il peculiare modus operandi del presidente Trump, dato che a “The Donald”, in fin dei conti, sarebbe solamente bastato sbandierare ai media il presunto successo ottenuto a Singapore, non essendo in realtà questi minimamente interessato ad ottenere risultati concreti e politicamente impegnativi che siano in aperta contraddizione con l’imperativo categorico espresso dallo slogan elettorale  “America First”. Alla fine dei giochi   il regime di Pyongyang riuscirà probabilmente a conservare il proprio arsenale nucleare e missilistico con la benedizione sia di Pechino che del Cremlino.

Nel caso iraniano, il ritiro americano dall’accordo sul nucleare di Teheran rappresenta un’ulteriore degenerazione della politica americana, ormai, per l’appunto, caratterizzata più che altro solo da distruttivi messaggi mediatici o da poco altro. Le critiche della destra americana sull’accordo sul nucleare iraniano sono condivisibili nel loro impianto generale, tuttavia il ritiro unilaterale di Washington da tale intesa da un lato non produrrà alcun effetto sugli atteggiamenti iraniani in Medioriente dato che Trump, dopo aver estromesso la fazione più interventista del suo governo, ha confermato di volersi disimpegnare dallo scenario siriano una volta debellata completamente l’ISIS, dall’altro ha già generato un’ulteriore spaccatura tra Europa e Stati Uniti, il tutto a vantaggio sia della Russia che dell’Iran oltreché, da un punto di vista più globale, della Cina. Il ritiro americano dall’accordo sul nucleare iraniano, oltreché squalificare del tutto la credibilità diplomatica di Washington, non ha fatto altro che rafforzare la destra iraniana conservatrice, minando in questo modo l’autorevolezza politica faticosamente conquistata dell’ala riformista del Paese e mettendo in difficoltà coloro che, a cavallo tra il 2017 e il 2018, in buona fede (c’è chi sospetta che le manifestazioni di protesta contro il governo di Rouhani siano state in primo luogo opera degli ayatollah), sono scesi nelle strade delle maggiori città dell’Iran per esprimere il proprio dissenso nei confronti di un regime che drena le risorse nazionali per alimentare un insano avventurismo politico e militare nel Medioriente. Certamente la rinnovata crisi con l’Iran ha contribuito al rialzo del prezzo del petrolio, fatto forse non del tutto secondario per i gruppi di potere che sostengono il presidente Trump e che devono supportare opportunamente lo sviluppo dello shale oil americano attraverso un prezzo del barile adeguato.

Il teorema di Mosca formulato sul presidente Trump si è dimostrato corretto e sicuramente Trump rappresenta il miglior investimento politico che la Russia abbia mai fatto, perlomeno in tempi relativamente recenti. Certamente Trump non ha ancora il potere e la libertà di azione tali da riuscire a  bloccare con un atto di imperio gli estremi tentativi degli apparati tradizionali americani di imporre sanzioni a Mosca, ciononostante, nel medio periodo, se le cose andranno come previsto dal Cremlino, l’intero edificio su cui si basa la politica sanzionatoria occidentale potrebbe andare in frantumi. Appare infatti evidente che mano a mano che Trump saprà prendere in mano in maniera sempre più efficacie e diretta le redini del potere, la sua influenza sugli apparati politici Usa e sui governi politicamente a lui affini si potrebbe accrescere con modalità forse oggi imprevedibili. In tal senso, come si è già visto nel corso dell’ultimo sorprendente G7, il trumpismo, smentendo senza remore le stesse politiche ufficiali della Casa Bianca, potrebbe trovare il modo di riportare la Russia fuori dall’angolo in cui l’Occidente stesso ha provato a porla senza nei fatti riuscirci. Inoltre questo calamitoso “trait d’union” in essere tra trumpismo, sovranismo e putinismo a poco a poco potrebbe sovvertire tutte le democrazie in crisi di identità del continente europeo, corrodendo passo dopo passo la già fragile opposizione alle politiche di Putin espressa da parte dell’Unione Europea. In questo contesto la prossima vittima di questa sorta di danza macabra tra gli Usa di Trump, la Russia di Putin e la Cina potrebbe essere proprio il “vecchio continente”. Lo scenario europeo appare in effetti assai sconfortante, già di per sé viziato da interessi economici nei confronti della Russia assolutamente dirompenti e divisivi. Il Regno Unito non riesce a trovare la quadra su una “Brexit” (una vera manna dal cielo per Mosca) ricolma di lati oscuri e si sta ritrovando sempre più isolato sia in Europa che nei confronti dei sempre più lontani partner americani, gli stessi su cui Londra sperava ingenuamente di appoggiarsi per supportare la Brexit sul piano internazionale nonostante la deriva “anti-establishment” di Trump stesso. Theresa May oltretutto è politicamente in difficoltà sia in Patria che all’estero ed i rapporti con Trump sono ai minimi storici dato che Trump non intende in nessun modo farsi dettare l’agenda politica dal numero dieci di Downing Street. A fatica il Regno Unito è riuscito a trovare adeguata solidarietà nel presidente degli Stati Uniti a seguito del caso Skripal e se altri partiti filorussi dovessero emergere vincitori dalle elezioni di importanti Paesi europei, Londra potrebbe trovare sempre più arduo supportare sui tavoli della diplomazia le proprie istanze internazionali contro Mosca. A riprova di quanto siano tese le relazioni tra Mosca e Londra basti ricordare che la Russia addirittura è recentemente arrivata ad accusare Londra di aver inscenato l’attacco chimico di Douma al fine di provocare l’intervento militare occidentale in Siria.  La Francia di Macron ha tentato di svolgere un’azione di mediazione sia con Washington che con Mosca ma senza alcun successo sia sul caso siriano che su quello iraniano. Iniziative quali quelle del cosiddetto “Small Group”, tese a rivitalizzare una leadership americana sulla crisi siriana che però non trova supporto ai più alti vertici presidenziali, pur ben congegnate per buona parte degli intenti strategici proposti già contengono al loro interno i limiti di un’azione che non può essere sostenuta ai massimi livelli dell’organizzazione statale americana vista la politica trumpiana tesa ad un accomodamento con la Russia e a ribadire ad ogni occasione il mantra dell’ “America First”. In tale ottica non è chiaro in che modo Macron voglia farsi portavoce presso il presidente Putin di un organismo nato “morto” fin dalla nascita, avendo Trump “licenziato” Rex Tillerson, il quale sosteneva la necessità della permanenza dei militari americani in Siria in sinergia con i Curdi (causando tuttavia le ire dei Turchi) ai fini di garantire all’Occidente una credibile e realmente influente presenza strategica in terra damascena. Come se ciò non bastasse, continuare ad affermare da parte di Francia e Regno Unito che  esista solo una soluzione politica alla crisi siriana appare più che altro come un sintomo di estrema debolezza visto che sia la Russia che l’Iran stanno imponendo la propria soluzione militare sul terreno la quale sta a sua volta plasmando in maniera inappellabile l’intero scenario geopolitico della regione.  Parigi, principale sponsor della caduta del regime di Gheddafi, sta altresì guidando l’ennesima iniziativa di pacificazione in Libia, cercando di porre sotto la propria tutela il multiforme generale Haftar. L’attivismo francese non piace però all’Italia ed indubbiamente tutto ciò pesa e peserà nel rapporto fra i due Paesi, soprattutto ora che l’Italia si sta ponendo in contrapposizione ideologica con Macron anche a causa del problema degli immigrati clandestini che premono sul nostro Paese. Sia la Francia che il Regno Unito potrebbero a breve subire ulteriori contraccolpi geopolitici negativi relativi al fallimento totale della rivoluzione siriana, i cui ultimi brandelli superstiti potrebbero avere ormai le ore contate nel sud della Siria mentre probabilmente sopravviveranno in parte nel nord del Paese solo grazie alla spregiudicata politica di una Turchia ormai giocatrice libera alle prese sia con il deflagrante problema curdo lungo la propria frontiera meridionale che con il destabilizzante dilagare russo-iraniano nella regione. L’Europa oltretutto paga il prezzo delle sue contraddizioni nei confronti dell’Iran, avendo coltivato l’assurda e folle speranza di poter combattere “a basso prezzo” Teheran in Siria e contemporaneamente fare affari tranquillamente con essa in territorio iraniano, come se ciò non comportasse nessuna conseguenza sullo scenario internazionale. Appare certamente incredibile che l’Europa, a causa dei suoi numerosi interessi economici in Iran, sostenga, in piena contrapposizione politica con gli Usa, la conservazione dell’accordo sul nucleare di Teheran e che contemporaneamente l’Iran e la Russia, cerchino da un lato di fare fronte comune con l’Europa sulla questione dell’intesa sul nucleare iraniano mentre tentino allo stesso tempo dall’altro di scalzare l’Europa e l’Occidente nei rimanenti ambiti globali. Indubbiamente, però, i dazi americani all’Europa non stanno aiutando a pervenire ad una convergenza politica tra UE ed USA sulla questione iraniana. Nel mondo arabo le cose non vanno certamente meglio ed anzi la perdurante spaccatura tra Arabia Saudita e Qatar sta rafforzando il fronte iraniano ai danni sia delle sorti dello scenario geopolitico siriano che di quello libanese. I recenti dissapori in territorio yemenita tra le fazioni sostenute dall’Arabia Saudita e quelle supportate dagli Emirati Arabi Uniti rappresentano un ulteriore elemento di contrasto all’interno di una coalizione che con fatica sta cercando di contenere l’influenza iraniana in seno alla penisola arabica. Israele dal canto suo si rende ben conto che la situazione in Medioriente sia già sfuggita di mano agli Americani  e se da un lato plaude al ritiro americano dall’accordo sul nucleare iraniano e al possibile ripristino delle sanzioni economiche dall’altro cerca di seminare zizzania tra Iraniani e Russi sperando che Mosca freni le pulsioni espansionistiche di  Teheran. Il recente “viaggio della speranza” di Netanyahu a Mosca va certamente letto nella direzione di un sostegno israeliano al Cremlino in funzione anti-iraniana. La corresponsabilità israeliana nella decisione di Trump (deliberazione in primo luogo volta a soddisfare la destra americana filo-israeliana, la stessa che già ha preteso il ritiro americano dall’accordo sul nucleare iraniano) di spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme non contribuirà al miglioramento della stabilità nell’area anche se la sostanziale accondiscendenza dei Paesi arabi sulla questione testimonia più che altro la maggiore preoccupazione dei Paesi del Golfo per l’inarrestabile dilagare iraniano rispetto a quella per le sorti dei Palestinesi, già di per sé abbastanza “collusi”, tramite Hamas, con i desiderata di Teheran. Certamente l’aver accresciuto i motivi di insoddisfazione dei Palestinesi e l’aver incrementato i punti di convergenza tra essi e l’Iran possono non essere considerati un’abile mossa da parte di Tel Aviv. Parimenti gli accordi che Israele, Russia e regime siriano starebbero realizzando “sottobanco” ai danni dei resti dell’opposizione siriana ubicata nel sud della Siria a ridosso del confine ed inerenti il controllo dello stesso a favore del regime stesso (ma ai danni dell’Iran) non fanno particolare onore agli statisti dello stato di Israele dato  che se da un lato gli Israeliani forse stanno riponendo eccessiva fiducia rispetto alle proprie forze difensive e alle promesse di aiuto dell’alleato Trump, dall’altro Tel Aviv sta dimostrando una spregiudicatezza ed una doppiezza tale da lasciare alquanto perplessi per quanto tale situazione non susciti particolare stupore visto il clima da “si salvi chi può” in atto. I sempre più frequenti attacchi preventivi israeliani in territorio siriano contro postazioni di Iraniani ed alleati  di Hezbollah potrebbero in realtà risultare complessivamente inefficaci sul piano strategico ed ulteriormente destabilizzanti per la regione, accrescendo la probabilità di un nuovo conflitto regionale che veda questa volta coinvolto Israele stesso. L’Iran, dal canto suo, non accenna a voler allentare la propria presa sulla Siria ed in Iraq non sembra aver particolarmente gradito l’esito delle ultime elezioni politiche.

Lo scenario che si prospetta è indubbiamente assai preoccupante. In Estremo Oriente Donald Trump ha appena sdoganato il regime nordcoreano, nei fatti contribuendo ad accrescere ulteriormente il determinante ruolo politico, diplomatico, economico e militare della Cina e della Russia sullo scacchiere internazionale. Il presidente degli Stati Uniti, pur inizialmente pavoneggiandosi dietro a toni bellicosi caratterizzati da elevata immaturità politica e personale, a fronte di un atteggiamento nordcoreano quasi di carattere adolescenziale, ha stabilito un surreale legame di reciproca comprensione filiale con  Kim Jong-un (quasi da “paria” a “paria”), aprendo nei fatti la strada per lo sviluppo di relazioni similari (nel caso fosse Putin la controparte diplomatica, si presume che questi potrebbe impersonare, agli occhi del “piccolo” Donald, il ruolo del “Piccolo Padre” di zarista memoria) nelle quali nei fatti si potrebbe addivenire, a pieno vantaggio di Mosca e Pechino, ad una sostanziale legittimazione delle istanze geopolitiche russo-cinesi in seno alle maggiori aree di crisi internazionali, ovviamente ai danni sia dell’Occidente che dei suoi alleati. Naturalmente se tali considerazioni avranno effettivamente un seguito di carattere pratico, la stessa “diatriba” iraniana potrebbe infine concludersi, dopo alcune tonanti dichiarazioni di “rito” della Casa Bianca, con una sostanziale accettazione dello status quo imposto dall’Iran e sponsorizzato dalla Russia, ove però sarebbe Israele questa volta a subire i più pesanti contraccolpi causati da una mal riposta fiducia nel presidente Trump. Parimenti la crisi ucraina potrebbe conoscere il suo più triste epilogo con la fine del governo filo-occidentale di Kiev, fra l’altro finora incapace di far decollare una proposta politica concretamente alternativa rispetto a quella del precedente regime filo-russo. Il governo ucraino, sostenuto in maniera insufficiente dall’Occidente,  è purtroppo dilaniato da destabilizzanti personalismi, da una endemica corruzione e dalla sostanziale incapacità di risolvere la crisi in corso con la Russia sia nel Donbass e nella Crimea. Tornando all’area del Pacifico, i dazi americani alla Cina appaiono più che altro come una sorta di mera foglia di fico di una più vasta “battaglia del grano” in salsa trumpiana contro i presunti nemici e sfruttatori globali dell’economia americana, quasi come se la sola egemonia mondiale del dollaro ottenuta “manu militari” non bastasse per formulare un’accusa di ampia e reiterata slealtà economica e commerciale degli Usa nei confronti di gran parte dei partner mondiali. I dazi promossi da Washington sono del tutto insufficienti per “spezzare le reni” a Pechino, anche perché l’economia “a stelle e a strisce” e quella “del dragone” sono da anni fortemente interdipendenti e questo a causa proprio delle errate politiche di delocalizzazione promosse dagli Usa stessi alla fine della guerra fredda. Oltretutto la politica dei dazi americani alla Cina collide con la richiesta di Washington di una collaborazione con Pechino per la denuclearizzazione della penisola coreana. Allo stesso modo i pattugliamenti per la tutela della libertà di navigazione promossi in larga misura dalla marina americana non stanno ottenendo nulla di concreto al fine di “sloggiare” la Cina dalle postazioni avanzate occupate in maniera illegittima nei mari dell’Estremo Oriente. In Medioriente Russia ed Iran stanno dettando l’agenda politico-militare mentre l’Europa, da settant’anni dipendente dalla macchina militare americana, è ormai politicamente bloccata a causa del drastico mutamento di rotta della stessa amministrazione statunitense e dell’insufficienza di adeguati mezzi logistici e militari che i Paesi europei ancora non hanno ritenuto di dover in qualche modo colmare nonostante i mutamenti geopolitici in corso. La scommessa di Cameron e Sarkozy, risalente al 2011 con l’avventura in Libia, finalizzata ad indurre gli Americani in crisi di leadership a condurre conflitti laddove le proprie politiche nazionali lo richiedessero o dove l’ordine internazionale lo esigesse, è stata tragicamente persa e lo si è visto chiaramente nel recente attacco condotto contro i già svuotati arsenali chimici di Assad, azione minimale che a stento è riuscita a concretizzarsi dato che gli Americani (il Pentagono) sono stati riluttanti fino all’ultimo nel condurre questo genere di operazione militare (lasciando fra l’altro tutto il tempo a Russi ed Iraniani di sgomberare completamente il campo) mentre May e Macron cercavano in tutti modi – ironia della sorte – di supportare Trump per non fare l’ennesima figuraccia come accaduto nel 2013.

L’Europa rimane pertanto sola in uno scenario di grave crisi della politica, dello stato di diritto e dell’ordine internazionale. L’Unione Europea possiede indubbiamente le sue colpe per l’attuale stato di cose. Le politiche del rigore “a tutti i costi” e della pervicace sordità alle esigenze dei Paesi più deboli dell’Unione hanno prodotto inenarrabili disastri come accaduto in Grecia dove tutt’ora non vi sono concrete speranze per un vero miglioramento delle condizioni di vita delle persone maggiormente in difficoltà. Intere classi dirigenti sono state spazzate via dalla crisi economica e dalle politiche di austerità di Bruxelles e nel vuoto creatosi sono penetrati movimenti di ispirazione populistica che traggono i propri riferimenti ideali non dai principi propri delle liberal-democrazie ma dai dettami dell’autoritarismo custoditi dalle gelide mura del Cremlino. In Polonia è insediato un governo di stampo autoritario che tuttavia teme l’aggressiva ascesa della Russia e mantiene pertanto una posizione filo-occidentale anche se fortemente trumpiana. In Ungheria l’autoritarismo di Orban, assai vicino a Mosca, è già ben noto. Sia la Repubblica Ceca che l’Austria sono guidati da governi che già da tempo salutano con fin troppo calore l’ormai eterno inquilino del Cremlino. La stessa Grecia viene considerata da alcuni come una sorta di centrale d’ascolto moscovita e certamente Mosca sta osservando con interesse la rinnovata rivalità fra Atene ed Ankara sul mare Egeo, in particolare ora che gli Americani appaiono abbastanza assenti anche da questo scenario. L’Italia ha scelto la strada “russa” nelle recenti elezioni e già se ne vedono alcuni effetti nei rapporti con la Francia nel merito della questione degli immigrati clandestini e, più in generale, sul tema della gestione della crisi libica. La consonanza con Trump del governo Conte, subito rimarcata nel corso dell’ultimo G7 in riferimento ai rapporti con la Russia, può trasformare l’Italia in un curioso laboratorio politico, ovvero il “Bel Paese” potrebbe tramutarsi nella spina nel fianco perfetta sia di Berlino che di Parigi anche se laddove in Europa Trump trova consensi è poi Putin a raccogliere un nuovo alleato mentre l’Occidente “guadagna” semplicemente un altro “cavallo di Troia” del Cremlino dentro casa propria. A fronte di tale situazione ciò che rimane di più genuino in Europa delle vecchie democrazie liberali risiede proprio in seno ai Paesi ubicati nella parte occidentale e  settentrionale del “vecchio continente”, ovvero in quell’area vagamente identificabile con il mai completamente riuscito asse “carolingio-germanico” di nazionalità franco-tedesca il quale possiede quale unico e poderoso elemento persuasivo nientepopodimeno che la nostra moneta unica ovvero l’euro. Dato che nessun Paese aderente alla moneta unica per ora si è proposto seriamente di abbandonare l’euro, l’unione monetaria rimane al momento salva e con essa anche quel sufficiente peso politico ed economico che l’Europa con sede a Bruxelles può utilizzare per sopravvivere da un lato alle insidie della Russia e dall’altro alle politiche aggressive dell’America di Trump. Potremmo domandarci se oggi un’ Unione Europea forte convenga sia a Mosca che a Washington e probabilmente la risposta che saremmo costretti a darci appare negativa. D’altra parte il sostegno ideale che Donald Trump offrì alla Brexit fu orientato contro l’idea di Unione Europea stessa, non certamente per una sua personale simpatia nei confronti del Regno Unito come qualcuno oltremanica aveva voluto credere per via delle sue ascendenze scozzesi. A voler analizzare con estrema sincerità gli ultimi eventi della politica sia nazionale che estera, il vero pericolo che si sta insinuando in Europa e nel mondo è il lento riaffermarsi dell’autoritarismo e ciò ha potuto avere luogo in prima istanza a causa di classi politiche che da un lato non hanno saputo rispondere con solerzia e comprensione alle necessità reali delle popolazioni da queste amministrate e che dall’altro non sono state in grado né di incarnare né di promuovere la necessaria educazione politica che una società democratica necessita per poter perdurare con profitto lungo il percorso a volte accidentato della storia. L’attuale crisi del mondo occidentale trae origine primariamente da una crisi delle istituzioni democratiche e da una grave sofferenza sociale direttamente connessa alla crisi della classe media. In tal senso non possiamo certamente incolpare la Russia di tutti i mali relativi al nostro sistema elettorale, tuttavia Putin non ha fatto altro che osservarci con distaccata attenzione e colpirci laddove eravamo più fragili. Se pertanto vogliamo evitare che l’Europa naufraghi fra i flutti dell’autoritarismo putiniano e della volgarità trumpiana dovranno essere i governi europei ancora ispirati dai principi di libertà e tolleranza  a trovare la strada per fermare questa deriva catastrofica sia per il “vecchio continente” che per il più generale ordine internazionale.

Se questa opera di recupero dei valori fondanti della civiltà occidentale non venisse effettuata con urgenza e con adeguata determinazione, temo che nessun Paese europeo, Germania inclusa, potrà  considerarsi immune dalle ammalianti  e dilaganti sirene del trumpismo e del putinismo ormai attestate con successo in mezza Europa e pronte ad insediarsi al governo di quei Paesi nei quali la politica tradizionale non risultasse in grado di resistere alla devastante tempesta geopolitica attualmente in corso.

su Frontiere
del 15 giugno 2018
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Flat Tax aumenta le disparità: lo dimostra la Russia di Putin

 

di Mario Lettieri e Paolo Raimondi

La flat tax, di cui tanto si parla in questa campagna elettorale, non è la parola magica per la giustizia fiscale del nostro paese. Anche se non è la cattiva parola da demonizzare tout court. I limiti e gli obblighi costituzionali non si possono ignorare. Nel caso, quindi, di una sua eventuale e deprecabile introduzione, sarà necessario individuare meccanismi di deducibilità che rendano effettivo il principio della progressività.

È doveroso prima di ogni decisione valutare quanto è accaduto e accade nei paesi in cui la flat tax è stata introdotta. Il caso emblematico ci sembra quello russo, dove le famiglie povere e quelle indigenti sono fortemente aumentate tanto da spingere le masse delle periferie urbane e i residenti nei territori rurali a chiedere di rivedere il sistema fiscale, introducendo forme di progressività nella tassazione.

In Russia, com’è noto, nel 2001 Putin, al suo primo mandato, introdusse la tassa fissa del 13% per tutti, ricchi e poveri, singoli e imprese, aziende produttive e società dubbie. Egli aveva raccolto un paese in ginocchio, devastato dalla corruzione del periodo di Eltsin, dalla penetrazione della finanza speculativa internazionale, dalla svendita delle ricchezze nazionali alle grandi corporation e dal sostanziale fallimento dello Stato del 1998.

E quel che era più grave, c’era una generale sfiducia. Nessuno aveva fiducia nel rublo, nessuno pagava le tasse, o per corruzione o per indigenza. I cosiddetti oligarchi «spostavano» centinaia di miliardi di dollari a Londra o nei paradisi fiscali. Perciò la tassa del 13% servì anzitutto a riportare un certo ordine e un po’ di razionalità nel sistema economico. Fu il modo per garantire un minimo di stabilità politica e un minimo di entrate fiscali.

Pertanto il vero motore della ripresa russa, più che la flat tax, è stato lo sfruttamento delle risorse energetiche, del petrolio e del gas, le cui riserve, insieme alle altre ricchezze naturali, sono enormi.

Per anni, la Russia ha incassato elevate fatture dalla vendita di crescenti quantità di risorse energetiche. Nel frattempo si è frenata in qualche modo sia la corruzione sia la fuga dei capitali. Si ricordi che in questi anni la differenza tra il costo di produzione e il prezzo di vendita di petrolio e gas ha garantito entrate davvero eccezionali. Tanto che nel 2008 il classico barile di petrolio ha toccato la vetta di 150 dollari!

L’andamento della diseguaglianza. Il 10 percento della popolazione arriva a detenere il 56 percento degli introiti nazionali per anno in India; in Canada, USA e Russia detiene circa il 45 percento degli introiti annui. Nei Paesi dell’Unione Europea la diseguaglianza è relativamente più contenuta.

Oggi, però, la Russia, come altri paesi, sta vivendo una crescente e pericolosa ineguaglianza economica e sociale. Soprattutto dopo le sanzioni economiche e il crollo del prezzo del petrolio. C’è un recente studio del Credit Suisse in cui si dimostra come la Russia sia uno dei più «disuguali» paesi del mondo: il 10% della popolazione detiene l’87% della ricchezza della nazione. L’1% della popolazione detiene il 46% dei depositi bancari.

Anche la situazione della tanto decantata Ungheria merita un’attenta disamina. Il paese, si ricordi, è entrato nell’Unione europea nel 2004 mantenendo però la sua moneta nazionale, il fiorino.

Con una popolazione di 10 milioni di persone, nel 2008 aveva un pil di 157 miliardi di dollari a prezzi correnti. A seguito della crisi globale, nel 2011 il prodotto interno scese a 140 miliardi e nel 2012 a 125.

Nell’ultimo periodo ci sono stati dei miglioramenti nell’economia magiara, trainata dalla piccola ripresa europea e soprattutto dall’attivismo industriale della vicina Germania.

Non sembra che l’introduzione della flat tax del 16%, avvenuta nell’anno 2001, abbia aiutato la ripresa e le crescita in Ungheria. Ciò che ha invece veramente aiutato Budapest a mantenere una certa stabilità sono stati gli aiuti rilevanti da parte dell’Unione europea e la sua partecipazione al mercato unico europeo.

Gli aiuti sono stati riconfermati anche recentemente: dal 2004 al 2020 l’Ungheria riceverà da Bruxelles sovvenzioni per complessivi 22 miliardi di euro, cioè oltre 3,5 miliardi l’anno. Sono soldi che provengono anche dall’Italia, nonostante la forsennata propaganda magiara anti euro e anti Unione europea.

Si ricordi che l’Italia contribuisce al bilancio dell’Ue con ben 20 miliardi di euro e ne riceve 12. Gli 8 miliardi rappresentano il contributo netto dell’Italia. Se fossimo trattati come l’Ungheria dovremmo ricevere, in proporzione alla popolazione italiana che è 6 volte quella magiara, aiuti da Bruxelles per 22 miliardi di euro ogni anno. Altro che flat tax!

(Questo articolo è pubblicato in Italia Oggi del 16-02-2018)

Pubblicato il 17 febbraio 2018

su Frontiere

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Afghani: rimpatri forzati fra le bombe

Tornano. Sono costretti a tornare nel Paese da cui erano fuggiti per cercare un’esistenza futura. Sono migliaia di afghani che, come altri migranti e rifugiati, si vedono respinti dall’aria che tira in Europa, un’aria xenofoba fomentata o subìta dai tanti governi Ue. Che in troppe circostanze, e nelle più diverse latitudini, non hanno attuato un’adeguata politica dell’accoglienza e dell’inserimento delle emergenze migratorie, così da ritrovarsi decine di migliaia di vite in sospeso. E nelle condizioni più varie: dalle para-detenzioni di taluni centri di accoglienza, alla ghettizzazione e all’autoemarginazione in città e campagne di chi cerca di arrangiare un’agra realtà pur di non tornare negli inferni conosciuti. Di chi si fa fantasma sociale pur rientrando nella catena dell’uso e dello sfruttamento di mano d’opera. Un fenomeno discusso dalla gente per via, prima che dai politici nelle sedi istituzionali e nei salotti televisivi. Discusso spesso in assenza d’informazioni, lamentando le proprie contraddizioni crescenti, col sangue agli occhi per la contrapposizione dei diritti e lo scontro razziale e razzista che ne consegue. E l’Italia non è fra le piazze peggiori, visti i muri e le minacce sollevati in questi anni dal pensiero neonazista riagitato nell’Europa della tradizione e della conservazione. Indifferenti all’orgiastica competizione dell’assassinio di civili per accaparrarsi la leadership del terrore che è in atto da due anni fra talebani e Isis del Khorasan, i governi del nostro continente aumentano i rimpatri forzati di richiedenti asilo afghani.

Nel 2016 avevano respinto circa 10.000 individui, compresi molti minori, nell’anno che s’è chiuso la cifra è aumentata, nonostante siano cresciute le vittime nelle province dove gli afghani vengono rispediti. Ma a premier e ministri degli Interni dei Paesi dell’Unione, anche quelle anime politiche che si fanno belle di sani princìpi di cristiana ospitalità poco interessa il contorno esterno. Premono ragioni di Stato e i risultati elettorali di un’Occidente ormai assillato da paure e chiusure, una società che si asfissia in una futile tecnologia della pace, trasferendo i prodotti della propria tecnologia della morte nel mondo posto sotto tutela. Cui s’aggiunge la sciagurata potestà delle alleanze economiche e geostrategiche che disegnano i disastri presenti nei luoghi di crisi. Con l’ultimo governo locale, frutto delle fallimentari alchimie sperimentate nei sedici anni di occhi e mani sull’Afghanistan, l’Occidente ha siglato il patto “Joint way foward”. Come nei tanti progetti sparsi dall’imperialismo  attorno alle sventure create, di condiviso in quella sigla non c’è nulla. Anzi, niente di più unilaterale si nasconde nella proposta rivolta al presidente Ghani. Se il Paese non accetterà di riprendere gli afghani che le nazioni rispediscono al mittente, Kabul, che già deve fare i conti coi serrati assalti jihadisti e talebani, vedrà tagliarsi i fondi  con cui l’Occidente lo mantiene in un comatoso stato di sopravvivenza. L’Afghanistan risponde a una tipologia di rentier-state. Utilizzato dalla Nato, e principalmente dagli Usa, quale avamposto militare strategico per l’Asia. Le basi aeree di: Kabul, Bagram, Parvan, Charikar, Kandahar, Khost, Paktia, Maza-e Sharif, Jalalabad garantiscono al Pentagono osservazioni, controllo e incursioni tramite F-16 e droni.

L’altra rendita proviene dallo sfruttamento del sottosuolo dove, nell’ultimo quindicennio, sono state scoperte vene minerarie cui è interessata l’industria bellica e l’high-tech. In realtà molti rilievi erano stati fatti a inizi anni Ottanta, durante l’occupazione sovietica. I russi, da sempre attenti a fonti energiche e materie prime, avevano compiuto scandagli, sapendo che per conformazione geologica gli urti fra subcontinente indiano e piattaforma asiatica aveva stratificato vari metalli. Dal 2004 l’Us Geological Survey, grazie all’occupazione dell’Enduring Freedom, ha formalizzato le ispezioni attorno a giacimenti di rame, ferro, cobalto, alluminio, mercurio, litio e le famose ‘terre rare’, stimando in mille miliardi di dollari il patrimonio di quelle viscere. A sfruttare talune riserve, il rame ad esempio, copioso in un punto dove c’è un’antichissima area archeologica (Mes Aynak) è il China Metallurgical Group. Il governo Karzai ne cedette l’estrazione trentennale all’azienda di Pechino in cambio di tre miliardi di dollari. Come per altre concessioni avvenute in questi decenni (terreni per le basi aeree, terreni per la coltivazione dell’oppio) non se ne è avvantaggiato il Pil del Paese; i capitali sono finiti nelle tasche di uomini di governo, clan familiari, clan tribali, Signori della guerra. Perché chi vuol sfruttare le risorse, dall’esterno e dall’interno, consente solo questa via. In quest’Afghanistan vengono rispediti, a morire o patire, i ragazzi che cercano un domani nella vecchia Europa.

Enrico Campofreda
Pubblicato 30 gennaio 2018
Articolo originale
dal blog Incertomondo
nel settimanale Libreriamo

L’Europa in cerca di una nuova anima

La nuova Cortina di Ferro all’interno dell’Unione europea vede ampliarsi il Gruppo di Visegrád (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria) con lo spostamento a destra dell’Austria e che farà muro contro l’impennata d’orgoglio dell’Ue nell’attivazione delle procedure previste dall´Articolo 7 dei Trattati, quando si riscontrano delle violazioni gravi di uno Stato membro, la Polonia, dei valori fondamentali dell’Unione.

La Polonia rischia sanzioni che prevedono la riduzione degli aiuti e la sospensione dei diritti di voto, per aver approvato una riforma che mina l’indipendenza della giustizia polacca, mettendo in pericolo lo Stato di diritto.

Il vicepresidente della Commissione europea e Commissario europeo per la migliore legislazione, Frans Timmermans, ha affermato che la Polonia ha adottato, in questi ultimi anni, 13 leggi capaci di mettere in pericolo i valori fondamentali per uno stato democratico.

L’Europa solo ora si accorge di quanto la Democrazia sia in pericolo in Polonia, dopo aver lasciato da sole tutte quelle migliaia di persone che hanno manifestato per settimane contro il progetto legislativo per ingabbiare la Giustizia.

Per sospendere la Polonia dal diritto di voto in Consiglio, prevista dall’articolo 7 del Trattato, serve l’unanimità degli Stati membri che si prevede difficilmente raggiungibile, vista l’opposizione scontata dell’Ungheria di Viktor Orbán e degli altri del Gruppo di Visegrá.

Il Consiglio d’Europa potrebbe sospenderli tutti, dopo aver riscontrato non solo una deriva autoritaria nei singoli paesi, ma anche per la loro avversità a conformarsi alle scelte sulla ripartizione della ricollocazione dei richiedenti asilo all’interno della Ue.

Anche in occasione della risoluzione di condanna del riconoscimento unilaterale di Gerusalemme capitale d’Israele, messa in votazione all’assemblea generale Onu, lo schieramento dei paesi dell’est europeo (Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Romania), si è differenziato dal resto della Ue, scegliendo di astenersi e non esprimere un voto contrario.

L’Europa, in occasione del caso Polonia, si sta muovendo non più per procedure di infrazione di ordine economico, ma per i valori fondanti dell’UE, e ciò potrebbe essere l’occasione di rifondare Unione sui principi originari e non solo sugli interessi economii.

Per l’Europa, ritrovare l’Anima del Manifesto di Ventotene, è un’opportunità per riscattarsi dai tanti anni di arido tecnocratismo e trovare un’unità nei valori etici piuttosto che sulla convenienza.

Una convenienza che i paesi di Visegrá sembrano aver ben messo a frutto e ora, dopo aver preso tutto il possibile dalla Ue, si apprestano rendere difficile la convivenza tra gli stati membri.

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Qualcosa di più:
Europa: anche i tecnocrati sognano
Migrazioni, cooperazione Ue-Libia | L’ipocrisia sovranazionale
Migrazione | Conflitti e insicurezza alimentare
Migrazione in Ue: il balzello pagato dall’Occidente
Macron: la Libia e un’Europa in salsa bearnaise
L’Europa e la russomania
Europa: Le tessere del domino
Europa: ogni occasione è buona per chiudere porte e finestre
Europa: la Ue sotto ricatto di Albione & Co.
Europa e Migrazione: un mini-Schengen tedesco
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Europa: i nemici dell’Unione
Europa: la confusione e l’inganno della Ue
Tutti gli errori dell’Unione Europea
Un’altra primavera in Europa

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Magazine di Spunti & Riflessioni sugli accadimenti culturali e sociali per confrontarsi e crescere con gli Altri con delle rubriche dedicate a: Roma che vivi e desideri – Oltre Roma che va verso il Mediterranea e Oltre l’Occidente, nel Mondo LatinoAmericano e informando sui Percorsi Italiani – Altri di Noi – Multimedialità tra Fotografia e Video, Mostre & Musei, Musica e Cinema, Danza e Teatro Scaffale – Bei Gesti